Teatro divino

di Francesco Lora

Il ritorno d’Ulisse in patria monteverdiano, al Maggio Musicale Fiorentino e nel Teatro della Pergola, è spettacolo-capolavoro più grazie al lavoro registico di Robert Carsen (tecnicamente strenuo) che a quello musicale di Ottavio Dantone (filologicamente discutibile). L’ostacolo linguistico ed errori di casting si fanno sentire nella compagnia di canto, dove gli italiani comandano e tra tutti una magnifica Arianna Vendittelli.

FIRENZE, 8 luglio 2021 – Un Ritorno d’Ulisse in patria non era appena stato fatto, al Maggio Musicale Fiorentino e nel Teatro della Pergola, con la direzione di Trevor Pinnock e la regìa di Luca Ronconi? No: sono già passati ventidue anni, e per la penultima fatica operistica di Claudio Monteverdi (Venezia, 1639-40) è giunta l’ora di un nuovo allestimento per la stessa istituzione e nello stesso luogo: quattro recite, dal 28 giugno all’8 luglio, lungo le quali si è corsi presto dalla solita diffidenza di pubblico a una disperata caccia al biglietto. La lettura teatrale vanta le firme di Robert Carsen per la regìa, di Radu Boruzescu per le scene, di Luis Carvalho per i costumi, di Carsen stesso e Peter van Praet per le luci e di Ian Burton per la drammaturgia. Un capolavoro annunciato, del quale, a bocce ferme, ecco svelata la ricetta: uno strenuo e coordinato lavoro con gli attori anziché il loro ordinario abbandono a sé stessi; il rispetto della drammaturgia originale, cui non fan danno argute rivisitazioni spazio-temporali; un palcoscenico che snocciola alla vista, una dopo l’altra, sopraffine meraviglie neobarocche. Sulla scena è, in altre parole, riprodotta a specchio la sala della Pergola; nei palchi siedono gli dèi olimpici in abiti rossi e d’oro come il sipario; l’azione si svolge in platea per loro spasso, ed essi stessi scendono a parteciparvi. Gli dèi appaiono secondo un’iconografia secentesca, mentre gli uomini agiscono, vestono e vivono secondo la nostra contemporaneità: così, quando i Proci vengono a lusingare Penelope con doni di «pompose spoglie» e «regali ammanti», la servitù si affatica a portare in scena una montagna di borse e scatole fresche di boutique da via Tornabuoni e Porta Rossa, con in bell’evidenza i marchi tipici di Emilio Pucci, Missoni e Salvatore Ferragamo. Tutto fila, si sorride.

I problemi stanno nella lettura musicale, insidiosa nel presentarsi come filologica. L’unica fonte tramandata della partitura, un manoscritto asburgico conservato a Vienna, documenta il testo pressoché pronto da eseguire; le lacune sono minime e talvolta solo apparenti: alcuni passi presenti nel libretto ma non nella partitura, per esempio, forse non furono mai davvero posti in musica; i ritornelli strumentali sono regolarmente notati e non v’è alcun mistero storico su quali strumenti debbano suonarli; il solo basso continuo a sostenere il canto, perlopiù senza strumenti di concerto, è esattamente ciò che si deve ascoltare: nulla manca. A Firenze, al contrario, si è ascoltata un’«edizione pratica» – ossia una disinvolta riscrittura, non imposta da necessità odierne – curata e concertata da Ottavio Dantone. In essa non si contano i tagli di passi musicali e teatrali anche rilevanti (per esempio la mutilazione della prima scena dei Proci intorno a Penelope, proprio quella, intoccabile, dove compare una preziosa concordanza con un madrigale accolto nella Selva morale e spirituale, utile a meglio dimostrare la controversa paternità dell’opera in oggetto), gli arbitrii (uno per tutti: la frantumazione della parte dell’Umana fragilità, di strofa in strofa, tra diversi cantori, nessuno dei quali rispetta i registri prescritti, a chiave, nella partitura), le interpolazioni (numerose sinfonie infilate tra le scene, di gusto alieno rispetto a quello della poetica monteverdiana e della prassi teatrale veneziana) e le forzature di dettato (le armonie di quest’opera sono elementari: non v’è alcuna giustificazione a insinuarvi la dissonanza a ogni costo). L’Accademia Bizantina ha ben suonato con i suoi strumenti antichi: compresi quelli, come i cornetti, che a Venezia si usavano comunemente in chiesa ma non in teatro.

In locandina, diciotto cantanti ma solo otto di madrelingua italiana. Non benissimo: nel Ritorno d’Ulisse in patria le note sono alla portata quasi di chiunque, mentre la vera abilità si calcola sulla chiarezza della pronunzia e sul peso retorico dato alla parola. Qui più d’uno dovrebbe trasferirsi per qualche tempo in Italia onde parlare, parlare e parlare, assimilando ogni naturale sottigliezza fonetica e ogni schietto idiomatismo espressivo. Delphine Galou, come Penelope, ha appunto fascino francese e musicalità accorta, ma una familiarità ancora superficiale con la lingua del ‘sì’. Charles Workman, come Ulisse, fa miglior figura oggi di quando, vent’anni fa, si avventurava nel Ferrando di Così fan tutte e nel Rodrigo della Donna del lago. Errori di casting: la comica e balbuziente parte di Iro è affidata a John Daszak, caratterista di razza la cui tazza di tè sono però i ruoli grotteschi di Salome e Wozzeck, non la monodia secentesca; la parte sopranile di Giunone finisce al contralto Marina De Liso, quella tenorile di Giove al baritono Gianluca Margheri e quella abissale di Nettuno al baritono-basso Guido Loconsolo: se la cavano poi tutti alla grande, ma in quanto artisti ferratissimi. Ammirevole naturalizzazione linguistica per Mark Milhofer, animoso Eumete, e Natascha Petrinsky, bronzea Ericlea. Perfettamente a casa Anicio Zorzi Giustiniani, Francesco Milanese, Eleonora Bellocci, Andrea Patucelli e Miriam Albano, come Telemaco, Tempo, Fortuna, Antinoo e Melanto. Sulle uova ma ben rifiniti Konstantin Derri e Hugo Hymas, come Amore ed Eurimaco. Tuttalpiù funzionali Pierre-Antoine Chaumien e James Hall, come Anfinomo e Pisandro. Magnifica Arianna Venditelli, che se non canta l’Ermione di Rossini ma la Minerva di Monteverdi può dare a tutti lezione di brio, gesto, colore e accento.