Taxi per l'inferno

di Roberta Pedrotti

Si rivela profetica la scelta, annunciata un anno fa, sel coraggio come tema fondante del Macerata Opera Festival 2020. Non solo perché, con concretezza ideale e senza inutile audacia, riesce a riportare l'opera in forma scenica completa, ma anche perché lo fa con un Don Giovanni davvero magnifico, un viaggio metafisico e perfettamente intellegibile sul crinale fra vita e morte, ragione e inconscio, libertà. Il lavoro ben congiunto di Francesco Lanzillotta e Davide Livermore convince appieno anche grazie alla felice scelta del cast e alla partecipazione ben affinata e motivata di tutti gli elementi.

MACERATA 18 luglio 2020 -  Fino a qualche settimana fa non ci si credeva. Invece si può fare. Il teatro, e il teatro d'opera più che mai, è l'espressione del mondo che lo crea e lo rappresenta, non teme l'attualità proprio perché nell'attualità vive, non è un trastullo astratto, ma un organismo presente, attivo, ricettivo e reattivo.

Fino a qualche settimana fa non ci si credeva. Invece si deve fare, anzi, è indispensabile farlo, ineluttabile. Sono i drammi e gli ostacoli a manifestare il senso del teatro fuori dalle confortevoli consuetudini dell'intrattenimento, anzi, dimostrando come il linguaggio peculiare dell'opera, anche se costretto a rinunciare ad alcune abitudini, può ripensare le sue convenzioni e continuare a parlare senza paura di perdere un'identità più profonda dei fronzoli, delle cornici, dei gesti usati.

Quando Francesco Lanzillotta sale sul podio, mascherina sul volto e camicia bianca come vuole il tema del Macerata opera Festival 2020 – un profetico #biancocoraggio – e leva la bacchetta, sentiamo fisicamente la distanza fra gli strumenti, ma non è un limite, perché quel suono che ci arriva non è disomogeneo o disarticolato, è semplicemente spazioso. Si avvertono le voci singole, ma concordi, le fonti separate ma unite in un unico disegno, la trama larga e quindi inizialmente più chiara e sottile che si stringe nel corso della serata, si compatta con il procedere del dramma senza perdere un'illuministica lucidità anche là dove Lanzillotta coglie e sviluppa le atmosfere notturne di "Sola, sola in buio loco" o del terzetto del cimitero. La cura meticolosa farebbe desiderare di riascoltare questo Don Giovanni al chiuso, con tutti i crismi acustici, eppure la situazione è sempre di coerenza ed esattezza anche quando le distanze fra i cantanti non favoriscono il perfetto affinamento degli assiemi più delicati, come il terzetto delle maschere o il duettino fra Anna e Ottavio nell'epilogo. Le variazioni sempre ben scelte conferiscono mordente alla scrittura come è giusto che sia, dimostrando che il rispetto dello stile è linfa vitale per l'interprete; parimenti il cembalo (ahimè, digitale) partecipa alla scrittura orchestrale come elemento di coesione e fraseggio senza diventare un invasivo pleonasmo.

Soprattutto, la visione filologicamente consapevole quanto libera e moderna di Lanzillotta si sposa alla perfezione con quella metafisica di Davide Livermore, scevra da psicologismi di maniera, anzi portata, nella sua dimensione interiore, a farsi universale. Questo nato per Oranges e ripensato radicalmente per Macerata in tempo di pandemia, è davvero uno degli spettacoli più riusciti del regista torinese, privo di tentazioni spettacolari o decorative, di compiacimenti tecnici, di soluzioni che sappiano di maniera e non di sostanziale aderenza all'idea. Non è l'originalità a ogni costo quella che cerca, ma l'esplorazione di un viaggio intorno alla morte, la libertà, la morale. Un viaggio ciclico, eterno, com'è l'esperienza di questo Don Giovanni che nell'uccidere il Commendatore con un colpo di pistola ne viene a sua volta ferito a morte. Cadono entrambi a terra, e il momento si dilata, intorno a quel cadavere o al rettangolo illuminato che ricorda la sepoltura ancora aperta. Don Giovanni vive questa vita sospesa, questa non vita sull'orlo della morte attraversandola sul taxi di un Leporello psicopompo, che lo guida sulle soglie del mito, dell'aldilà, della carne e della speculazione. Emerge il Settecento, emblema dell'immaginario legato all'opera di Mozart e Da Ponte, ma anche dell'illuminismo, della filosofia libertina, della ragione e della crisi che sfocia nel sovvertimento delle tradizioni e dell'ancien régime. Emerge il contemporaneo, a parlare di noi e dire che Don Giovanni non si identifica con un'epoca, ma la trascende. Sul muro nudo dello Sferisterio si proietta un palazzo neoclassico in continua evoluzione, ora in rovina, quasi simile a vestigia romane, ora ridotto a sagome spettrali, distorte, ora ricoperto da graffiti contemporanei, ora catapultato fra elementi naturali, mari e galassie, nell'infinito. 

