L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il turbine e il vuoto

di Roberta Pedrotti

Dopo Il barbiere di Siviglia, l'Opera di Roma, Daniele Gatti e Mario Martone tornano in Rai, e in prima serata, con un film-opera. Negli spazi del teatro vuoto La traviata consuma la sua tragedia nella visione serratissima di Daniele Gatti, con le ottime prove di Roberto Frontali e Lisette Oropesa, mentre delude l'Alfredo di Saimir Pirgu.

Squadra che vince non si cambia: Daniele Gatti, Mario Martone e l’Opera di Roma avevano firmato con la Rai uno strepitoso Barbiere di Siviglia, ora, sull’onda del successo, si fa il bis con La traviata. Dal debutto cauto nel sabato pomeriggio di Rai3 si punta più in alto e si concede (evviva!) all’opera la prima serata del canale generalista: un ottimo primo risultato nelle politiche aziendali che speriamo gli ascolti abbiano premiato. Per contro, è inevitabile che le aspettative e il confronto pesino nel pubblico più appassionato, ma soprattutto i titoli sono diversissimi per drammaturgia e carattere, la produzione non ha i tempi ruspanti e avventurosi dello scorso dicembre, rimangono difficoltà musicali oggettive (registrare un film non è come cantare una recita in teatro) sebbene sia possibile uno sviluppo cinematografico maggiore con riprese in esterni che, tuttavia, non aggiungono granché all’idea.

Ad ogni modo, se per vari motivi non siamo ai livelli geniali del precedente, con questa Traviata ci troviamo di fronte a un buon prodotto, ben realizzato e con molte frecce al suo arco.

Mario Martone sa fare il suo mestiere benissimo, in teatro come al cinema; dice la sua e non cerca l’originalità a ogni costo, specie con un’opera che è come un meccanismo a orologeria in cui ogni gesto, ogni sguardo, ogni nota ha un infallibile e delicatissimo rapporto di causa effetto. Si respira, in primo luogo, l’atmosfera del romanzo, in cui Marguerite e Armand si incontrano per la prima volta a teatro, in un palco. Il Costanzi, allora, è il mondo di Violetta, non per forza sic et simpliciter un bordello, ma un labirinto di boudoir, salottini, sale gioco, dove ricchi, ricchissimi bevono, fumano oppio, ballano stretti e sgangherati, consumano orge. Quel che, insomma, raccontano Dumas e la letteratura dell’epoca, quel che Verdi mette in musica con quei brindisi, quei valzer ostentati, quel vociare in crescendo di viziosi mascherati. La fuga d’amore in campagna non è che un’illusione senza futuro, quinte dipinte di locus amoenus che Alfredo immortala su tela e che Germont padre smonta lasciando nudo il retropalco. Al centro, fulcro di tutto, il letto: letto di peccato su cui i clienti erano usi gettare i cappotti (e quando Germont compie lo stesso gesto lo sguardo atterrito di Violetta è eloquente), letto d’amore pure, letto di morte nella sala deserta. La musica si ascolta integrale, ma in quel momento non c’è più nemmeno l’orchestra, la gioia fatale di Violetta si accascia solitaria nel nulla, mentre lentamente risale il lampadario che era rimasto finora calato al livello della platea. Allora si comprende che dietro la narrazione lineare della prostituta che si innamora, a cui la società impedisce di cambiare vita e che muore giovane consumata dalla malattia, dietro alla lettera del libretto c’è un’altra storia, quella del gretto tripudio del Bue Grasso che imperversava per strada, in abiti contemporanei, mentre l’opera abita il suo spazio chiuso, mentre si canta “Addio del passato” fra mobili e strumenti che i panni proteggono dalla polvere nel disuso, mentre si muore senza nessuno che fisicamente sia lì ad ascoltare, suonare, dirigere, cantare intorno a Violetta. 

