La Lecouvreur riapre il teatro

di Francesco Lora

Il pubblico torna nelle sale italiane dopo sei mesi e il Maggio Musicale Fiorentino è inaugurato con perfetta sincronia: Adriana Lecouvreur di Cilea, prima opera in cartellone, ha la direzione estetizzante e asciutta di Daniel Harding, la regìa accurata e arguta di Frederic Wake-Walker e il canto di María José Siri, Ksenia Dudnikova, Martin Muehle e Nicola Alaimo.

FIRENZE, 27 aprile 2021 – Per emergenza sanitaria, dall’autunno scorso le sale italiane non hanno potuto accogliere pubblico: nel più permissivo dei casi, le maestranze dei teatri si sono tenute in esercizio eseguendo qualche opera o concerto, ma saltuariamente, a porte chiuse e per lo streaming. Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha fatto caparbia eccezione; l’attività non si è mai fermata, preparando uno dopo l’altro spettacoli finiti, pronti per la vista e l’ascolto: un Otello, una Linda di Chamounix, un Rigoletto e un Così fan tutte, i primi due già diffusi in anteprima video, gli altri prossimi anch’essi alla trasmissione. L’improvvisa riapertura del 26 aprile ha colto tutti di sorpresa, con cartelloni che stavano ancora avvolti nel loro sonno tranquillo. Bravo il Teatro La Fenice, che in battibaleno è riuscito ad annunciare quattro concerti fino al 22 maggio e un allestimento di Faust di Gounod a partire dal 25 giugno. Ma ancora più tempestivo il teatro fiorentino, che giusto il 26 aprile avrebbe dovuto inaugurare il festival primaverile con un concerto stravinskiano diretto da Daniele Gatti, e puntualmente l’ha fatto col pubblico in sala. Per l’indomani, ecco invece pronta al varo una nuova produzione operistica d’alto profilo, con applausi entusiastici alla “prima” e con tre repliche fino al 6 maggio: Adriana Lecouvreur di Cilea, letta senza contraddire la buona tradizione e nondimeno scuotendo la polvere dal testo.

La regìa doveva essere dell’anziano Jürgen Flimm, campione del Regietheater militante, ed è invece passata al giovane Frederic Wake-Walker. Questi è uno che sa lavorare a fondo con carattere e fisicità degli attori anche in tempo di pandemia, e che senza stravolgere il dramma sa giocare col teatro nel teatro di una storia metateatrale per ampi tratti: all’inizio dell’atto II, per esempio, il “nido” della Grange Batelière, dove s’incontrano Maurizio di Sassonia e la Principessa di Bouillon, altro non è che il palcoscenico, scenograficamente apparato a giardino, nel retro del quale si era svolto l’atto I. Le scene di Polina Liefers, i costumi di Julia Katharina Berndt e le coreografie di Anna Olkhovaya mostrano lo stesso amore per l’essenziale, la cura e il dritto al punto, senza vergognarsi di brillanti tocchi caricaturali o carnevaleschi. Una sola menda: l’aver posto l’unico intervallo tra gli atti III e IV, asimmetricamente, senza chiara giustificazione drammaturgica.

Soprattutto attraverso la formidabile Orchestra del MMF si attua la concertazione di Daniel Harding, prestato in aria di sfida, eppure fruttuosamente, alla Giovane Scuola. Lo si coglie imbarazzato e rigido nel canto di conversazione e nell’impudica voluttà melodica dei primi due atti: la sua attitudine è del resto, notoriamente, meno teatrale che sinfonica. Ma proprio per questa ragione, stupendi divengono altri luoghi: le moine di gusto settecentesco passano di solito sbiadite, mentre egli le trae una per una dall’orchestra, con la nettezza di chi stia dirigendo Pulcinella di Stravinskij; l’eroicizzante racconto di Maurizio e il divertissement danzante nell’atto III sono trattati con un risalto di strumentazione là asciutto ed elettrico, qui opalescente ed evocativo; nell’intero atto IV il meticoloso studio di mezzetinte è lo stesso applicato con reverenza all’atto III di Tristan und Isolde o al tempo lento di una sinfonia di Mahler, non già a una partitura storicamente scaduta nei comodi del Verismo.

In questo orizzonte servirebbe una protagonista carismatica, alla maniera impossibile di Maria Callas, a quella fuori tempo di Raina Kabaivanska o a quella improbabile di Anna Caterina Antonacci. Ogni volta che l’Adriana di María José Siri debba declamare versi, invece, l’elettrocardiogramma teatrale mostra una desolante inerzia. Del gran personaggio passa, per spontaneità, un solo e insufficiente tratto: quello della ragazza di buon cuore, che lascia la diva fuori dalla porta. Il patrimonio vocale, però, impressiona oggi più che mai per maestosa rotondità, vibrante risonanza, ferrata duttilità: se l’attrice latita, la cantante rifulge. Staffetta per la Principessa di Bouillon: la locandina ha annunciato prima la sfarzosa Ekaterina Gubanova, poi la temperamentosa Anita Rachvelishvili, per fermarsi infine su Ksenia Dudnikova. Pregustati i primi due nomi, si tratta sì di una terza scelta; tuttavia di qualità: sprezzante e matronale nel porgere, contralteggiante fino all’androginia, attenta più alla nota che alla parola, questa Principessa si colloca con particolare coerenza nella resa estetizzante di Harding e in quella arguta di Wake-Walker. Accanto alle signore, il Maurizio di Martin Muehle finisce eclissato, mentre maestro di comunicativa, a dispetto di un’emissione con regioni chiocce, si impone Nicola Alaimo come Michonnet. Ottimi i caratteristi: Alessandro Spina per il Principe di Bouillon e Paolo Antognetti per l’Abate di Chazeuil.