I colori di Violanta

di Alberto Ponti

Nella prima rappresentazione italiana dell’atto unico di Korngold alla scoperta di una gemma dimenticata si affiancano i consensi per l’evocativa messinscena di Pizzi e la direzione curatissima di Steinberg che valorizza appieno l’orchestra e i mezzi vocali del cast

TORINO, 28 gennaio 2020 - Al suo apparire sulla scena viennese di inizio Novecento, Erich Wolfgang Korngold (1897-1957) fu considerato quasi un secondo Richard Strauss. Figlio di un influente critico musicale, compositore tra i più precoci della storia, assai considerato da bacchette top dell’epoca come Gustav Mahler e Bruno Walter, ancora adolescente poteva vantare un corpus di lavori di successo in tutti i generi, dal teatro alla partitura cameristica. Nonostante l’esplosione di popolarità, destinata a raggiungere il culmine con l’opera Die tote Stadt (1920), la stella di Korngold finì per eclissarsi nell’Europa avviata sulla strada dei totalitarismi. Alla progressiva emarginazione contribuirono le radici ebraiche, ma gli anni trenta portarono in dote un remunerato contratto con la Warner Brothers che gli consentì di trascorrere l’esilio americano in condizioni di assoluto benessere, diventando allo stesso tempo un ricercato e raffinato autore di colonne sonore per il cinema di Hollywood. Ritornato in Austria dopo il conflitto, constatò come la sua musica fosse stata nel frattempo dimenticata a favore dello stile più radicale della seconda scuola di Vienna, che cominciava proprio in quegli anni il cammino di affermazione per il mondo. Ormai cittadino statunitense, il compositore morì all’improvviso appena sessantenne nella sua bella casa di Toluca Lake. Le note biografiche non sono fini a se stesse e rendono l’idea di un talento grandissimo che tuttavia, se si eccettuano gli esordi nella favolosa Vienna dei primi due decenni del Novecento, si trovò sempre leggermente sfasato rispetto alle correnti culturali dominanti nella prima metà del secolo breve, pur avendo ottenuto dalla propria arte gloria e denaro. Emerge un personaggio affascinante e contraddittorio e, per chi volesse approfondire, rimandiamo al breve ma illuminante saggio di Alberto Bosco all’interno del bel volume pubblicato dal Teatro Regio in occasione della prima italiana di Violanta.

Arriviamo così al titolo che è una tra le principali novità della stagione lirica torinese. Il lavoro, scritto tra il 1914 e il 1915, impressiona ancora oggi per le capacità di cui dà prova un ragazzo non ancora diciottenne. L’abilità nell’inventare melodie morbide e sensuali, a partire da spunti disseminati fin dal preludio con coerenza architettonica stringente, è addirittura prodigiosa e giustifica appieno la fama di genio che lo accompagnò da subito. Il vasto atto unico di Violanta è da un lato certamente debitore ai modelli straussiani di Salome ed Elektra anche se finisce per differenziarsene grazie a un’orchestrazione altrettanto abile ma meno aggressiva. Se il bavarese punta a ghermire l’ascoltatore con scatti rapinosi, Korngold, lungi dal puntare al successo di scandalo, si preoccupa soprattutto di piacere e dipingere con tavolozza iridescente una storia ammaliante. L’intera opera è basata sul più classico dei triangoli amorosi: Alfonso, figlio illegittimo del re di Napoli, ama Violanta, sposa del capitano della Repubblica di Venezia Simone Trovai. Decisa a vendicare la sorella, sedotta dallo stesso Alfonso, irriducibile tombeur de femmes, lei chiede al marito di uccidere lo spasimante. In realtà Violanta è segretamente attratta dall’uomo che odia e durante la scena madre del duetto finale finisce per confessarglielo e cadere tra le sue braccia. Simone sorprende la coppia e si scaglia con la spada su Alfonso ma, nel tentativo di proteggerlo, sarà la moglie a perdere la vita.

