Nabucco da guardare

 di Roberta Pedrotti

 

La classe registica di Andrea Cigni redime le numerose mende musicali del Nabucco prodotto dal circuito lirico lombardo. Ed è un successo.

 

BRESCIA, 29 novembre 2014 - Dopo il Don Giovanni firmato da Graham Vick, la stagione lirica del Grande torna a convincere soprattutto per la dimensione teatrale, puntando su registi di qualità. Là un artista di meritato prestigio internazionale, di casa nelle più importanti fondazioni, qui, ora, in Andrea Cigni una firma che abbiamo più volte apprezzato nel circuito lombardo e cui spetterebbe finalmente un posto d'onore anche nei cartelloni di Torino e Bologna, di Verona e Venezia, di Parma e Pesaro, Milano, Firenze, Napoli, Bari o Palermo.

Cigni ha classe, gusto innato e, soprattutto, sa gestire l'azione e la recitazione come pochi, valorizzando nella narrazione ogni singolo personaggio, anche il minimo. Tante volte gli amanti del teatro tradizionale confondono il rispetto del libretto con i fronzoli accumulati dal tempo e dai gusti passati, anche se talora nascondono piccoli e grandi fraintendimenti. Con Andrea Cigni ogni dettaglio è curato alla perfezione, senza ridondanze, senza goffaggini, ogni personaggio delineato con mano sicura, ché se le psicologie, e i relativi sviluppi, possono anche esser semplici in questo primo Verdi, son tuttavia forti e nette. Perfino il carattere meno interessante, meno approfondito, quello di Ismaele, trova una sua dimensione proprio nella sua inanità, nella sua indecisione al momento di schierarsi con la sua gente o con quella dell'amata. Gli sguardi d'intesa e reciproca incertezza nell'introduzione sono il preludio a un rapporto che sembra non sciogliersi mai, perché se Fenena comprende le ragioni dei suoi sequestratori, ne abbraccia la fede, si prodiga per trovare una via di pace, Ismaele rimane sempre nell'ombra, tradisce i suoi per impeto di passione, non prende risoluzioni, non si mostra mai all'altezza della donna che ama, e che ciò comprende molto bene. La loro muta distanza si intende nel finale, con la toccante morte di Abigaille, che si aggira rivolgendosi ora a Ismaele e Fenena per chieder perdono, a Nabucco per perorare la loro causa, al Gran sacerdote e ad Abdallo per ricordare il “ ferreo pondo” del suo delitto, a Zaccaria in cerca di redenzione, ampliando perfino, e con vera commozione, le didascalie spesso disattese o, peggio, realizzate con goffa pedanteria. Nulla è pedante, qui, e, viceversa, assolutamente naturale.

L'ambiente ideato da Emanuele Sinise è sobrio quanto versatile: un terreno arso e sabbioso, immani pilastri e mura che s'intravedono come quinte fisse. Le luci sono superbe grazie alla bravissima Fiammetta Baldiserri, una delle migliori light designer in circolazione e collaboratrice abituale di Cigni. Gli eleganti costumi, di Simona Morresi, distinguono senza omologazioni manichee fra i toni del panna e dell'avorio di veli, copricapi e caffetani ebrei e i turchesi, i viola e i verderame assiri; Fenena come ostaggio non indossa ancora i paramenti reali del secondo atto, che verranno coerentemente depauperati nel quarto, Abigaille è guerriera, principessa, regina incoronata e decaduta.

Tutto, insomma, è pensato con intelligenza, senza condizionamenti, calibrando con gusto stilizzato e incisivo anche gli effetti delle fiamme che ardono il Tempio di Gerusalemme o lampeggiano alla follia di Nabucco, come i frammenti del suo carro trionfale – modellato sui demoni chimerici dell'arte assira – che cadono nell'ultimo atto. I tempi della musica sono non solo rispettati, ma vissuti come parte integrante e irrinunciabile, anima del respiro teatrale. Il coro dei leviti che accusa Ismaele appare dalle tenebre sul fondo come bianchi spettri, visioni dettate dal rimorso che via via prendono vita e consistenza reale; in generale la gestione delle masse sia nelle grandi scene del Popolo Eletto, sia nelle marce guerresche e festive degli Assiri, o del cammino finale verso il patibolo è mirabile per l'ordine, l'equilibrio e il perfetto, coerente dinamismo.