Se gli ambienti non si identificano rigidamente con gli spazi del teatro, così l’azione si dipana, quasi si materializza liberamente fra la platea, la scena, i palchi, le gallerie, scale, corridoi e foyer. Sembra quasi di attraversare gli eventi con l’ansiosa corsa verso la morte della protagonista in corrispondenza con le scelte agogiche di Daniele Gatti, che sembra ricordarci a ogni battuta che i minuti di Violetta sono contati e che lei si dibatte di fronte alla sua sorte. Gatti sceglie di non concedere abbandoni, di non allargare la melodia, di non indugiare nel canto. Sceglie, però, anche di non tralasciare una nota, di ragionare su variazioni e cadenze, di attenersi con acribia al dettaglio (e, come già dimostrato in Rigoletto, Verdi quando scrive una linea vocale meno appariscente ma più articolata ha sempre ragione). Rispetto alle Traviate  ascoltate in teatro negli anni passati, a Bologna e alla Scala, la lettura di Gatti appare più netta e compiuta. Piaccia o meno la sua interpretazione serrata e implacabile, non le si potrà negare la coerenza, non si potranno negare il peso che già grava in “Ah fors’è lui” senza far librare l’espansione del sogno amoroso, l’ansia della fine vicina dell’“Addio del passato” contrapposto a un canto carnascialesco che in confronto sembra rarefatto e surreale, la fretta di Germont nel correggere il tiro dopo essersi spinto fin quasi allo schiaffo “No, non udrai rimproveri”. La famigerata cabaletta ha, allora, il senso di una repentina marcia indietro e cambio di strategia persuasiva: un padre che è arrivato al limite dello scontro con il figlio ora sembra volersi riappacificare a tutti i costi, voler subito chiarire le sue buone intenzioni. Roberto Frontali è straordinario, qui come in tutto il corso dell’opera, a giocare sul crinale fra il distacco, il sarcasmo, il disprezzo, il calcolo. Lui, il rispettabile padre borghese, non ha bisogno di scomporsi per accompagnare con un accento, un colore, una piega della bocca o un movimento del sopracciglio la retorica infallibile che Verdi gli affida. Nemmeno può scomporsi, tant’è che solo alla fine sembra di veder balenare nei suoi occhi una scintilla di umana pietà e quasi non ci si crede: avremo sognato? Avremo visto bene? 

Ascoltare una tale sapienza nel tratteggiare il personaggio di Germont è una rarità che non pone comunque in ombra l’ammirazione per la Violetta di Lisette Oropesa. Canta bene, non forza mai l’emissione, che suona naturale, duttile, capace di esprimere una sincera partecipazione e un palpito personale anche nell’incalzare suggerito da Gatti. Anzi, proprio il fatto che non ci sia spazio per effetti e abitudini, che tutto si asciughi, pone in evidenza la fragilità iniziale, quella vibrazione nervosa che poi si fa sempre più intensa, consapevole, determinata e dolorosa anche nella recitazione, franca ed efficace. Alla frenesia degli eccessi segue il trasporto sincero senza artificio, mentre il trucco, le luci e la fotografia mettono bene in evidenza le espressioni del volto, tutt’uno col canto.

Peccato davvero che il terzetto protagonista abbia un forte limite nel tenore. Saimir Pirgu è l’attore più inerte, ma soprattutto sembra sperare che il microfono trasformi il sussurro in sfumatura e quindi autorizzi a cantare senza il dovuto appoggio. Ne risulta un Alfredo sfibrato e monocorde, poco incisivo, non sempre preciso.

Molto bene Annina (Angela Schisano) e il Barone (Roberto Accurso), di indubbio impatto fisico la Flora di Anastasia Boldyreva. Completavano il cast Arturo Espinosa (Marchese D’Obigny), Rodrigo Ortiz (Gastone), Andrii Ganchuk (Dottor Grenvil), Michael Alfonsi (Giuseppe), Leo Paul Chiarot (un domestico) e Francesco Luccioni (un commissionario).

Roberto Gabbiani fa giustamente capolino in platea nel finale secondo per guidare il coro che volta le spalle a Gatti - il metateatro di Martone qui è fatto di dettagli assai minuti - e ci dà l’occasione per lodare insieme tutti i complessi dell’Opera compreso il corpo di ballo, che nella coreografia di Michela Lucenti rende con maestria l’atmosfera torbida del degenerare di una “festa elegante”. Menzione d’onore doverosa anche per i costumi, significativi e accuratissimi, di Anna Biagiotti.

“Oh gioia!”, e come mille e mille Violette prima di lei questa Violetta, dopo tante tribolazioni nel dramma e dietro le quinte, si accascia in proscenio guardando la platea, i palchi, le gallerie. Sono vuote, stavolta, ma ancor più, non valgono per noi che da casa ripercorriamo nella memoria le mille e mille Violette della nostra vita, quelle che abbiamo amato e detestato, quelle che aspettiamo di tornare ad applaudire in teatro? Ancora una volta ci confrontiamo con una Violetta diversa, con un teatro diverso, riscopriamo quanto Verdi sia un genio e La traviata una capolavoro che ci obbliga sempre a pensarla e ripensarla. E a invidiare un po’ anche lo stupore di chi La traviata l’ha vista per la prima volta, di chi l’ha trovata in prima serata su Rai3, dopo Un posto al sole, fra un film e una fiction. L’opera come una cosa normale, non solo riservata a una cerchia eletta; l’opera come fatto eccezionale, meraviglioso: non ci commoviamo nemmeno un po’?

 


 

 

 
 
 

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