Il mito di Ewa

di Roberta Pedrotti

Il grande contralto polacco, emblema di una vocalità che fa della spregiudicatezza androgina di un timbro e di un'estensione che sommano in sé e non escludono i due sessi, trionfa in recital a Pesaro dimostrando come, a dispetto del trascorrere del tempo, il suo strumento unico possa farsi veicolo di una musicalità e di una personalità senza pari.

PESARO, 20 agosto 2014 - Chiara Amarù, belcanto luminoso vellutato e gustoso, Lena Belkina, voce garbata e delicata, Raffaella Lupinacci, colore denso e linea elegante, Veronica Simeoni, musicalità stilizzata e soggiogante. Fermandoci alle produzioni maggiori, senza coinvolgere l'Accademia, il Rossini Opera Festival presentava un assortimento di voci gravi femminili delle ultime e ultimissime generazioni che pareva quasi porsi idealmente sotto l'ala protettiva della decana indiscussa dei contralti belcantisti in attività, punto di riferimento per la schiera di giovani che affrontano, a Pesaro e altrove, questo repertorio.

Ewa Podleś torna nella città di Rossini, dove aveva lasciato poche tracce, ma indelebili e profonde, con altri due concerti (2001 e 2009), Le nozze di Teti, e di Peleo (in cui, nel 2001, fu inserita per lei la cantata Giunone) e Ciro in Babilonia nel 2012; torna e impone subito la sua presenza di diva carismatica, autorevolissima. Basti solo l'ironia con cui dissimula lo stupore per l'assenza di un intervallo dato per scontato dall'artista ma non previsto nella scaletta ufficiale, salvo poi imporre evidentemente, da dietro le quinte, una sosta fuori programma che giunge prontissima. Inevitabile supporre che il contralto polacco, sessantaduenne, gradisse qualche minuto in più di riposo, pur in un concerto che alternava debitamente arie e ouverture, ma la Signora ci stupisce e riappare al riaprirsi del sipario con un nuovo abito: con insospettata civetteria da vera diva dimostra che la sua non era stanchezza, ma desiderio di non rinunciare al cambio; con scrupolo teatrale ha sostituito il completo nero con pantaloni della prima parte, tutta consacrata a personaggi en travesti, con una gonna e una casacca impreziosite da scintillanti inserti blu.

Ewa Podleś torna a Pesaro e la conquista, perché la sua autorità promana da un'arte che va al di là del tempo e perfino della stessa voce. Alle soglie dei quarant'anni di carriera sarebbe assurdo pretendere la piena freschezza dei mezzi, ma la grande polacca fa tutto dimenticare attraversando con impagabile, seducente disinvoltura, fra gli accenti e gli stili dei più diversi personaggi. E il percorso personalissimo possibile in un recital le permette di sfruttare appieno tutte le frecce oggi al suo arco.

È il semidio Orfeo, meno languido e astratto di quanto non si sia abituati ad ascoltare, accorato, bensì, nel mordere quasi musica e parole al colmo del dolore, seguace tormentato di Dioniso più che figlio d'Apollo. È il perfetto androgino, non asessuato, ma somma timbrica dei due sessi.

Ripropone, poi, a due anni dalle memorabili recite in questo stesso teatro, il suo Ciro rossiniano, con la sortita “Ciro infelice” in cui delinea alla perfezione la statura di un monarca, legislatore e condottiero, padre e sposo, del Gran Re dell'Impero Persiano, quindi ben distinto dal giovane eroe ardente e amante ricorrente in tanti personaggi en travesti. La varietà dei caratteri è esposta in maniera eclatante nel contrasto con la successiva ballata di Maffio Orsini, in cui la Podleś fa sfoggio, dopo la solennità autorevole del sovrano, di un'impagabile, succosa ironia, inserendo perfino variazioni spagnoleggianti che ci pare di vedere, sulla scena di un immaginario allestimento completo di Lucrezia Borgia, quali sberleffi rivolti al “marrano di Castiglia” Gubetta. L'energia, il piglio virile, la fantasia, la proprietà di fraseggio, la confidenza profonda con la coloratura e l'essenza dell'arcata melodica, oltre un ineffabile carisma d'attrice, permettono alla Podleś di avvincere inesorabilmente la sala. Ed esplode un'ovazione che amplifica quella già calda e affettuosa che l'aveva accolta al primo apparire.

Subito dopo “Il segreto per esser felici”, e prima dell'intervallo a sorpresa tributato alla volontà della Diva, eccola cambiar volto e mostrare tutta la malinconica dolcezza di cui è capace una voce di contralto prestata al dolore squisitamente femminile del Campo dei caduti dall'Alexander Nevsky di Prokof'ev, forse la perla più emozionante dell'intero concerto, in cui la Podleś ha dipanato con sovrana nobiltà il legato più toccante, la più sensibile musicalità. Dal lamento della giovane russa alla commossa riconoscenza della vecchia Cieca in "Voce di donna o d'angelo" il passo può essere breve o infinito e nella voce dell'artista polacca si può dire sia entrambe le cose: pochi dettagli e un universo è cambiato.

Senza soluzione di continuità, poi, l'ultima metamorfosi è quella più straordinaria, e manda in delirio il pubblico: sfumano appena le note di Ponchielli, la gratitudine stupefatta della madre di Gioconda permea ancora l'atmosfera del teatro, quando risplende Rossini e compare Isabella. Come questa signora polacca possa in un istante incarnare lo spirito travolgente della bella italiana e sedurre tutto il teatro con un'ironia che non sfiora mai, nemmeno lontanamente, la caricatura ma si muove sempre nella musica è un prodigio che ha il solo nome dell'Arte e fa di una cantante una Diva e una Musicista.

Nel suo percorso dal classicismo di Gluck attraverso Rossini e Donizetti fino a Prokof'ev e Ponchielli il mito di Orfeo si trasfigura nel mito di Ewa, l'ultima regina del belcanto androgino, virile e femminile, maturo e giovanile, irruente e pensoso, seducente, dolente, irridente. Un mito strano, che sembra averle conferito il legittimo posto fra le grandi della storia del belcanto solo dopo qualche lustro di carriera. Un mito alla cui ombra le nuove generazioni hanno trovato, trovano e troveranno la loro strada, memore ma non meramente epigona. Un mito che nelle sue qualità ancora abbaglianti riesce a far dimenticare ogni segno – pur inevitabilmente presente – del tempo.

Lo accompagna, sotto la guida di Carlo Tenan, l'orchestra Filarmonica Gioachino Rossini, che cresce via via da un'Ouverture della Clemenza di Tito non nitidissima e da quella, impegnativa assai, dell'Euryanthe di Weber fino agli esiti ben più convincenti della Medea di Cherubini e, soprattutto, di Ruslan y Ludmila di Glinka, proposte apprezzatissime, come negli autentici brividi anche orchestrali dell'Alexander Nevsky.

Gli occhi restano tutti, però, puntati su di lei, che offre un unico bis, presentato e sintetizzato con un irresistibile proemio pronunciato in un sapido italiano: “Lors qu'on a plus que vingt quartiers”, impagabile tirata dell'arcigna e superba Madame de la Haltière, matrigna di Cendrillon nell'opera di Massenet, che travolge il marito con la celebrazione della sua aristocratica prosapia. Trionfo, inutile dirlo, ma la Diva ha deciso, il bis sarà uno e uno solo. E noi ci inchiniamo.

foto Amati Bacciardi