Gli archi del giovane Gioachino

di Roberta Pedrotti

I Solisti Veneti debuttano al Rossini Opera Festival con il loro direttore musicale Giuliano Carella, che succede al fondatore Claudio Scimone. In programma le giovanili Sei sonate a quattro, ascolto sempre gradito per illuminare gli anni di formazione del genio rossiniano.

PESARO, 12 agosto 2021 - Agosto 2021. Il Rossini Opera Festival riconquista pian piano spazi di normalità. Siamo distanziati, il controllo del biglietto è preceduto dal (fluido e sacrosanto) controllo di green pass e documento, al Rossini la platea è ancora consacrata all'orchestra, con il pubblico nei palchi. Ma il pubblico c'è, con un tetto sulla testa, sia per le opere sia per il fitto calendario dei concerti che prende il via subito dopo le tre prime.

Si parte con i Solisti veneti e con il Rossini più giovane, quello dodicenne che a Lugo e dintorni cominciava a farsi notare, ragazzino di talento a cui musicisti e musicofili davano lezioni, si univano nelle esecuzioni, commissionavano lavori. Le Sei sonate a quattro fotografano questa fase dell'apprendistato del giovane Gioachino, quando la necessità dell'esecuzione privata fra dilettanti (il che non significava necessariamente mediocri, solo persone che praticano la musica per diletto, benché un ricordo di pugno dell'autore non sia molto tenero sulla qualità “cagnesca” della combriccola) imponeva l'organico non proprio canonico di due violini, violoncello e contrabbasso. La forma è tripartita, con un andante circondato da due tempi vivaci secondo una tradizione più antica rispetto ai modelli classici viennesi, che pure il “tedeschino” dimostra di studiare con devozione. Come Beethoven, di ventidue anni più anziano, così Rossini muove i primi passi all'ombra di Mozart e di Haydn, ne assimila il linguaggio in maniera non superficiale, lasciando trasparire, soprattutto là dove emergono cantabilità e brillanti ritmi di danza, un tocco personale pronto a sbocciare. L'ascolto completo in un unico concerto ad esse dedicato aiuta a focalizzare l'attenzione sulla concretezza con cui Gioachino si attiene al modello e lo padroneggia. Non si addentra ancora nelle dialettiche della forma sonata, ma delinea e contrappone temi ben definiti senza far trasparire i limiti inevitabili dell'inesperienza e degli studi acerbi. Un po' schematiche, magari, ma solide, le Sonate danno spazio ai registri gravi al di là delle consuetudini di pedali e basso continuo: si dirà che il committente e dedicatario era anche contrabbassista, ma è pur vero che il tessuto strumentale che ne deriva comporta spessori e articolazioni destinate a confluire in una scrittura orchestrale matura e raffinata.

Dalla prima all'ultima di queste composizioni si va dall'esercizio del talento studioso al lavoro più originale, rimasto più celebre perché più affine al Rossini che verrà. E, tuttavia, La tempesta, seppur più appariscente è forse anche la sonata un po' più goffa, proprio perché comincia a distaccarsi da un modello collaudato per dire qualcosa di personale. Giuliano Carella e i Solisti Veneti lo fanno sentire, forti della vocazione settecentesca e pur in un'impostazione misuratissima, in cui le sfumature agogiche (i ricorrenti allegro, andante e moderato acquistano talora le specifiche di assai, vivace, spiritoso o il vezzeggiativo allegretto) si differenziano per dettagli minimi, privilegiando l'amabile classicismo e, via via, una crescente varietà dinamica. L'organico ampliato dalle parti reali a quattro violini primi, quattro secondi, due violoncelli e un contrabbasso non offusca l'agile grazia di queste pagine giovanili, ma abita con maggior consistenza la platea vuota del Rossini, si fa abbracciare dal pubblico nei palchi, attento e soddisfatto fino al bis – inevitabilmente, dato l'organico, un movimento dalle stesse sonate.

Bentornati, concerti (e non solo di canto!) del Rof al Rossini; benvenuti, Solisti Veneti, per la prima volta al Festival.