Provvisorio e insuperabile

di Francesco Lora

Il Faust di Gounod al Teatro La Fenice di Venezia è da lasciare attoniti, con la direzione di Frédéric Chaslin, la regìa, le scene e i costumi di Joan Anton Rechi nonché con la statura musicale e teatrale di cantanti come Carmela Remigio, Iván Ayón Rivas, Alex Esposito, Armando Noguera e Paola Gardina.

VENEZIA, 3 luglio 2021 – Ci sono i teatri che guardano avanti con nuove proposte, dannando la memoria della massacrata stagione d’opera del 2020, e ci sono quelli che invece raccolgono i cocci, riprogrammano, restituiscono al futuro e al presente il passato mancato. Un nuovo allestimento di Faust era atteso al Teatro La Fenice nella primavera dell’anno scorso: regìa di Joan Anton Rechi, scene di Sebastian Ellrich, costumi di Gabriela Salaverri, luci di Alberto Rodríguez Vega e un’intrigantissimo prosieguo musicale di locandina. Non c’è stato, ma ci sarà: il teatro veneziano ha annunciato il capolavoro di Gounod per la primavera dell’anno prossimo, nell’originale forma che avrebbe dovuto ricevere se la pandemia non avesse posto condizioni. Un Faust provvisorio, tuttavia, si è già strutturato e fatto coprire di applausi – che gioia: quanti! – nelle cinque recite dal 25 giugno al 3 luglio. Lo spettacolo doveva significare la graduale, cauta ripresa dell’attività teatrale, quasi chiedendo indulgenza al pubblico per ciò che non si può fare subito, e al contrario si è espresso con tale sferza artistica da non far desiderare di più. Una differenza vistosa: Rechi si è fatto per ora carico non solo della regìa, ma anche di scene e costumi, e per le luci si è affidato al mestiere di Fabio Barettin. Il risultato di tutta l’operazione ne è conseguito con statura travolgente, e con tanta più perfezione dove maggiori fossero ostacoli e sfida.

Il direttore si sistema genialmente in un angolo anziché al centro del golfo mistico, così da poter tenere insieme sotto controllo l’orchestra, il palcoscenico e la sala; l’azione si svolge in platea con i dovuti distanziamenti, e la scena diviene soprattutto il luogo di visioni, sogni, illusioni. Méphistophélès è l’insospettabile, disinvolto, elegante signore che in chiesa siede giusto alle spalle del protagonista; l’inno al vitello d’oro è parola d’ordine che trasforma il tempio in sfrenato baccanale, mentre l’aria dei gioielli spacca in due la serata a dispetto dell’originale scansione in atti: è dopo quel momento, del resto, che l’evoluzione psicologica di Marguerite valica un passo di non ritorno; Valentin, che morente aveva maledetto la sorella, nel finale torna, spettro insanguinato, a trascinarsi via la sua Marguerite, reietta e quasi crocifissa al suolo con braccia spalancate: la riporta con sé a casa, ché la miseria della rabbia appartiene ai vivi e non ai morti. Se di questo spettacolo si finisce a scrivere con gli occhi lucidi, il merito è nel massimo vanto che un regista possa darsi: saper lavorare con gli attori, saper insegnare a recitare, sapersi giovare di una compagnia carismatica e pronta a buttare l’anima onde compiere, in squadra, qualcosa di grande. Anche e soprattutto in quest’ottica va inquadrata la concertazione di Frédéric Chaslin, intorno al quale orchestra e coro veneziani, a ranghi ridotti, scattano come piene falangi.

Stupendo è il Méphistophélès di Alex Esposito. La sua intelligenza di artista lo porta spesso a schierare in conflitto l’ortodossia del canto, l’affilatura della parola e l’esuberanza del gesto: qui avviene una miracolosa sintesi, dove la miniatura espressiva è fascinosa, caustica e ironica a un tempo solo, e dove l’abnegazione del belcantista che rifinisce a oltranza collima, e non collide, con lo spudorato divertimento di chi è diabolico padrone della scena. Altra meraviglia è Carmela Remigio come Marguerite: quanto più la sua recitazione si fa realistica e veemente, con una totale oblazione di sé alle pretese del teatro, tanto più il suo canto si conserva vibrante, duttile, facile, terso, ardito, sfumato, commosso; come in Esposito tutto pare procedere da uno scontro tra musica e teatro, così in lei le due parti tendono all’opposto le ali a partire da uno stesso torso: guardarli, ascoltarli lavorare insieme lascia ubriachi. Non si potrebbe esigere questo grado di ambivalenza anche da Iván Ayón Rivas, scenicamente un po’ goffo al confronto, ma tenore sfolgorante nel salire al registro sopracuto e fragrante, quando non addirittura bruciante, nel porgere. Colore chiaro e sottigliezza di fraseggio nel Valentin di Armando Noguera, e strigliante per vividezza di musicalità e carattere il Siébel di Paola Gardina: peccato, allora, che il taglio del primo quadro nell’atto IV getti via metà della sua parte, insieme con l’aria di disperazione di Marguerite.