L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le vie del Belcanto

di Roberta Pedrotti

Maxim Mironov riscuote un calorosissimo e meritato successo personale e si riconferma a buon diritto beniamino del pubblico del Rof con le sue interpretazioni raffinate e intelligenti, ma anche agguerrite e argute, di Rossini, Bellini e Donizetti.

PESARO, 16 agosto 2021 - Il secondo concerto lirico sinfonico del Rossini Opera Festival segue a ruota il primo concerto di Belcanto e fa, dunque, ascoltare in successione due tenori russi, coetanei, ma di carriere e temperamenti diversissimi. Di Tatarintsev e del valore del suo canto nella madrelingua si è detto. Quanto a Maxim Mironov, di casa a Pesaro dall'Accademia rossiniana del 2005, per lui l'italiano è ormai lingua madre non meno del russo, e se anche ha in uscita un – ghiottissimo – recital da Glinka a Rachmaninov è nel belcanto nell'idioma “del bel paese là dove 'l sì suona” che la sua stella è soprattutto abituata a splendere.

Quando tanta naturalezza è conquistata e non assimilata dalla nascita, un artista intelligente può trarne frutti ancor più succosi, tanto più che gli anni hanno portato a Mironov una maturazione che non ha sciupato la freschezza del timbro e l'eleganza del porgere, ma li hanno semmai arricchiti con una maggior rotondità e qualche obreggiatura in più, con un fraseggio sempre più arguto, nobile, all'occorrenza ironico. In questo caso, anche con una buona dose di spirito battagliero, come a scatenare positivamente l'energia compressa in un anno e mezzo di chiusure e limitazioni. Di Rossini affronta tre arie emblematiche di tre tipologie teatrali prima ancora che vocali differenti: in "O fiamma soave" dalla Donna del lago abbiamo l'opera seria, l'amara elegia di un re amante senza speranza; in "Concedi amor pietoso" dall'Italiana in Algeri il tipico giovane amoroso, languido, sospiroso ma ricambiato; in "Cessa di più resistere" dal Barbiere di Siviglia, l'autorevolezza dell'aristocratico trionfante nella commedia. Tessiture acute, contraltine nei primi due casi, più centrale nel terzo, mai in grado di impensierire Mironov, la sua musicalità, lo sciolto dominio della coloratura. L'unico appunto che si potrebbe muovere è per la scelta di fare della vocale E e non della U il fulcro virtuosistico della parola “crudeltà” nel rondò di Almaviva, ma appunto perché suona come una scelta (il primo a farlo dovrebbe esser stato Flórez) e Mironov si mostra perfettamente in grado di far ciò che Rossini comanda su ogni debito fonema. Né si risparmia, nemmeno con i taglietti di comodo che piacciono a tanti rinomati colleghi e che un concerto, dovendo rinunciare a cori e pertichini, potrebbe rendere più plausibili. Canta tutto, perché tutto ha un senso poetico e drammatico: ecco il tenore intelligente che non usa la musica per esibire sé stesso.

Poi, dopo la virtuosistica sublimazione rossiniana, viene il belcanto già romantico di Bellini e Donizetti, viene il lirismo amoroso e battagliero di Tebaldo dai Capuleti e i Montecchi, viene l'addio alla vita di Percy in Anna Bolena. Una tessitura più centrale, nel primo caso, siderale (parliamo di Giovan Battista Rubini come creatore) nel secondo. Mironov le declina con intelligenza e diversa gestione di variazioni e puntature, giacché in Bellini l'acuto può spiccare eroico nella dichiarazione d'amore, mentre in Donizetti la voce già si muove a tali tessiture da suggerire un altro tipo di approccio, scendendo nelle ultime battute dopo essersi mosso disinvolto sulle vette del pentagramma. E se non sarà più la fitta coloratura rossiniana a farla da padrona, resta la nobiltà intrinseca del belcanto a esigere dinamiche, legati, articolazioni che sulla medesima tecnica e poetica si fondano, alla fine. Lo ribadisce la bellezza del primo bis, “Una furtiva lagrima” filata a fior di labbro con arte antica, ma gusto moderno e mai lezioso.

George Petrou lo accompagna da buon musicista ma non sempre ben calibrato nel rapporto con la voce, soprattutto in questa disposizione che vuole il cantante in platea e allo stesso livello dell'orchestra. La Sinfonica Rossini suona senz'altro bene, ma c'è la tendenza a sottolineare con troppa forza alcuni passaggi dove invece il solista andrebbe lasciato un po' più libero, come si avverte nella rutilante Danza rossiniana, che chiude il concerto quale secondo fuori programma e mette in luce ancora una volta l'arguzia sottile unita a uno slancio agguerrito nel tenore russo. Già in apertura l'ouverture dalla Pietra del paragone era parsa un po' troppo greve, ma l'inclinazione a suonar tutto tendenzialmente forte in un contesto acustico che già favorisce assai l'orchestra si conferma anche con quella del Barbiere, mentre meglio si addice all'impetuosa sinfonia dai Capuleti e i Montecchi. Siamo poi grati a Petrou di aver riportato a Pesaro rarità come la sinfonia da Ulisse agli Elisi di Nikolaos Mantzaros (1795-1892), evidente tributo alla moda imperante dettata da Rossini. Così, mentre proprio la Sinfonica Rossini vara un progetto di festival collaterale in collaborazione anche con il Rof per proporre un repertorio contemporaneo al genius loci, anche in questo concerto abbiamo un assaggio, grazie al maestro greco, delle vie del Belcanto in altri paesi.


 

 

 
 
 

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