Movimenti. Fra Mozart e futurismo

di Roberta Pedrotti

Il ricchissimo programma del festival Settenovecento offre stimoli e riflessioni fra concerti e visite a musei e monumenti. Un progetto di ampio respiro in cui spicca il lavoro dell'orchestra filarmonica, protagonista di uno splendido concerto diretto da Alessandro Bonato con Francesca Temporin violino solista.

Terra di confine e di passaggio. Rovereto si trova in una posizione strategica che la distingue fra le tante non meno amene cittadine che s'arrampicano fra il Garda e le Alpi. Targhe di marmo ci ricordano che qui hanno fatto tappa i viaggi in Italia di Goethe e Mozart, o che la Grande Guerra qui infuriava ancora con slancio risorgimentale, per passare dalla corona asburgica a quella savoiarda. Le cose portano i segni dei conflitti, mezzogiorno rintocca con una sirena della contraerea, ma fra le cose ci sono le persone, ci sono la musica e le arti a testimoniare movimenti, incontri, confronti.

Già nel nome il festival Settenovecento getta un ponte nel tempo, se poi consideriamo che la programmazione è concertata fra tre direttori artistici – Federica Fortunato del centro internazionale di studi Riccardo Zandonai, Klaus Manfrini dell'Associazione filarmonica di Rovereto, Angela Romagnoli di WAM festival internazionale W. A. Mozart a Rovereto – i presupposti per una rete virtuosa ci sono tutti. Non per nulla il sottotitolo della manifestazione invita a mettersi in cammino e scoprire: in itinere.

Lo stesso Manfrini ce lo racconta davanti a un caffé di fronte al Teatro Zandonai. Già l'esperienza della Dad per gli studi musicali è stata esiziale, senza possibilità di fare un vero lavoro d'assieme, appesi a mezzi tecnici insufficienti e troppo diseguali, senza poter lavorare pienamente su tutte quelle componenti annullate o appiattite dal collegamento a distanza. Niente streaming, dunque, ma una determinata caparbia volontà di programmare appena possibile, quando possibile, anche se sottoposti alle mille variabili di decreti, colori, disposizioni nazionali o locali, impegni da ricombinare, calendari da reinventare giorno per giorno. Lo scorso anno il festival slittò in agosto, ora può tornare a lambire la Festa della musica in un clima complessivamente più sereno. Il cielo terso e le temperature in aumento favoriscono gli spazi all'aperto, il progredire della campagna vaccinale permette una capienza accettabile delle sale al chiuso. Non resta che invitare il pubblico con un'offerta che non sia contata e rassicurante per il botteghino, ma che possa stimolare curiosità e aperture, intrecciare e avvicinare interessi e abitudini differenti. Non resta che lasciar spazio agli artisti, un parterre internazionale di esperienza e nuove generazioni, fra cui spicca un'orchestra di cui proprio Manfrini è prima viola e mentore, come gli altri colleghi delle prime parti, di un organico under 25, selezionato tramite audizioni (quest'anno anche tramite video) senza richiedere prerequisiti specifici, ma solo la dimostrazione delle proprie capacità. L'orchestra così assortita non si appone l'etichetta programmatica di “giovanile” come testa d'ariete o egida sotto la quale far passare facilmente ogni azzardo, ma punta alla sostanza di una formula che sembra funzionare molto bene, lasciando intendere possibili ulteriori sviluppi in un Paese in cui l'educazione musicale e la formazione professionale dei musicisti sono zavorrate di storture di metodo e principio – non ultima la propensione a chiudere un circuito e a sfornare piccoli solisti isolati e destinati a ereditare le cattedre dei loro maestri più che frequentare i palcoscenici.

Intanto a Rovereto i cammini, semmai, li abbiamo compiuti, ma non chiusi, anche solo fermandosi ventiquattr'ore per un assaggio di festival.

La sera, la tappa principale, al Teatro Zandonai. Da est a ovest è il titolo del concerto dell'Orchestra filarmonica Settenovecento, uno degli appuntamenti clou del cartellone con il suo itinerario fra due secoli e fra due estremi esotismi. Sul podio c'è Alessandro Bonato, vale a dire uno dei pochi ad averci tenuti veramente incollati agli streaming in questi mesi, dimenticando per un istante il senso di surrogato, di doveroso e doloroso contatto per sentire davvero il brivido della musica che ci mancava. Non era l'infuso di cicoria, ma almeno l'aroma di un vero e ottimo caffé in attesa di poterno sorseggiare. Ecco: finalmente lo risentiamo dal vivo, con il pubblico, come deve essere.

