Ordine maniacale nell’ultimo giudizio

di Francesco Lora

 

La Messa da Requiem di Verdi, appuntamento annuale della Scala, riceve da Riccardo Chailly una lettura perfezionistica, che esalta il livello tecnico dell’orchestra e del coro ma riduce i sottintesi culturali ed espressivi del testo. Lussuoso il quartetto dei solisti.

MILANO, 4 ottobre 2014 – Nelle ultime stagioni artistiche del Teatro alla Scala, la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi è divenuta una presenza a tal punto regolare da convincere il sovrintendente a istituzionalizzare l’appuntamento: la si riprenderà ogni anno, in ottobre, a partire da quello corrente. Quest’anno, il 3 e il 4 ottobre, nella stessa occasione è stato simbolizzato il passaggio di consegne tra il direttore musicale di prossima uscita e quello di prossima entrata: dapprima pianificata per Daniel Barenboim, la Messa verdiana è stata diretta da Riccardo Chailly, posto più che mai sotto i riflettori e autore incontrastato della lettura data. Lettura bifronte, non tanto nell’indirizzo quanto nel giudizio. La tenuta, il risalto, il compiacimento della tecnica dell’Orchestra del Teatro alla Scala, con la direzione di Chailly, è favolosa: vige un senso di ordine assoluto, dove ciascuna sezione della partitura è per così dire isolata, studiata a parte, dotata dei propri colori specifici, anche per brevi frammenti; l’omoritmia ha incolonnamenti perfetti; la grande massa rivela i controcanti nascosti, e sia nel pianissimo flautato sia nell’esplosione d’ottoni conserva penetrabilità e trasparenza. Dal canto suo il Coro, il miglior coro del mondo soprattutto quando vi sia da tramandare l’interpretazione verdiana, è il solito giardino di timbri eletti, mobili, genuini, con in più un maniacale perfezionismo di pronunzia e articolazione del testo latino (insidioso con le sue desinenze sibilanti, le sue vocali ululanti, i suoi gruppi consonantici croccanti e onomatopeici).

È difficile restituire il testo scritto con più esattezza di quanto Chailly ponga in atto, e anche il recensore si lecca i baffi. Ma il testo di un’opera musicale consiste non solo in ciò che è scritto, laddove la tesi di Chailly, proprio a partire da questa considerazione, si fa nel complesso esigua e persin debole nel confronto con quella altrui. Da un Introito e da un Kyrie alonati e soffusi, di gusto quasi impressionista, l’arco è teso fino a un Libera me idealmente separato in particelle, tanto frutto di studio individuale quanto indizio di un mancato continuum che accumuli l’attenzione dell’ascoltatore: il discorso tecnico e analitico è inattaccabile, mentre quello culturale ed espressivo latita. In questa Messa da Requiem non v’è turbamento, non v’è compunzione, non v’è tensione e non v’è rubato, non v’è brivido al clangore delle trombe sulla gran visione sonora del giudizio finale, non v’è infine l’immagine di un Dio che giudichi e condanni, che consoli e accolga. È una lettura di ordine matematico e perfetto, inquietantemente confortevole come la legge di uno Stato totalitario: in ultima istanza, una lettura per così dire atea. Ed è una lettura in certo qual modo fuorviante, se alla conclusione del concerto la reazione non è quella abituale dell’ammutolimento personale, del desiderio di isolamento e riflessione, bensì quella esaltatella, festosa e qui superficiale, che meglio si assocerebbe a una Nona di Beethoven o ai Carmina Burana di Orff.

Attestato di perfezione con riserva spirituale, dunque. Mentre i lussi si sprecano nel quartetto dei solisti, con le donne magnificamente sposate nei loro duettini e gli uomini tecnicamente avvedutissimi. Il soprano era Anja Harteros, fraseggiatrice di naturalezza pressoché italiana, servita nel contempo da un timbro fascinoso e spontaneo, sicura da un capo all’altro della tessitura ed eccellente per sensibile duttilità espressiva: un talento canoro e teatrale, quand’anche in una composizione sacra, riguardo cui il Libera me secondo Chailly, dilatato e sezionato, sembra gabbia inesorabile intorno alla colomba che si dibatte. Il mezzosoprano era Elina Garanča, ben amalgamato contraltare al soprano per via di quel colore tenuto quanto più possibile scuro, per via di quell’accento tenuto quanto più possibile statuario e per via di quel timbro vellutato tenuto quanto più possibile omogeneo, a costo di schiacciare qualche acuto e di ritardare l’ingresso nel registro di petto. Il tenore doveva essere Jonas Kaufmann, che dopo il consueto forfait è stato rimpiazzato da Matthew Polenzani, tenorino del quale in Italia si erano quasi perse le tracce, piuttosto anonimo per doti naturali ma eccellente dove vi sia da esibire il curriculum di belcantista: ecco le ali del legato, il lungo orizzonte dei fiati, l’impalpabile registro misto nell’intonazione dell’Hostias nell’Offertorio, il generoso squillo profuso in tutti gli altri luoghi. Il basso, infine, era Ildebrando D’Arcangelo, con il suo accento scolpito e profetico più che propenso alla sfumatura, con quella continuità di registri e con quel timbro traboccante di armonici che oggi forse nessun altro basso italiano può condividere alla pari; figurarsi quelli stranieri.