L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Natura e dramma

di Mario Tedeschi Turco

Lo splendore dell'orchestra del Mariinskij, il carisma e la tensione drammatica di Valery Gergiev animano, per il Settembre dell'Accademia Filarmonica di Verona, un programma ben costruito che va da Rossini a Debussy passando attraverso Mendelssohn e Prokof'ev.

VERONA, 13 settembre 2021 - È stato Eric Werner a sottolineare come la definizione dello spazio estetico della musica di Mendelssohn sia sempre stata alquanto difficile, per la musikwissenschaft: «un classicista romantico» secondo Einstein, ma «un romantico con spirito classicista» per Bücken, e ancora «un romantico molto trattenuto» per Schering. Da Dahlhaus in poi, si è soliti qualificarlo per lo più all’interno di un classicismo progressivo, senza peraltro riuscire a lumeggiarne appieno la densità di presenza effettiva. Di certo Mendelssohn, per ascendenza spirituale e culturale ebraica all’interno di un milieu sociale serenamente luterano, è un caso unico, in cui le ampie campiture monumentali e i fremiti inquieti, notturni e fantastici convivono con forza espressiva perturbante, senza che una sicura classificazione sia – per fortuna – univocamente possibile. Il pregio maggiore dell’esecuzione della Sinfonia “Scozzese” da parte dell’orchestra sinfonica del Teatro Mariinskij, diretta da Valery Gergiev nel terzo appuntamento del “Settembre dell’Accademia” al Filarmonico di Verona, è stato esattamente l’aver reso quell’oscillazione poetica, quel risuonare lontano di echi naturali allo stesso tempo resi partecipi di una salda struttura formale, in cui la dialettica interna di tensione/distensione, transizione/punto culminante, silenzio/suono è stata ottenuta con brillantezza e trasparenza ovunque impeccabili. Pensiamo all’introduzione, al malinconico tema di ballata in quattro battute intonato da oboi, clarinetti, fagotti e corni sulle viole divise: il virtuosismo degli strumentisti ha plasmato un effetto d’aura di infinita suggestione, la quale – lode all’intelligenza del programma – si è legata benissimo con il «suono di natura» dell’Ouverture dal Guillaume Tell rossiniano eseguito in apertura di concerto. Ma la qualità dei legni dell’orchestra ha celebrato autonomi trionfi nel secondo movimento, una delle féeries più ispirate del compositore, con il clarinetto sugli archi in staccato e gli arabeschi successivi con flauti e oboi; e i violini sono stati superiori a ogni lode nell’elegiaco tema quasi brahmsiano dell’Adagio successivo. Un’orchestra di prima grandezza, quella del Mariinskij, cui il gesto delle mani senza bacchetta di Gergiev, con il caratteristico, idiomatico sfarfallio costante, ha donato ad un tempo impulso agogico, precisione di attacchi, fantasia, respiro, fraseggio analitico. E ancora una visione personale: all’attacco della miracolosa Coda in La maggiore, Gergiev non sceglie il tactus innodico, solenne, da corale, che propongono quasi tutti i direttori, bensì uno stacco più veloce, febbrile, come per ribadire che l’inquietudine ottocentesca, anche quando si incarni nelle strutture canonizzate dalla classicità, possiede per sua stessa essenza, sempre, un’impronta smaniosa, agitata, che reca il segno di una tensione nervosa (di un’angoscia?) essa stessa oggetto del fare artistico.

Del resto, che Gergiev sia interprete drammatico d’elezione lo si era udito anche nella breve selezione dalle Suites del Romeo e Giulietta di Prokof’ev, posta al centro della serata. Quattro numeri: Montecchi e Capuleti e La giovane Giulietta dalla Suite n. 2 (primo e secondo numero); Maschere (n. 5 della Suite n. 1); Romeo alla tomba di Giulietta, settimo e ultimo pannello ancora dalla seconda suite. Unico tassello del concerto eseguito da Gergiev senza partitura, con un carico di partecipazione anche fisica viscerale, ha colpito in modo particolare per la compattezza ottenuta dall’assieme, nei Montecchi e Capuleti, realmente narrativa dell’arroganza (Tibaldo) come della dolcezza in radicale contrasto, nell’intermezzo affidato ai flauti e all’oboe, figure della danza di Giulietta e Paride. È probabile che nessuno come Gergiev, oggi, sia in grado di restituire la potenza barbarica del ballo d’entrata delle famiglie, l’affondo in sforzando dei bassi sul ritmo puntato del tema, ma nemmeno lo struggimento e la dolcezza lirica ‘slave’ del madrigale che, per frammenti, appare nel ritratto di Giulietta. E quanto al finale della serie, trenodia con i violini nel registro acuto, Gergiev l’ha restituito come un sussurro smaterializzato che davvero pareva giungere e smarrirsi in lontananze siderali. Un’esecuzione davvero memorabile, che lascia il rimpianto di non aver potuto ascoltare le Suites al completo.

Detto dell’ottima esecuzione dell’Ouverture di Rossini in apertura (qualche problema di intonazione nel solo del violoncello, a dire il vero), quale collegamento alle atmosfere mendelssohniane successive, abbiamo avuto una sorpresa nel finale, con l’esecuzione fuori programma del Prélude à l’après-midi d’un faune: congedo perfetto nel segno dell’abbraccio dell’«antica natura onnipossente», come fosse il programma non detto della serata. Gergiev ha privilegiato la trasparenza, e quindi il disegno e la forma, al colore e al flou, la qual cosa forse non appare ideale per questo Debussy, ma un pregio l’ha avuto senz’altro, quello di dar modo di entrare nei dettagli frammentati della partitura con sguardo diffuso, nella rifinitura per esempio del tema iniziale del flauto con le sue variazioni ritmiche e di armonizzazione, messe in primo piano da Gergiev grazie a un gioco di intensificazione dinamica estremamente vario, ‘chiamato’ dalle sue mani e colto dai professori del Mariinskij come accade solo in un caso: quando l’intesa è perfetta.


 

 

 
 
 

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