Il programma, innanzitutto, è costruito a meraviglia e dall'espressione mozartiana della moda turchesca si passa alla metà del secolo scorso e a una suite dal balletto di Copland e Martha Graham sull'epopea dei pionieri americani. Due sguardi diversamente classici, a quasi duecento anni di distanza, si rivolgono a diverse alterità, altre culture o tradizioni popolari.

E qui è necessario un direttore che faccia la differenza. Perché abbiamo un'orchestra giovane, strutturata come un progetto formativo che esige, impone quel lavoro minuzioso che ci piacerebbe vedere in ogni concerto, ma che non sempre è possibile. Perché non si tratta solo di uscire a testa alta suonando insieme al meglio. Si tratta di dare un senso, un pensiero al programma, distinguere i brani e porli in relazione. Si tratta di andare oltre.

Subito il biglietto da visita della sinfonia da Die Entführung auf dem Serail mette le cose in chiaro e dimostra nei fatti cosa significhi dar nerbo vero, non esteriore, agli stilemi orientali di acciaccature e strumentazione, a un gioco di accenti per cui non se ne troverà uno uguale all'altro, ma nemmeno uno irrelato dall'altro, o meno incisivo. Non esiste, insomma, un elemento esornativo, un pittoresco di comodo, bensì una forma che è sostanza intellegibile ad ogni livello, con una chiarezza d'articolazione che è pari solo alla vitalità dinamica e agogica nondimeno riconoscibile nel movimento centrale, così amabilmente sinuoso fra ironia e sensualità, con un senso vero del crescendo e del controllo disinvolto della partitura. È chiaro che Mozart non si adegui a una moda con qualche pennellata a effetto: capta, viceversa, l'arricchimento strutturale si sonorità, ritmi, metri nuovi. È chiaro che comprenderlo si debba convertire nella nobile sprezzatura, nel dissimulare con un progere affabile e accattivante la profondità del pensiero.

Tutto trova pieno sviluppo nel Concerto n. 5 per violino e orchestra “alla turca”, che tra l'altro si avvale del suono netto e penetrante di Francesca Temporin (classe 1997), del suo virtuosismo volitivo - ce lo fa ben sentire anche nel bis, il primo movimento dalla Sonata per violino solo di Erwin Schulhoff - quanto scevro da esibizionismo. Sono musicisti che hanno voglia di servire al meglio la musica, non di dimostrare ad ogni costo quanto sono bravi, e i risultati si sentono. Il dialogo affinato, anche in termini di colori e armonici, fra violino solo e orchestra conferisce più ampio respiro al concetto già delineato nell'ouverture. Il tempo centrale ribadisce la ricchezza dell'invenzione melodica “orientale” di Mozart, Adagio di suggestiva tinta notturna, sublimata e pure mordente, esattamente come mordenti sono l'Allegro aperto inziale e il Rondò in tempo di minuetto. Quest'ultimo è emblematico di una saggia dinamicità interna, per cui il ricorrere ciclico dei temi, con richiami al primo movimento, innesca una dialettica turbinosa di sottili rimandi e variazioni, senza perdere controllo né nell'esuberanza assertiva, né nell'interlocutorio ripiegamento del finale, piccolo istante di quiete perfetta nel fluire logico e caleidoscopico del Rondò.

Senza ribadire fino alla ridondanza la qualità d'ogni movimento, basterebbe dire che sappiamo su che bacchetta puntare per i prossimi anni. Tuttavia, quando si sente tanta cura nella preparazione confluire, da analisi a sintesi, in una lettura così coerente, chiara, vitale, sarebbe davvero un torto non soffermarsi sul valore di questo Mozart. Tanto più che non manca di insidie tecniche, per tenuta e controllo, per una diversa ciclicità tematica da animare – Appalachian Spring di Aaron Copland, che completa la serata. E, nondimeno, ritroviamo una cura del suono che non è solo superficialmente bello, è sempre tornito ed esatto in rapporto al fraseggio, all'evoluzione del discorso. Troviamo quel bel senso del canto strumentale senza lezioso ammiccare, bensì con disinvolta, fresca eleganza, senza lasciar trasparire altro che l'ispirato e fiducioso richiamo alle origini, un anelito di pace e semplicità che non può, ancora, esser tale se non sostenuto dal pensiero.