L'azione distanza, complice l'ampiezza del palco, quasi non s'avverte, e pare naturalissima, anche per l'abile intervento di mimi e tersicorei che nei costumi possono integrare mascherine e animano come spettri, visioni e ossessioni i festini del libertino. Quando Leporello, cui già abbiamo attribuito la qualifica di guida delle anime nell'aldilà, canta "Ah padron, siamo tutti morti" si avverte un brivido vero. La morte di Don Giovanni si reitera inesorabile e non siamo già più nel mondo reale, vivi fra i vivi. Siamo in un'altra dimensione, che è quella del sottile crinale fra ragione i irrazionale su cui si muove Mozart nel suo tempo e che lo rende eterno e attuale in ogni tempo. 

Mattia Olivieri, giovane, atletico, debitamente energico e tormentato, agilissimo, con una voce ben timbrata ma capace anche di emissioni spigolose, di sacrificare l'edonismo dell'emissione alla teatralità del canto, è il protagonista ideale di uno spettacolo come questo, ma non è da meno il Leporello di Tommaso Barea, dotato di buona pasta vocale, gusto, presenza dinamica e incisiva. Giovanni Sala, poi, sa che in Don Ottavio l'eleganza non deve trasformarsi in svenevole passività e fa apprezzare anche una gestione e una tenuta dei fiati davvero ammirevoli. Davide Giangregorio è un Masetto schietto e combattivo, anche se ben calibrato nella sua condizione subalterna, mentre Antonio di Matteo ha tutta l'autorevolezza ultraterrena che si conviene a un Commendatore ancora più inquietante del consueto, anche perché dall'aria non proprio limpida e raccomandabile.

Sul versante femminile, Karen Gardeazabal è una gradita sorpresa come Donn'Anna: molto musicale, dalla voce limpida che corre senza problemi, supera agevolmente lo scoglio del rondò del secondo atto senza mancare di offrire una prestazione attoriale convincente, definendo un personaggio puro, deciso e ferito, senza sospetti di complicità con il seduttore. D'altra parte, il lavoro di Livermore è proteso alla chiarezza dei caratteri senza banalizzazioni, ma in un contesto focalizzato sul percorso universale di Don Giovanni, su caratteri ben definiti, non sullo scandaglio delle ambiguità singole. Allora, anche Lavinia Bini ci ricorda come il candore di Zerlina possa essere declinato senza farne una pupattola zuccherosa, ma mostrando la freschezza e l'ingenuità non prive di una sana sensualità. Immagine di un'ossessione, ma anche lei mai sopra le righe, Valentina Mastrangelo, che aveva esordito all'Aslico come Donn'Anna, passa invece ora a Elvira, e par quasi inevitabile che di trovi a suo agio soprattutto in "Mi tradì quell'alma ingrata", scritta per Caterina Cavalieri a Praga. Nondimeno, là dove la stesura viennese sollecita maggiormente il registro grave e alletta i mezzosoprani, con gusto, musicalità ed espressione risulta incisiva ed efficace, sempre compresa nel suo personaggio. Tutti, d'altra parte, danno sempre l'impressione di essere lì perché così deve essere, convinti, coerenti, affiatati. Come deve essere perché il teatro funzioni e abbia senso, perché il piacere non sia svago superficiale ma si ritrovi nello stimolo al pensiero, nel ondividere un mezzo e un fine, un codice e un linguaggio per confrontarsi su un testo e un messaggio, non perdersi nei rivoli del confronto con il già noto, della ricerca dell'errore o della differenza: per quello c'è La settimana enigmistica, che fa egregiamente il suo mestiere, ma l'arte è un'altra cosa.

Il concertatore, i solisti, i mimi, gli artisti del coro lirico marchigiano Vincenzo Bellini diretto da Martino Faggiani, i collaboratori di Livermore (Antonio Castro per le luci, fondamentali e significative come i video di D-Wok, gli assistenti Giancarlo Judica Cordiglia e Stéphanie Putegnat), l'orchestra filarmonica marchigiana rappresentata in proscenio dal primo violino, i lavoratori dietro le quinte e idealmente tutto lo staff del Macerata Opera Festival meritano un caloroso ringraziamento. E, irritualità che data la situazione diventa quasi precetto, sono Francesco Lanzillotta e Davide Livermore a prendere il microfono fra gli applausi per ricordare quale miracolo si sia rinnovato anche stasera, quello del teatro che unisce, rinasce, si rinnova anche (se non soprattutto) di fronte alle difficoltà.

foto Tabocchini