L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tempio della memoria

di Antonino Trotta

Il Teatro Municipale di Piacenza riapre le porte al proprio pubblico con un’emozionante Messa da Requiem di Verdi dedicata alle vittime del Covid: se sul podio non convince Placido Domingo, l’eccezionale parterre di solisti e le ottime prove di coro e orchestra assicurano un’esecuzione di grande valore.

Piacenza, 16 maggio 2021 – Le cicatrici che la pandemia ha lasciato sulla nostra pelle non sono tutte uguali, chi ha avuto la fortuna di non sentire affondare gli artigli del Covid nella propria carne, pur quando animato da cordoglio, solidarietà e rispetto sinceri, non sempre saprà o potrà comprendere, a quella distanza di sicurezza che alla fine è grazia della dea bendata, la concretezza di tale sofferenza. Capitano però serate come questa al Municipale di Piacenza dove tale distanza sa accorciarsi oltre le aspettative, dove quello spazio vuoto della propria esperienza, in cui fino ad allora si osava solo immaginare, può colmarsi per osmosi di crudele vissuto. Sentire il pubblico in sala singhiozzare, percepire l’asprezza della sue lacrime mentre sul palcoscenico un breve documentario racconta la storia di coloro che hanno combattuto, perso o vinto la battaglia con la vita, è un pugno dritto allo stomaco, un’esperienza diretta che resterà indelebile nei ricordi di chi ha avuto il privilegio di parteciparvi. Del resto non siamo a un semplice concerto, né non siamo in un semplice teatro e qui, a un tiro di schioppo da Codogno, il Municipale di Piacenza è chiamato a ricoprire ruolo ben più alto: altare intorno al quale la comunità si stringe, tempio della memoria e luogo di condivisione, segno assoluto di civiltà e cultura dell’uomo. Si può allora immaginare, più difficilmente descrivere, soprattutto nelle terre dove Verdi è idioma, identità, la portata emotiva della sua Messa da Requiem, la pregnanza di quel testo e di quella musica rivolti al cielo, il potere di quella supplica che diviene espressione collettiva, capace di incarnare il pensiero anche di chi rimane impassibili alle carezze premurose della fede.

Francamente poco importa, ora, se sul podio Placido Domingo, senza dubbio ruggente e magnetico come pochi, si cimenta in una delle sue meno riuscite prove attoriali, gli eccellenti complessi della Filarmonica Arturo Toscanini e del Coro del Municipale di Piacenza, istruito dal maestro Corrado Casati, sanno viaggiare egregiamente anche da soli e animare di vibranti intenzioni quei tempi irrimediabilmente lenti, quegli attacchi squadrati e caliginosi, quel discorso in definitiva condotto male in cui però la conoscenza, la familiarità dei complessi locali col linguaggio verdiano diventa risorsa di inestimabile valore.

Valore inestimabile parimenti riscontrato nel quartetto di solisti, valore che grazie ad alcuni di essi si trasforma addirittura in vero e proprio lusso. Michele Pertusi è una colonna di marmo, imponente nella sua ineguagliabile statura intellettuale e vocale, s’erge su tutti per la solidità di un canto che sa farsi punto di riferimento per l’orchestra nel «Confutatis maledictis» e roccioso sostrato per i colleghi nel «Lacrymosa», per la nobiltà di fraseggio e accento culminata nelle magnifiche allitterazioni del «Mors stupebit», per il lavoro di cesello su ogni singola parola, insomma per i crismi della poetica verdiano elevati all’ennesima potenza. Maria Josè Siri affronta la parte con drammaticità contenuta e delicata sensibilità: con un’emissione omogenea, morbida e quasi priva di fratture, Siri ora si produce in bellissime messe di voce che incarnano la carnale fragilità dinnanzi all’incombenza del destino, ora mette a disposizione dell’umano sgomento – nel «Libera me» – una vocalità generosa ma mai insolente. Anche Annalisa Stroppa si distingue per eleganza e sentita partecipazione alla liturgia musicale: «Liber scriptus» è proferito con varietà d’accento, l’intensità di ogni verso perfettamente calibrata, poi il timbro seducente e il colore brunito ben s’amalgama con quello di Siri in momenti di soave cantabilità come il «Recordare». Antonio Poli ha infine uno strumento di preziosa fattura, luminoso, suadente, che egli piega, talvolta non gratuitamente, alle ragioni del canto sfumato: molto convincente nell’accezione supplichevole del suo «Ingemisco», si lascia assai apprezzare anche per il bel gioco di crescendo e diminuendo in «Hostias et preces tibi».

Applausi, applausi lunghissimi, applausi commossi, ovazioni che non celebrano le stelle ma onorano la memoria. Il Municipale di Piacenza è ripartito in tutto il suo splendore, rispettando il più alto impegno che un’istituzione culturale è tenuta a rispettare. È questo il Teatro che vale la pena vivere, è questo il Teatro che non andrebbe mai chiuso, è questo il Teatro per cui non bisogna mai smettere di lottare.


 

 

 
 
 

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