Tanto più che, nei limiti delle capienza consentite, la partecipazione del pubblico e incoraggiante e premia gli ideatori del festival, i caldi applausi di questa sera sono il giusto completamento di quel che significa davvero fare musica, non esibire sé stessi.

Avere sul podio un ventiseienne non è un valore di per sé: ha un valore l'avere sul podio uno splendido direttore (se poi è così giovane, tanto meglio: significa che abbiamo di fronte tanti anni di sorprese ed evoluzioni). Avere un organico di ventenni o quasi non significherebbe granché, se non fosse che l'occasione di suonare insieme è anche occasione di lavorare con un ottimo direttore e prime parti esperte e di grande valore, se non fosse evidente che al primo posto c'è un'idea di costante crescita. La cultura della musica d'insieme e della musica da camera si riflette anche nella pratica orchestrale, così come il richiamo inevitabile a Mozart, genius loci adottivo per il soggiorno giovanile, si vivifica al di là dell'omaggio d'obbligo. Tanto più dopo quest'ultimo anno e mezzo la necessità di rinnovarsi, parlare apubblici più ampi e diversi, mantenere la qualità - anzi, puntare sempre più in alto – lasciando da parte zavorre formali. La freschezza spontanea del concerto va di pari passo con una serietà appassionata che non ha bisogno di fronzoli e atteggiamenti, solo di continuare a lavorare.

Insomma, non è solo il tanto agognato e fondamentale vaccino a farci tirare un sospiro di sollievo per il futuro, dopo questi ultimi diciotto mesi. Un corpo sano ha bisogno di una mente sana.

Giacché la triplice direzione artistica funziona benissimo nella sua pluralità – e solo spiace non essere ubiqui – il tardo pomeriggio inanellava un aperitivo perfettamente abbinato alla portata principale della serata. Nella chiesetta del Redentore il Quartetto Eos suona Mozart; nel cortile di palazzo Betta Grillo l'ensemble Musica Templana propone i frutti della sua ricerca sulla musica sudamericana dal Seicento all'Ottocento ricostruita attraveso appunti di religiosi e funzionari coloniali. Entrambi gli appuntamenti hanno un pendant il giorno seguente: ancora Eos e Mozart – all'aperto e con degustazione – e ancora Musica Templana e la canzone sudamericana nell'ultimo secolo. Andiamo a Palazzo Betta Grillo, dunque, e apprezziamo l'intreccio di tradizioni precolombiane e sguardi europei, un arrangiamento abile e consapevole nell'abbinare la viola da gamba e varie forme di chitarre barocche e derivati latinoamericani (il charango), percussioni e idiofoni dalle possibilità poliritmiche.

Al termine, la visita al palazzo non è meno interessante. Anzi, quasi impressionante, perché la residenza signorile d'una alta borghesia solo molto tardi approdata a un qualche blasone non è normalmente accessibile e mostra i segni del tempo in lunghe crepe profonde, squarci nella tappezzeria, danni ai ritratti. Eppure, non è un senso di abbandono quello che avvertiamo. Anzi, è lo stimolo a progettare, a immaginare un piano futuro per tanti spazi come questo che devono ancora essere reinventati in un tessuto di riscoperte culturali. È, per di più, un modo per non entrare solo in un bel palazzo affrescato, elegante, con uno splendido piccolo giardino, ma di percepirne la storia, di entrare in camere chiuse come l'ultima volta in cui sono state abitate, di tornare nella Rovereto sfollata durante la Grande Guerra e toccare quasi con mano i gesti irridenti o annoiati dei soldati austriaci che qui avevano preso stanza. A volte val la pena anche ritrovare le crepe e gli strappi, perché fanno parte della vita e perché finché ce ne saranno avremo da rimboccarci le maniche. Sia anche per far vivere oggi il senso di un Mozart stuzzicato da un altro mondo alle porte, o un Copland che scava nella storia del suo giovane mondo, ma lo fa tenendo saldo il legame anche con questo lato dell'oceano. O sia per incontrare tempi diversi e diversi registri nelle arti figurative.

