Ardon le voci

di Luigi Raso

Un cast strepitoso, una bacchetta che esalta canto e dramma, coro e orchestra in forma smagliante. Il trovatore trionfa in Piazza del Plebiscito.

NAPOLI 15 luglio 2021 -Voci che ardono, in questo Trovatore estivo, di sicuro non mancano. Già a leggere i nomi in locandina, il cast si presenta come uno dei migliori oggi possibili per l’opera più opera di Verdi, la quale tra analessi e trama a dir poco ingarbugliata, tanti acuti e tanto fuoco, ab immemorabili è croce e delizia vocale per i loggionisti più incalliti.

Una prassi esecutiva - distorta quanto radicata e resistente - ha reso Il trovatore un sorta di arena per voci con tanto volume e tanti acuti (scritti o meno, tollerati dall’autore, detestati da veri o presunti fedeli esegeti di Verdi conta poca: si sono sempre eseguiti e “a prescindere”, come chioserebbe Totò, devono sentirsi), con tanti saluti al versante intimistico, notturno e lunare che pur in questo dramma abbonda al par del fuoco.

Opera “loggionistica”, insomma, intendendo per tale l’opera che scatena passioni, attenzioni spasmodiche per quel singolo acuto, feroci discussioni tra ciò che furono (o, in minima parte, ancor sono) i loggionisti, quelli che in teatro almeno ci andavano, a differenza di gran parte di quelli contemporanei che si limitano a lanciarsi insulti e strali nei ridotti 2.0 dei social network.

Probabilmente nessuno ha spiegato meglio della sequenza iniziale di Senso di Luchino Visconti il rapporto tra l’epopea popolare del melodramma ottocentesco, il “loggionismo” e il ruolo che ebbe Giuseppe Verdi nel processo di costruzione di identità nazionale risorgimentale. I patrioti veneziani, alla vigilia della terza guerra di Indipendenza (1866), scatenano dal loggione del Gran Teatro La Fenice la rivolta contro gli occupanti austriaci: la miccia è accesa dal do di petto di “All’armi!” della cabaletta “Di quella pira”.

Il Trovatore accende e consuma gli animi, rapidamente coma una vampa.

È l’opera con la quale Verdi “ignora le parafrasi, s’intromette furiosamente, taglia i nodi con la roncola, e fa scorrere lacrime e sangue esilaranti, piomba sul pubblico, lo mette in un sacco, se lo carica sulle spalle e lo porta a gran passi entro i rossi vulcanici dominii della sua arte” (Bruno Barilli, “Il Paese del melodramma”); è l’opera che sublima il motto verdiano di “brevità e fuoco”.

Stasera sono schierate sul palco di Piazza del Plebiscito - anche Il trovatore, come la precedente Carmen, è proposta in forma di concerto - quattro stelle della lirica contemporanea, voci incandescenti che sanno la virtù magica di coinvolgere i pubblici di qualsiasi latitudine. Anna Netrebko, Yusif Eyvazon, Anita Rachvelishvili, Luca Salsi, infatti, sono un poker d’assi vocali incendiario. Dopo il grande successo della Carmen dello scorso giugno (leggi la recensione) la stagione estiva del San Carlo si chiude quindi con un grande successo: alla fine, i protagonisti sono accolti da applausi calorosi e prolungati. Manco il tempo che il sipario (si fa per dire) cali su Piazza del Plebiscito, che subito si apprende che la replica del 17 luglio si terrà - Alleluia! - nella molto più acusticamente confortevole sala del San Carlo.

Divi e voci, dicevamo.

Partiamo dalla prima diva della serata, Anna Netrebko. Bastano le prime note della cavatina "Tacea la notte placida" che dolci s’udiro gli accenti del suo timbro carnoso, pastoso e gorgogliante di armonici. È subito Leonora: sfumata, innamorata, palpitante. Questa cavatina con la successiva cabaletta - "Di tale amor, che dirsi" - sono il viatico per una prestazione in crescendo vocale ed emotivo. Elencare i pregi della vocalità matura e versatile della Netrebko sarebbe come portar vasi a Samo: anche l’orecchio meno esperto di accorgerebbe di trovarsi davanti a un fenomeno vocale, sorprendente per compattezza e melodiosità del timbro vocale, varietà di accenti, organizzazione vocale, luminosità ed esattezza degli acuti, registro grave brunito, precisione nelle agilità. Se poi ci si sofferma sui piani, sugli acuti tenuti in diminuendo, i filati sfumati, il legato comprendiamo quanto mezzi vocali baciati da Dio e musicalità spontanea siano accompagnati e sostenuti da una tecnica solidissima e, perciò, invisibile, così da rendere tutto ben quello ch’ella fa. Il suo "D’amor sull’ali rosee" è una lezione di canto: sottomettere ai propri desiderata una colonna di suono naturalmente imponente, saper emozionare con un canto lancinante, crepuscolare, farcito di mezze voci, trilli nitidi e di splendidi acuti sfumati in diminuendo che fanno dell’aria di Leonora e dei successivi "Miserere" e cabaletta il punto più alto di una serata di per sé pregevolissima.

