L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Shakespeare nel Settecento

di Francesco Lora

La ripresa di Roméo et Juliette di Gounod al Teatro alla Scala è mal servita dal già ben conosciuto allestimento salisburghese con regìa di Sher. Il versante musicale, però, ha vette d’eccellenza nell’orchestra, nel coro, nella concertazione di Viotti e nel canto della Damrau e di Grigolo.

MILANO, 26 gennaio 2020 – Quando è stato rappresentato al Teatro alla Scala nel 2011, Roméo et Juliette di Charles Gounod vi mancava da 77 anni. Dopo la latitanza, ci ha preso gusto: nove stagioni più tardi, ecco un nuovo ciclo di otto recite, ben distribuite dallo scorso 15 gennaio al prossimo 16 febbraio. L’allestimento è sempre quello già creato per il Festival di Salisburgo e poi passato al Metropolitan di New York: regìa di Bartlett Sher, scene di Michael Yargan e costumi di Catherine Zuber. Quasi tutto è da dimenticare, in particolare alla luce dell’inspiegabile trasposizione spazio-temporale a un Settecento cartolinesco, caricaturale e oleografico: visto con gli occhi di chi l’ha più immaginato che studiato, quel secolo rimane estraneo alla collocazione originale, a Shakespeare, a Gounod, a una precisa idea del drammaturgo contemporaneo nonché alla nitida comprensione del pubblico odierno. Quasi tutto è da dimenticare, si diceva; quasi, dal momento che le zuffe a spade sguainate, con un maestro d’armi come H.B. Barry, sono una realistica meraviglia. Se poi si vuole proseguire a elencare ciò che non va, si aggiungeranno i brutti tagli alla partitura, che perde in tal modo l’integra fisionomia da aspirante grand opéra, e l’intervallo piazzato non tra l’uno o l’altro dei cinque atti, bensì tra i due quadri del terzo, con un’evidente alterazione del respiro concepito dagli autori.

Favoloso è, al contrario, il debutto operistico di Lorenzo Viotti alla Scala. Questi trova, anzi modella, un’orchestra e un coro sfarzosi, fieri e compatti nell’esibizione di timbri, corpo e colori; non è aiutato dal contesto – per ciò che si è scritto e per ciò che si scriverà – a narrare e miniare, ma evoca all’ascolto atmosfere che hanno il vortice sensoriale qui precluso all’occhio sul palcoscenico; commuove infine nel ricordare – egli che è invece un accorto mentore del repertorio contemporaneo – il padre Marcello, il quale era uno dei più innamorati specialisti dell’Ottocento francese.

La famiglia Viotti è rappresentata, in questo Roméo et Juliette, anche dalla sorella Marina, buon mezzosoprano prestato a una vivace caratterizzazione della parte di Stéphano. Quanto agli interpreti principali, conoscono da anni le parti protagoniste. Di recita in recita Diana Damrau, come Juliette, guadagna fresca levità di canto: l’unico ostacolo rimane una lettura teatrale che la occupa in superficiali querele, risatine e giravolte anziché motivarla all’indagine psicologica e alla varietà espressiva. Diversamente, il farsi annunciare indisposto prima della recita recensita è una precauzione inutile per Vittorio Grigolo; il suo Roméo, infatti, ottimo rimane: per astuta, briccona, saporosa, avvincente e accattivante presenza scenica; per inconfondibile personalità timbrica e per tecnica da non sottovalutare; per la generosa risonanza cui corrisponde la cura di sfumature e pronuncia. I casi si fanno disparati tra gli altri cantanti in locandina: v’è il disinibito lusso di Sara Mingardo nel ruolo da caratterista – qui assai caricato – di Gertrude; v’è il vulcanico Mercutio di Mattia Olivieri (che dovrebbe però cercare maggiori smalto e volume); v’è Nicolas Testé a far sognare cosa un Michele Pertusi caverebbe dalla parte di Frère Laurent; e vi sono le prove attente di Frédéric Caton come Capulet, di Ruzil Gatin come Tybalt, di Edwin Fardini come Pâris e di Jean-Vincent Blot come Duca di Verona.