Nonostante il modesto libretto di Hans Müller, scialbo emulo di un Hofmannsthal, la partitura si sviluppa, nel suo trasfigurarsi graduale dall’atmosfera festosa del carnevale veneziano alla tragica stoccata finale, come un continuo e calcolato crescendo di tensione destinato a sciogliersi solo nello splendido ed ispirato dialogo tra Violanta ed Alfonso, che va annoverato di diritto tra i maggiori esiti del teatro musicale tardoromantico. Motore dell’intera vicenda, con peso preponderante rispetto agli altri personaggi, è l’eroina del titolo, impersonata nella recita subalpina dall’ottima Annemarie Kremer, soprano vocalmente attrezzato per esprimere sia la sottile e conturbante sensualità da femme fatale disposta a pianificare per vendetta la morte di Alfonso, sia la passione infuocata a cui ella stessa finisce per cedere. La cantante olandese alterna così le impalpabili sfumature dell’animo femminile ai colori accesi di un’intonazione capace di mantenersi sempre lucida e tersa, senza mai allentare la tensione narrativa.

Il tenore Norman Reinhardt è un Alfonso versatile e ricco di pathos, e supera di slancio la temibile prova richiesta dal compositore: entrare in scena col motore già a mille per affrontare in medias res il grande duetto con la protagonista. Timbro caldo e intenso, più sicuro e convincente sul versante lirico che su quello drammatico, Reinhardt dispiega un canto sincero ed appassionato che valorizza al meglio l’inesauribile tavolozza emotiva delle ultime tre scene.

Oltre a Michael Kupfer-Radecky, cui era demandata la parte di basso di Simone, sostenuta da un dosaggio attento, pur con talune ruvidezze, dei mezzi vocali e ben scolpita sotto il profilo attoriale si guadagna convinti applausi il mezzosoprano Anna Maria Chiuri nel cammeo di gran classe della nutrice Barbara. Di buon livello i numerosi comprimari di un’opera in cui si sovrappongono spesso diverse linee di canto, con la partecipazione anche del coro diretto da Andrea Secchi: Giovanni Bracca (il tenore Peter Sonn), Bice (il soprano Sonia Parassidis), Matteo (il tenore Jean Folqué), primo e secondo soldato (Cristiano Olivieri e Gabriel Alexander Wernick, rispettivamente tenore e baritono), prima e seconda ancella (Eugenia Braynova e Claudia De Pian, soprano e mezzosoprano).

Pierluigi Pizzi, autentica star di inizio 2020 al Regio, fresco della regia de Il matrimonio segreto, sfrutta le suggestioni decadenti di una Venezia lunare e sfuggente, allestendo un sontuoso interno damascato giocato per intero sulle tonalità di rosso, dal mattone al cremisi. Lo sguardo sul mondo di fuori è colto da un’ampia apertura circolare al centro del palcoscenico attraverso cui, in un raffinato gioco di specchi, si ammirano, filanti sulle acque, riflessi di gondole altrimenti intuite dal solo passaggio delle prue emergenti sul fondo. Un fascino conturbante emana dai costumi, che trasportano l’ambientazione dal quattordicesimo secolo ai primi anni del ventesimo, attualizzando il dramma della gelosia con efficacia che travalica di molto il simbolismo un po’ polveroso e ridondante del libretto.

Eccellente infine la performance dal podio di Pinchas Steinberg, cui Torino riserva un’accoglienza festosa e affettuosa. A lui va ascritto il merito non da poco di aver fatto prendere all’orchestra del teatro, al gran completo per l’occasione, confidenza con il suono lussureggiante di Korngold, tanto da dar l’impressione di assistere a una pagina del grande repertorio in cui Violanta d’altronde non sfigurerebbe. Esemplari sono la scansione ritmica, la resa sontuosa della tavolozza cromatica, lo slancio degli incisi melodici, l’esaltazione di minimi dettagli quali controcanti, pause, armonie annidate tra le pieghe di una scrittura in grado di rivelarsi fonte illimitata di sorprese.

Una notevole operazione culturale premiata dalle ovazioni di un pubblico accorso entusiasta ad ognuna delle cinque recite in programma.

foto Edoardo Piva