La seconda diva - in ordine di apparizione - è il mezzosoprano Anita Rachvelishvili: voce sempre possente, compatta in tutti i registri, con registro grave talora eccessivamente sonoro, delinea una Azucena dilaniata tra ricordo ossessivo della terribile morte della madre e l’amore per Manrico. Quella della Rachvelishvili è una zingara che esprime emozioni contorte, specchio della sua psicologia arzigogolata, sin dal dall’onirico "Stride la vampa!", affrontato con piglio deciso, che già denota l’intento vendicativo. Ma è in "Condotta ell'era in ceppi" che il possente organo vocale e l’acume interpretativo della Rachvelishvili toccano l’apice: è un racconto allucinato, affrontato, grazie al dominio della tecnica, con disarmante naturalezza; più materna e dimessa si mostra nel duettino con Manrico "Sì, la stanchezza m'opprime, o figlio". Azucena è il motore del complesso intreccio della storia; Anita Rachvelishvili, soprattutto nelle prime due parti dell’opera, conferisce al personaggio la potenza drammatica di un Prigione michelangiolesco.

Il caso e Cupido hanno voluto che alla diva Netrebko si affianchi, nella vita e in scena, Yusif Eyvazov: è innegabile che la giustapposizione immediata tra il timbro della Netrebko e quello di Eyvazov veda perdente, per qualità e bellezza, quello del tenore; tuttavia, intelligenza, musicalità e ottima tecnica accorciano la distanza. Quello di Eyvazov è un Manrico tendenzialmente eroico, che ama sfoggiare a lungo acuti squillanti, tutto voce e spada, eppure incline a ricercare carezzevoli accenti lirici. Eyvazov esordisce stentoreo con "Deserto sulla terra" per poi proseguire con maggior impeto nel successivo terzetto; nel prosieguo "Mal reggendo all'aspro assalto" e "Ah! sì, ben mio, coll'essere" fanno emergere nella linea di canto venature più liriche. Tutto squillo e eroismo è "Di quella pira", il cui acuto su “All’Armi!” viene centrato e tenuto prolungatamente.

A completare il quartetto dei protagonisti, infine, quel cattivone - non che Azucena sia uno stinco di santo! - del Conte di Luna, una delle parti baritonali più impegnative, sfumate ed enigmatiche dell’interno repertorio verdiano, interpretato da un convincente Luca Salsi. Il baritono cresciuto a pane e Verdi (è nativo di San Secondo Parmense, a soli 15 Km dalla casa natale di Verdi) sfoggia il consueto lussuoso manto vocale, linea di canto solida e acuti di intensità e spontaneità tenorile. È un Conte di Luna che predilige l’aspetto gagliardo del personaggio piuttosto che quello lirico e trasognato dell’innamorato non corrisposto: più vigoroso e vendicativo che innamorato. "Il balen del suo sorriso" e la successiva cabaletta "Per me, ora fatale"  sono risolti egregiamente, con bel legato e acuti possenti e luminosi, così come il duetto finale con Leonora, tutto impeto ed eccitazione erotica.

Al basso Andrea Mastroni è affidata la parte di Ferrando: dotato sicuramente di timbro dal colore bello, morbido e interessante, Mastroni appare un po’ carente di peso vocale e incisività nel racconto "Di due figli vivea padre beato".

Marco Armiliato è concertatore che conosce bene gli ingranaggi che fanno funzionare una spettacolo lirico: la sua direzione, infatti, assicura ottima tenuta al tutto, sceglie tempi appropriati e finalizzati a garantire contemporaneamente il fluido progredire drammaturgico e il sostegno al canto. Respira con cantanti e Coro, accompagnandoli con mano sicura nel labirinto musicale dell’opera. L’Orchestra, in forma smagliante, lo segue assai bene: tutte le sezioni sono in perfetta forma e ben calibrate tra loro e in sincrono. Quella di Armiliato è un lettura pulita, priva di fronzoli ed eccessi, tutta tesa ad esaltare quella strabiliante perentorietà e icasticità drammatica da cui è pervasa dalla prima all’ultima battuta.

C’è da rallegrarsi anche stasera per l’ottima prova del Coro, sia nella formazione maschile - quella maggiormente impegnata - sia in quella femminile: ma a colpire e a emozionare è la voce unica, compatta, sonora e perentoria, del celeberrimo "Vedi! le fosche notturne spoglie". La guida di José Luis Basso sta imprimendo alla compagine corale, spettacolo dopo spettacolo, un’evidente e contagiante energia propulsiva, che si aggiunge ad una costante precisione esecutiva.

Completano più che degnamente le parti secondarie dell’Ines di Vittoriana De Amicis, Ruiz di Gabriele Mangione, un vecchio zingaro di Giuseppe Scarico e un messo di Giuseppe Valentino.

Al termine, come anticipato, un vivo e meritatissimo successo travolge tutti: Anna Netrebko, con l’espansività alla quale ha abituato i propri fans, raccoglie applausi e ricambia allegramente saluti.

Si replica sabato 17 luglio, all’interno del San Carlo. E sarà il debutto nella sala del Niccolini per Anna Netrebko, Yusif Eyvazov e Anita Rachvelishvili.