Veni, vidi, vici

di Roberta Pedrotti

 

Giulio Cesare di Händel va in scena per la prima volta nella storia al Regio di Torino, a sedici anni dall'ultima produzione operistica händeliana nella sala di Piazza Castello, e lo spettacolo è all'altezza dell'evento. Spicca il debutto eccellente di Jessica Pratt come Cleopatra in un cast che può contare su prestigiosi specialisti come Sonia Prina e Sara Mingardo, con la concertazione di Alessandro De Marchi e il bell'allestimento di Laurent Pelly

TORINO, 23 novembre 2014 - Händel mancava dalle scene del Regio di Torino da sedici anni, quando vi si rappresentò Il trionfo del Tempo e del Disinganno (Aci, Galatea e Polifemo, nel 2009, fu dato al più intimo Carignano), ma la cosa non stupisce più di tanto, considerato che in Italia il barocco non fa ancora parte integrante della consuetudine delle programmazioni e che l'ampiezza della sala non appare certo fra gli spazi più congeniali al Sei e Settecento.

Il rientro non poteva non essere in grande stile, il Regio non si è fatto sfuggire l'occasione per celebrare uno dei più grandi operisti di tutti i tempi e affermare la propria apertura a questo repertorio: l'opera, mai data prima a Torino, è Giulio Cesare, una delle più belle, note, complesse e perfette, la locandina smagliante, fra debutti e certezze.

L'allestimento di Laurent Pelly nacque a Parigi nel 2011 ed è uno dei più felici del regista francese, evidentemente più a suo agio in questi titoli. Poco importa se l'espediente degli spettri del passato e del mito che si animano e rivivono le loro vicende in un ambiente contemporaneo (sia un museo, un teatro o un cantiere) sia o meno originale, la primogenitura dell'idea interessa poco o nulla rispetto all'efficacia del suo trattamento. In questo caso, poi, non c'è nemmeno da far della filosofia e da analizzare chissà quale sottinteso drammaturgico: abbiamo una narrazione chiara ed efficace, una recitazione curatissima, immagini azzeccate, ironie leggere, momenti spiritosi e altri dove il pathos trova giusto spazio. I personaggi del dramma si muovono – bene – fra dipinti, reperti archeologici, casse e carrelli ripensati come perfetta attrezzeria teatrale, il personale del museo non li può vedere, se non quando, occasionalmente, viene come ipnotizzato, risucchiato nell'azione a impersonare ora i partigiani di Tolomeo, ora di Cleopatra, ora Romani, ora Egiziani, d'ogni fazione. Sul podio Alessandro De Marchi garantisce pari fluidità teatrale: l'orchestra del Regio non è un complesso specialistico – con ovvia eccezione, grazie alla collaborazione dell'Academia Montis Regalis, per gli aggiunti alla tiorba, alla viola da gamba o al cembalo – ma è composta da ottimi strumentisti che si piegano son duttile sensibilità allo stile händeliano. Fa peraltro piacere rilevare come sia ormai entrata in uso una pratica antica, ben attestata dalle fonti e assai utile per le proporzioni di una sala come il Regio, ovvero la presenza di due gruppi per il basso continuo ai due lati della scena, a meglio sostenere – e per acustica e per possibilità timbriche – gli interpreti sul palco, nei recitativi come nei numeri chiusi.

Per questi interpreti sul palco, oltre che per il fascino mitico del titolo, appassionati d'ogni luogo s'erano allertati ed erano in fibrillazione da tempo, e a ragione, in primo luogo per il debutto eccellente di Jessica Pratt, finalmente alle prese con un grande ruolo barocco dopo i tanti allori raccolti sul campo del primo Ottocento.

Elencare ancora una volta i pregi di una finissima musicalità, di un timbro lucente, di un controllo assoluto dell'emissione, di una coloratura perlacea e di sovracuti scintillanti e penetranti sembrerebbe superfluo, se non sembrasse di riscoprirli nella meraviglia di un repertorio nuovo che le calza come un guanto, nel cui stile s'immerge con una naturalezza così disarmante da apparire innata. E lo stesso potrebbe dirsi per la recitazione, che riluce ancor più se si pensa che questo spettacolo fu concepito su misura per un guizzante folletto come Natalie Dessay, così diversa per personalità e struttura fisica, e che Jessica Pratt lo sposa e lo fa proprio, costruendo nel gesto e nella nota un personaggio in continua evoluzione. Dal tono fresco e frivolo delle prime arie (“Non dispera, chi sa” e “Tutto può donna vezzosa”) entra nell'agone politico contro il fratello con leggerezza e seduce Cesare regalando a “V'adoro, pupille” uno spirito giocoso e autoironico , non immemore, si direbbe, della sua Cunegonde nel Candide di Bernstein. Poi, quando la guerra civile si accende, la congiura preme alle porte spade alla mano, non è più tempo di scherzare, e se ne rende conto scoprendo in “Se pietà di me non senti” e “Piangerò la sorte mia” un pathos lancinante, tutto giocato nell'intensità di un fraseggio vario quanto levigato, che dal pianissimo impalpabile si amplia, fra messe di voce e nuances struggenti. Questo nobilissimo, trepido abbandono è il preludio a un trionfante “Da tempeste il legno infranto”, nel quale la coloratura non è più quella della vezzosa adolescente che contende il potere al fratello inizialmente fra piccole ripicche di corte, ma è quello di una regina. Sensuale e grandiosa, sfrontata in quella che è una vera e propria aria di auto incoronazione, giustamente astrale nella strepitosa cadenza che fa esplodere il teatro d'entusiasmo. Soprattutto queste ultime tre arie si iscrivono fra le migliori interpretazioni mai intese dal soprano anglo-australiano.

