L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Punti di partenza

di Roberta Pedrotti

La Form, Orchestra filarmonica marchigiana apre a Jesi la sua prima stagione sotto la direzione musicale di Alessandro Bonato che, nonostante le limitazioni dell'esecuzione e dell'ascolto a distanza, si conferma una delle bacchette più interessanti della nuova generazione.

Jesi, 30 gennaio 2021 - Sembra un altro mondo ed è solo l'altro ieri. Nell'estate del 2019 un giovanissimo direttore esordiva in un concerto al Rossini Opera Festival, in un pomeriggio di pioggia in cui la spiaggia non contendeva l'attenzione al teatro, ma nemmeno ci si aspettavano grandi sorprese. Invece, quel giorno poi si uscì in Piazza Lazzarini con una certezza: valeva la pena di seguire quel ventiquattrenne veronese di cui già si sentiva parlare in giro, Alessandro Bonato [leggi la recensione]. Dodici mesi dopo, già sembrava un miracolo essere ancora a Pesaro, e nel programma del Festival rivoluzionato dall'emergenza, spuntano tre concerti – la Petite Messe Solennelle, i recital di Nicola Alaimo e Jessica Pratt – che lo ritrovano sul podio. Bene, benissimo, sempre meglio, anzi, a tratti si rimane a bocca aperta e si spera solo di riascoltarlo come si deve, in teatro. Invece, ora, il concerto in piazza, con tutti i limiti del caso ma dal vivo, sembra un lusso, contiamo i giorni per risentire le corde di un violino vibrare a pochi metri da noi. Contiamo i giorni senza sapere quanti dovranno essere.

Nel frattempo, almeno, si cerca di non perdere il filo, si insegue in rete un lavoro che non si ferma, per fortuna, foss'anche attraverso mezzi tecnici un po' caserecci (la qualità di ripresa audio video della Scala non sarà alla portata di tutti, ma attenzione ai refusi nei titoli in sovrimpressione!)

Nominato nel frattempo direttore musicale della FORM, orchestra regionale delle Marche, Bonato ha inaugurato la stagione virtuale con un programma di tutto rispetto, breve per forza di cose, ma estreamente esigente per tutti gli interpreti: l'ouverture Rosamunde (o, meglio, Die Zauberharfe) di Schubert e la seconda sinfonia di Brahms. Figuriamoci se, poi, alle difficoltà già insite nei testi si aggiunge il disagio della situazione d'emergenza, dell'impossibilità di normali contatti fisici fra musicisti, dell'assenza di una risposta diretta del pubblico sia in termini psicologici sia in termini meramente acustici (una sala vuota non risuona come una sala occupata dagli spettatori), nonché dell'inizio di un nuovo percorso comune fra un'orchestra e il suo, per di più giovanissimo, direttore musicale.

Premesse che aiutano a contestualizzare e spingono a drizzare le orecchie, per essere se non pubblico presente, almeno idealmente destinatari del lavoro svolto. Ma, alla fine, precauzioni inutili, perché il concerto è davvero un bel concerto, perché al di là degli inevitabili limiti dell'ascolto e dell'esecuzione a distanza, si avvertono una cura e un senso di collaborazione che danno frutti evidenti. Si sente subito nel suono ben calibrato di legni e ottoni, come si sente l'attenzione alle arcate, che subito trasmettono, in Schubert come in Brahms, chiarezza di idee e di visione complessiva.

Il controllo del suono è difatti controllo delle dinamiche, concezione di fraseggio, espressione del significato della forma. Si delinea così con una leggerezza energica e incisiva il moto interno che contraddistingue l'ouverture schubertiana, agile quando decisa nel suo sviluppo netto e ben controllato.

Ancor più, nell'ampiezza della sinfonia di Brahms e nella sua complessità, si ha modo di notare come far quadrare i conti non sia un fine pragmatico, ma l'esigenza di comunicare, il mezzo per dire qualcosa di questa musica, in questa musica. Un senso di inquietudine, di tensione pervade dal profondo le suggestioni pastorali, gli aneliti elegiaci e carezzevoli dei primi due movimenti; il fluire delle gradazioni dinamiche accompagna lo sviluppo metrico prima ancora che timbrico e con esso l'articolazione tematica, in cui la dimensione verticale assume un ruolo fondamentale senza essere prevaricante. Come su una volontà di ricerca, di complessità, di controllo formale, e con essa la consapevolezza del rapporto fra più livelli di pensiero, si intrecciasse all'anelito di libertà, di abbandono, che talora sembra prendere il sopravvento, come negli slanci danzerecci del terzo movimento e poi soprattutto nell'andamento non risolutivo dell'Allegro con spirito finale, che anche attraverso la mortificazione dell'ascolto via computer lascia intendere un bel gioco d'accenti e contrasti dinamici. Permangono quel senso di controllo e quel principio d'esattezza essenziale che avevamo apprezzato in Schubert, esaltati dalla tensione e dalla dialettica interne nella partitura. Spiace solo che, rispetto ai programmi originari, le contingenze abbiano costretto a rinunciare all'esecuzione dell'ouverture della Fledermaus di Strauss, ideale punto d'arrivo di una riflessione tutta viennese fra danza e turbamento: sarà per la prossima volta.

Ci siamo, in questi due anni, allontanati dal rapporto ideale per l'interpretazione e l'ascolto, ma gli interpreti che valgono, per fortuna, non si sono fermati, anzi, segnano nuovi inizi. Che sia davvero un punto di partenza.


 

 

 
 
 

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