A Rovereto ha una sede anche il Mart, Museo di arte contemporanea di Trento e Rovereto, splendida struttura raccolta intorno a un cortile modellato sul Pantheon romano, cupola in vetro e impluvium centrale. Sale ampie, raccolte stabili che impongono una visita e – il tempo è tiranno – già ipotecano un prossimo ritorno da queste parti. Intanto, la mostra Botticelli. Il suo tempo. Il nostro tempo sembra mettersi in sintonia con tutto quello a cui, in musica, ci fa pensare il festival: il dialogo fra epoche, la reinterpretazione, ricollocazione, reinvenzione di miti, topoi, tradizioni. Un nome che è già di per sé un marchio al di là quasi delle opere stesse, che poi nell'immaginario collettivo si riducono a due (La nascita di Venere e La primavera) e inamovibili dagli Uffizi, benché in realtà qualche pezzo di primo piano a Rovereto arrivi almeno con Pallade e il Centauro, Madonna col Bambino, San Giovannino e gli Arcangeli Michele e Gabriele da Firenze, il Compianto sul cristo morto da Milano (sempre una meraviglia quel convertire la paganissima sublimazione delle forme in composizioni armoniche e irrealistiche in una severa tragicità savonaroliana) e una Venere alternativa, ostensa su fondo nero senza cornice mitologico-allegorica, sagomina di pin up a uso privato, da Torino. C'è il Botticelli di prima mano, la bottega dov'era garzone e la bottega dei suoi garzoni. C'è l'affastellarsi di riferimenti diretti o trasversali (ma la Venere degli stracci di Pistoletto non era quella di Milo?), qualche vertice (la Primavera riletta da Guttuso) e la questione attuale della cultura pop postmoderna, dell'immagine web, anche se il rischio dell'ammiccamento mediatico è dietro l'angolo o quantomeno più che svilupparsi criticamente scivola rapido e inoffensivo nella presa d'atto e nel piccolo gossip della diffidenza fra Valentino (due splendidi abiti ispirati alla Primavera) e Prada (l'arcinoto servizio fotografico di Chiara Ferragni agli Uffizi). Segno anch'esso dei tempi, materia su cui pensare. E sì che di réclame e rapporti fra arte e mercato a Rovereto si può parlare molto, per esempio visitando la Casa d'arte Depero, voluta dallo stesso futurista trentino, genio della grafica pubblicitaria ma pessimo amministratore di sé stesso, finito in miseria nonostante il senso pratico della moglie Rosetta, rovinatosi poi con le proprie mani con un maldestro e becero allineamento al regime solo nel 1943, dopo un ventennio trascorso senza compromettersi troppo.

Come il Mart, anche Casa Depero, che amplia la struttura preesistente, si fa apprezzare nei dettagli architettonici, volumi e geometrie ben studiati, efficaci punti luce, o calde penombre, mosaici, intarsi in legno o intonaco bianchissimo.

Piatti, arazzi, oggetti, manifesti, libri, un'arte fisica e sfacciatamente presente, contingente, sospesa fra l'evitar compromessi a costo di suscitare deliberato fastidio (quello scomodissimo libro imbullonato) o viceversa intraprendente sul mercato, pronta a sporcarsi le mani, come racconta la trasferta, non proprio fortunatissima sul piano pecuniario, dei coniugi Depero negli States. Lì, tra l'altro, lavora sul video, non come regista, ma elaborando testi e didascalie per una serie di filmati delle strade New York da cui è stato anche tratto un irresistibile modellino che non si smetterebbe mai di guardare, fra le giostre di Coney Island e frenetiche Avenue.

Prevedere ed elaborare una multimedialità tecnologica è forse uno degli aspetti più interessanti, fra tanti corrivi, del Futurismo, come quando a Brera ci si sorprende per l'inquadratura dell'autoritratto di Boccioni, che per catturare la città in costruzione finisce per sembrare un moderno selfie. Depero intuisce il potenziale artistico dell'audiovisivo, ha un interesse e un talento speciale per la scengrafia che tuttavia non realizza le occasioni sfiorate quando germoglia e appassisce prima di arrivare in scena il rapporto con Djagilev. Pochissimo resta delle sue scenografie e dei suoi lavori teatrali, effimeri più che mai, ma almeno restano tangibili alcune ricostruzioni, come quelle delle splendide marionette esposte. Un po' attori/macchina, un po' antichi retaggi di intarsi, geometrie araldiche, puri colori squillanti ci ricordano ancora che l'arte non è mai lettera morta, ma lo resta se le note scritte, le parole, le tracce di un pennello o di una matita, una forma plasmata non trovano chi le faccia vivere, le interpreti, le metta in relazione. Vale anche per Mozart.

E così siamo giunti al punto di partenza e siamo sempre in movimento. In itinere.