L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il pianoforte domato

di Alberto Ponti

Nel suo ritorno a Torino per MiTo, la solista venezuelana presenta due impegnative pagine del grande repertorio

Torino, 13 settembre 2021 - Nella separazione delle carriere che da più di un secolo traccia spesso un solco tra interpreti e compositori, Gabriela Montero costituisce un’eccezione. Non perché nella calda serata subalpina abbia presentato musiche sue, che il programma di sala ci informa essere numerose negli ultimi anni, ma perché all’ascolto si percepisce una sensibilità creativa assente in altri pianisti pure di primissimo livello. D’altronde in tale alveo ben si riconduce la sua nota abilità improvvisativa, e la Montero non manca di darne prova ad ogni apparizione.

Su un pezzo quale la Sonata n. 21 in do maggiore op. 53 Walsdtein (1804) di Ludwig van Beethoven (1770-1827) si è detto tutto il possibile e le occasioni di confronto con visioni esecutive anche assai lontane tra loro sono innumerevoli. Gabriela Montero soprattutto nel primo tempo non raggiunge il massimo dell’eleganza in termini di suono, spesso ‘gonfiato’ da un uso massiccio e disinvolto del pedale di risonanza, e nemmeno di fraseggio ma ogni singola nota trasuda di personalità, in una sorta di ricreazione del pezzo dove le idee beethoveniane assumono talvolta nuova e sorprendente fisionomia. Così accade ad esempio nel successivo Adagio molto, quasi sempre concepito come introduzione al finale, un progressivo accumularsi di tensione prima della comparsa del grande tema discendente al basso. Sotto le dita di questa pianista assistiamo invece a una delicata e poetica rêverie, con il mistero che cede passo alla contemplazione. Il rondò si snoda invece più bilanciato tra gli spiriti opposti. La cura dell’aspetto timbrico è profonda, con taluni contrasti calcati e portati alle estreme conseguenze nell’ambito di un dominio della tastiera assoluto e autorevole. E’ un atteggiamento se vogliamo poco filologico ma emotivamente coinvolgente, da cui scaturisce un’energia propulsiva inesauribile, dai temibili incroci di mani disseminati dal compositore nella partitura fino all’imperiosa cavalcata di terzine a precedere la chiusa in Prestissimo del movimento.

Dopo un’improvvisazione dalle iridescenti atmosfere debussiane ecco Sergej Rachmaninov (1873-1943) con un titolo di impegno notevole quale la Sonata n. 2 in si bemolle maggiore op. 36, presentata nella revisione del 1931 della prima stesura di quasi vent’anni precedente. Opera di virtuosismo spettacolare (giudicata dalla Montero ‘chilometrica’ nel piacevole dialogo seguente col pubblico), la sonata è un banco di prova per la maturità interpretativa di qualsiasi artista. Qui lo stile sanguigno della pianista, l’accentuazione parossistica dei contrasti sono in sintonia con la scrittura dell’autore. Già l’indicazione Allegro agitato del rapinoso esordio chiarisce le intenzioni di Rachmaninov, erede melodico di Cajkovskij, in una sonata sospesa tra la bellezza dei suoi temi e una retorica a suo modo geniale, insaporita da un tappeto di iridescenze armoniche a pieno titolo novecentesche, da estatici abbandoni e lampi di ironia. La scioltezza liquida del secondo movimento (Non allegro) precipita nel travolgente finale, echeggiante di idee dei quasi coevi Études-Tableaux. Nonostante l’invito all’enfasi virtuosistica, il gesto della solista è controllato, il fraseggio scorre naturale senza perdere, anche tra i passaggi di pura forza muscolare, l’intima musicalità, l’ispirato e malinconico fiorire dell’ultimo dei romantici.

Tra gli applausi di entusiasmo, il concerto culmina con ben tre improvvisazioni su temi proposti dal pubblico: Per Elisa e Bella ciao si confermano in testa alle preferenze dei torinesi che, si sa, sono abbastanza tradizionalisti. Definite da lei stessa non ripetibili, nutrite dalla suggestione del momento, dal particolare magnetismo, allo stesso tempo simile e differente, che lega ogni esecutore alla sua platea, confermano il suo talento di creatrice, rivelando capacità costruttiva non indifferente, scavo nelle possibilità ritmiche di una melodia e raffinato senso armonico. Alcune dinamiche esasperate, alcune ridondanze sono la materia grezza di una forma espressiva in cui la patina brillante del manufatto sonoro non sopraffà la logica del racconto musicale ma rimane al servizio della migliore produzione artistica.


 

 

 
 
 

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