<p align="JUSTIFY"><strong>Shakespeare nel Settecento</strong></p>

<p align="JUSTIFY">di Francesco Lora</p>

<p align="JUSTIFY"><strong>La ripresa di </strong><em><strong>Roméo et Juliette</strong></em><strong> di Gounod al Teatro alla Scala è mal servita dal già ben conosciuto allestimento salisburghese con regìa di Sher. Il versante musicale, però, ha vette d’eccellenza nell’orchestra, nel coro, nella concertazione di Viotti e nel canto della Damrau e di Grigolo.</strong></p>

<p align="JUSTIFY">MILANO, 26 gennaio 2020 – Quando è stato rappresentato al Teatro alla Scala nel 2011, <em>Roméo et Juliette</em> di Charles Gounod vi mancava da 77 anni. Dopo la latitanza, ci ha preso gusto: nove stagioni più tardi, ecco un nuovo ciclo di otto recite, ben distribuite dallo scorso 15 gennaio al prossimo 16 febbraio. L’allestimento è sempre quello già creato per il Festival di Salisburgo e poi passato al Metropolitan di New York: regìa di Bartlett Sher, scene di Michael Yargan e costumi di Catherine Zuber. Quasi tutto è da dimenticare, in particolare alla luce dell’inspiegabile trasposizione spazio-temporale a un Settecento cartolinesco, caricaturale e oleografico: visto con gli occhi di chi l’ha più immaginato che studiato, quel secolo rimane estraneo alla collocazione originale, a Shakespeare, a Gounod, a una precisa idea del drammaturgo contemporaneo nonché alla nitida comprensione del pubblico odierno. Quasi tutto è da dimenticare, si diceva; <em>quasi</em>, dal momento che le zuffe a spade sguaiate, con un maestro d’armi come H.B. Barry, sono una realistica meraviglia. Se poi si vuole proseguire a elencare ciò che non va, si aggiungeranno i brutti tagli alla partitura, che perde in tal modo l’integra fisionomia da aspirante <em>grand opéra</em>, e l’intervallo piazzato non tra l’uno o l’altro dei <em>cinque</em> atti, bensì tra i due quadri del terzo, con un’evidente alterazione del respiro concepito dagli autori.</p>

<p align="JUSTIFY">Favoloso è, al contrario, il debutto operistico di Lorenzo Viotti alla Scala. Questi trova, anzi modella, un’orchestra e un coro sfarzosi, fieri e compatti nell’esibizione di timbri, corpo e colori; non è aiutato dal contesto – per ciò che si è scritto e per ciò che si scriverà – a narrare e miniare, ma evoca all’ascolto atmosfere che hanno il vortice sensoriale qui precluso all’occhio sul palcoscenico; commuove infine nel ricordare – egli che è invece un accorto mentore del repertorio contemporaneo – il padre Marcello, il quale era uno dei più innamorati specialisti dell’Ottocento francese.</p>

<p align="JUSTIFY">La famiglia Viotti è rappresentata, in questo <em>Roméo et Juliette</em>, anche dalla sorella Marina, buon mezzosoprano prestato a una vivace caratterizzazione della parte di Stéphano. Quanto agli interpreti principali, conoscono da anni le parti protagoniste. Di recita in recita Diana Damrau, come Juliette, guadagna fresca levità di canto: l’unico ostacolo rimane una lettura teatrale che la occupa in superficiali querele, risatine e giravolte anziché motivarla all’indagine psicologica e alla varietà espressiva. Diversamente, il farsi annunciare indisposto prima della recita recensita è una precauzione inutile per Vittorio Grigolo; il suo Roméo, infatti, ottimo rimane: per astuta, briccona, saporosa, avvincente e accattivante presenza scenica; per inconfondibile personalità timbrica e per tecnica da non sottovalutare; per la generosa risonanza cui corrisponde la cura di sfumature e pronuncia. I casi si fanno disparati tra gli altri cantanti in locandina: v’è il disinibito lusso di Sara Mingardo nel ruolo da caratterista – qui assai caricato – di Gertrude; v’è il vulcanico Mercutio di Mattia Olivieri (che dovrebbe però cercare maggiori smalto e volume); v’è Nicolas Testé a far sognare cosa un Michele Pertusi caverebbe dalla parte di Frère Laurent; e vi sono le prove attente di Frédéric Caton come Capulet, di Ruzil Gatin come Tybalt, di Edwin Fardini come Pâris e di Jean-Vincent Blot come Duca di Verona.</p>


 

 

 
 
 

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