Non manca, ovviamente, il trasporto erotico nel duettino finale con Cesare, per quanto sia perfettamente chiaro come per entrambi si tratti non di sentimento ma di attrazione fisica cementata dal calcolo politico.

Il condottiero romano è Sonia Prina, veterana in questo repertorio cui manca ora giusto quel mordente fragrante e assertivo nella coloratura furiosa e bellicosa di “Empio, dirò, tu sei” e “Al lampo dell'armi”, ma fa valere tutta la sua classe di padrona del recitar cantando in pagine come il recitativo accompagnato “Alma del gran Pompeo” o “Dall'ondoso periglio... Aure, deh, per pietà”, nel cantabile e nei momenti più lievi e amorosi, ben bilanciati dall'accento sempre appropriato per la situazione.

L'altra veterana è Sara Mingardo, la Cornelia per eccellenza dei nostri giorni, perfetta nel dignitoso contegno, nella fierezza, nel gusto di un canto sempre elegantissimo, austero e femminile.

Maite Beaumont si fa valere come Sesto mettendo a frutto tutta la sua familiarità con il ruolo e il repertorio. Se proprio si volesse impugnare il gessetto di Beckmesser le si potrebbe suggerire di rifuggire una certa tendenza a ingolare, ma si tratta più che di una critica di un consiglio per un'artista di valore. Se poi il figlio di Pompeo è reso con debito equilibrio adolescenziale, né troppo fragile e infantile né eccessivamente eroico, giovane coscienzioso, inesperto, ferito e di grandi ardimenti, Tolomeo rifugge fortunatamente la macchietta del reuccio immaturo e capriccioso. Jud Perry ne sviluppa, infatti, con coerenza la personalità ambiziosa e inconcludente, la protervia e l'incapacità politica, il carattere vizioso e incostante. Non dispone di un mezzo troppo incisivo, ma può sfruttare con intelligenza le sue caratteristiche per evitare di pestare i piedi con facile caricatura in “L'empio, sleale, indegno”, mentre in “Domerò la tua fierezza” sembra farsi sentire un po' di stanchezza e non avrebbe guastato un briciolo di nerbo in più. L'altro controtenore in scena è Riccardo Angelo Strano, lodevole per la totale disponibilità fisica nel rendere in Nireno il buffo stereotipo dell'eunuco effemminato senza mai risultar stucchevole, anche se nella ripristinata aria del secondo atto (inserita, ricordiamo, da Händel per una ripresa in cui il confidente di Cleopatra diveniva una confidente di nome Nerina) non si può proprio dire che tutto fili liscio nell'intonazione.

Uniche voci gravi maschili, Guido Loconsolo e Antonio Abete assolvono con efficacia al loro compito: il primo, tuttavia, dovrebbe limare certe emissioni sgraziate che, perfino nel carattere non proprio positivo di Achilla, spiacciono particolarmente in questo repertorio; il secondo conferisce ai recitativi di Curio quantomeno l'autorità di chi frequenta il recitar cantando dei monteverdiani Caronte o Plutone.

Nell'introduzione e in coda a "Al lampo dell'armi" la parte corale non è affidata, come nel finale, ai solisti, ma a elementi del complesso stabile torinese, che si comportano bene come d'abitudine.

Rispetto alla partitura, che consacra l'onore della chiusura del secondo atto a Sesto (che già, in duetto con la madre, aveva fatto calare il sipario sul primo), è Cleopatra a segnare con “Se pietà di me non senti” la conclusione dell'atto centrale. Il terzo e ultimo seguirà là dove l'azione si era interrotta, con la scena del serraglio. I tagli sono limitati a un'aria di Achilla (“Se a me non sei crudele”), una di Sesto (“L'aura che spira”) e una di Cesare (“Qual torrente che cade dal monte”).

L'ampia platea torinese è affollata in maniera confortante, e ancor più confortante sono l'entusiasmo ardente e la partecipazione che lo spettacolo indubbiamente ispira e merita.

foto Ramella&Giannese