L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Pletnev e lo stream of consciousness

di Lorenzo Cannistrà

Ancora un programma interamente chopiniano per il concerto di Mikhail Pletnev organizzato da Serate Musicali. Il pianista russo forza talvolta l’interpretazione verso esiti radicali e discutibili, ma è sempre capace di suscitare l’entusiasmo attraverso la profonda musicalità e la sconfinata conoscenza del suo strumento

MILANO, 7 giugno 2021 - Quando si apre la porticina al lato del palcoscenico, Mikhail Pletnev esce e si avvicina al pianoforte con passo lento e quasi strascicato. È la camminata di un uomo meditabondo, che sembra quasi non essere consapevole di trovarsi di fronte a centinaia di persone in attesa della sua musica. Neanche il tempo di aggiustarsi bene sulla sedia (che nei suoi concerti sostituisce il canonico sgabello) e subito attacca la prima nota dell’Improvviso op. 51. In altri momenti di questo stupendo recital Pletnev comincerà a suonare praticamente ancora in piedi, per sedersi quando la prima frase è bella che iniziata. Vero è che questa sera Pletnev, oltre ad essere in ottima forma, è anche di buon umore, come traspare da qualche riverbero di simpatia (addirittura!) che si concede durante i tre bis concessi. Ma in questo gesto plateale (suonare ancor prima di sedersi) non riesco a percepire neanche lontanamente la sbruffonata di una star quale egli comunque è. Ci vedo invece un ininterrotto stream of consciousness, un’immersione totale nella musica che inizia ben prima che dal camerino. Si avverte – credo che sia il comune sentire del suo pubblico – che il pianista rimugina a lungo dentro di sè la musica che deve suonare, per giorni, settimane, prima di presentarla in concerto. In realtà per anni, giacchè alcuni pezzi accompagnano la carriera di un grande pianista come amici fidati. E anche durante il concerto la sensazione è quella di un artista che sta ancora interrogando la partitura, che suona per se stesso più che per il pubblico. E quando comincia a suonare prima ancora di sedersi lo fa con l’aria di chi dice “fammi provare un po’ come viene”…. Naturalmente per il pubblico questa sorta di monologo interiore è puro godimento e perpetua scoperta anche di capolavori ben noti e un po’ consunti dalla lunga frequentazione.

Pletnev, classe 1957, russo della remota città di Archángel'sk, negli ultimi tempi si è dedicato intensamente alla musica di Chopin, proponendo più di un programma monografico. Come ho detto già altrove (leggi la recensione), Pletnev riesce ad immedesimarsi profondamente nell’arte del compositore, di cui sa esaltare la nobiltà della declamazione, l’introspezione psicologica, la delicatezza del sentimento e il virtuosismo mai fine a se stesso, senza comunque rinunciare a proporne una visione originale al punto da lasciare spesso anche perplessi.

Le meraviglie iniziano già con l’Improvviso op. 51. Non è raro ascoltare questo pezzo geniale (che contende all’Improvviso op. 36 la palma del pezzo più bello della raccolta) suonato con estroversione, gaiezza, anche dolcezza, sì, ma troppo spesso con una robustezza fuori luogo in alcuni momenti. Pletnev ci costringe a rivedere certe consuetudini di ascolto, traendo da una scrittura apparentemente brillante e tecnicamente ardua cifre incomparabili di dolcezza, serenità e pacata nostalgia (quest’ultima specialmente nella melodia centrale, affidata alla mano sinistra). Bellissime le pause che troncano improvvisamente il discorso, così come gli accordi mobidissimi e cangianti che seguono.

La logica musicale nell’interpretazione dell’Improvviso op. 51, intimista ma molto chiara, lascia poi il posto ad un esasperato personalismo nel variegato e fantastico mondo delle Mazurche, che occupano il resto della prima parte del programma.

Ciò che colpisce in queste miniature chopiniane è la consapevolezza del pianista russo che esse riflettano forse come nessun altro pezzo il mondo interiore del compositore. Ed è proprio qui infatti che il “flusso di coscienza” del pianismo di Pletnev dà i risultati più originali e in qualche caso discutibili. Colpisce ad esempio l’andamento spesso obliquo, claudicante, del tema principale, quasi che non vi sia mai la volontà di affermare con nettezza l’idea musicale (neanche nella cavalleresca Mazurca op. 30 n. 3, e basti ascoltarla nell’esecuzione di Michelangeli per capire quanto i due pianisti, pur simili nel carattere e nell’intransigenza artistica, approdino ad esiti differenti). I primi quattro numeri ci mostrano un Pletnev insuperabile colorista, specialmente laddove Chopin fa risuonare (spesso) il tema come eco sullo sfondo di una nota tenuta che fa da contrasto con la sua fissità. Sorprendentemente spoglia e autunnale l’esecuzione dell’op. 17 n. 4:dietro le pesanti cortine di questa indimenticabile mazurca, Pletnev fa scorgere distintamente la futura ricerca timbrica di Debussy. Nell’op. 30 n. 4 Pletnev abbandona per un attimo il suo approccio introspettivo a favore di una musicalità più intuitiva ed estroversa, condita dalla solita superba coloratura. Due ultime annotazioni: l’op. 63 n. 3, probabilmente la più famosa mazurca di questa selezione, è insolitamente “normale” sotto le dita di Pletnev, senza cioè picchi di estrema originalità, mentre l’op. 67 n. 4 è un po’ un mistero, a causa dell’attacco decisamente rude (anche qui il paragone con la celebre interpretazione di Michelangeli lascia abbastanza interdetti….).

Seconda parte, la Sonata op. 58. Altra temperie, altre meraviglie.

Questa Sonata è un’opera in parte senza precedenti nella produzione di Chopin, se pensiamo che nella Sonata op. 4c’è tutto un altro Chopin, un giovanissimo apprendista e sperimentatore, mentre nella Sonata op. 35il compositore polacco mette insieme “quattro dei suoi figli più scapestrati” (lo diceva Schumann) ed è una sorta di riuscitissimo Frankenstein. La terza sonata, appunto l’op. 58, presenta invece una concezione più unitaria, con un ampio primo movimento, un breve Scherzo, un Largo che non vuole essere altro che un movimento lento, e un “vero” finale, non un’ “ironia” (sempre Schumann a proposito del finale dell’op. 35). Il tutto con il linguaggio dello Chopin più maturo, complesso, moderno e a tratti profetico.

Nell’interpretazione di Pletnev tutto è bello, nuovo, meditato con profonda sensibilità musicale. Nel primo movimento il pianista russo mette in ordine i diversi elementi che subito affollano la partitura, senza dare l’idea di un “caos tematico”, per poi planare verso il secondo tema, aperto da un lungo pedale di risonanza che si protrae per un paio di battute, quasi evaporando mentre emerge la melodia (effetto meraviglioso….). Il Largo è suonato come un vero e proprio notturno nelle sezioni estreme, mentre nella sezione centrale la figurazione della mano destra viene eseguita più velocemente di quanto abitualmente si ascolta, lasciando in evidenza soltanto le note più alte, in modo da disvelarne il disegno melodico. Nel finale l’idea di “caos”, sapientemente evitata nel primo movimento, viene consapevolmente evidenziata. Lo spettrale tema in si minore nasce e si sviluppa all’interno di una spessa bruma sonora dalla quale emerge poi urlante con il raddoppio in ottava. Nonostante la brillantezza e buon umore del secondo episodio, non legato al primo da alcun crescendo, si avverte una sconvolgente sensazione di ricaduta “gravitazionale” verso il cupo tema (bellissima soprattutto la riproposizione in mi minore). Interpretazione memorabile.

Come si diceva in apertura, tre sono stati i bis concessi. Si parte con la dolce malinconia slava e il delicato virtuosismo dell’Alouette di Glinka (nella trascrizione di Balakirev) e si prosegue con la fuga dal Preludio e fuga BWV 891 di Bach, un pezzo che Pletnev sembra suonare per suo divertimento personale, peraltro a velocità folle. Infine la Sonata K 9 di Scarlatti: se esiste un’interpretazione migliore di questa, potrebbe essere solo quella di Arturo Benedetti Michelangeli. Concessione che, amando e ammirando entrambi i pianisti, questa volta non sono disposto a fare.


 

 

 
 
 

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