Il coro è, peraltro, anche il trionfatore musicale di una recita alquanto problematica per il resto, e un plauso particolare va al suo preparatore Antonio Greco anche per la chiarezza dell'articolazione della parola.

L'espiazione della cattività babilonese inizia proprio con Nabucco, vero ministro dell'ira d'un nume evidentemente assai sdegnato. Paolo Gavanelli, titolare di tutte le recite in vece dell'inizialmente annunciato Alberto Gazale, infligge al testo verdiano piaghe ripetute e sanguinose con l'usura impietosa del suo strumento, ruvido, greve, faticoso, che oscilla fra ruggiti, suoni belluini, completamente fuori controllo ed emissioni, viceversa, flebili, sfibrate e stanche, con persistenti sbandamenti d'intonazione e musicalità quantomeno macchinosa. Gli si può concedere qualche intenzione di fraseggio – l'esperienza comunque è trentennale – ma i suoi mezzi, tecnici e naturali, gli consentono di guardare solo da molto lontano l'orizzonte della sufficienza.

Tiziana Caruso dispone di un materiale vocale notevole, ma non ne affida l'amministrazione che alla natura o all'istinto. La posizione del suono è bassa, non ricerca il sostegno sul fiato e la punta della proiezione, ma la larghezza che s'impone nei centri con la forza più che con la tecnica e la classe, mentre gli acuti risultano schiacciati, non ben girati, i gravi vuoti, poco udibili o parlati. I passi di coloratura sono addomesticati o dilatati all'estremo, l'accento talora compensa con sottolineature veristiche. La bella prova scenica e l'importanza dello strumento le possono garantire il successo nelle piazze meno esigenti, ma, senza una profonda revisione del suo metodo di canto, sembra destinata a rimanere nel novero delle interpreti di grandi potenzialità non messe a frutto.

Grandi potenzialità erano anche quelle che ammirammo in Enrico Giuseppe Iori quando, una quindicina d'anni fa, s'affacciò all'agone lirico. Oggi una certa usura si fa, purtroppo, sentire: il suo Zaccaria può giocare sull'esperienza e sulla chiarezza della dizione, ma il canto più fragile, prosciugato, come un legno pregiato che abbia patito una cattiva stagionatura e l'aggressione dei tarli.

E, del pari, ricordiamo con piacere le prime esperienze di Gabriele Mangione in ruoli secondari nei quali esibiva una voce brillante di pregevole proiezione. Non sappiamo se ora vi sia difficoltà nel gestire l'evoluzione del suo strumento o se, viceversa, lo stia forzando verso ruoli più pesanti del dovuto; quale ne sia la ragione, si avverte ora un'apertura del suono che ne pregiudica il controllo, la qualità, la penetrazione. Ismaele è ruolo insidioso, perché, pur non avendo spazio di glorie vocali né occasioni di mostrare una qualche, seppur elementare, incisività o evoluzione caratteriale, richiede già, tuttavia, la cavata e l'accento del tenore verdiano. Non Radames o Alvaro, certo, ma nemmeno Nemorino o Ernesto: il suo è un eroismo del 1842, ma un eroismo, e verdiano.

Fra tutti, chi non si può certo dire non canti bene è Raffaella Lupinacci, sempre elegante nell'emissione che però trova il suo terreno privilegiato nei decenni precedenti, mentre Verdi, anche per Fenena, richiede una cavata, una pastosità che non sono (ancora) nelle corde del giovane mezzosoprano calabrese.

Il baritono Antonio Barbagallo almeno non è l'orco brutale che solitamente interpreta il Gran sacerdote di Belo; Giuseppe Distefano è Abdallo, Sharon Zhai un'Anna finalmente importante nell'azione.

Sul podio, Marcello Mottadelli non contribuisce a sollevare le sorti musicali della produzione, rincorrendo alla meno peggio le difficoltà e le esigenze dei cantanti, più che sostenendoli, dopo una sinfonia che non si è fatta apprezzare né per qualità di suono né per mordente o cura del fraseggio con un'Orchestra dei Pomeriggi musicali che non si può dire abbia brillato sotto la sua direzione del suo smalto migliore. Qualche sparsa, e ben comprensibile, contestazione per lui e per Gavanelli non manca dal loggione, anche se oggi il pubblico bresciano si mostra molto, troppo generoso. Gli applausi finali sono così vividi che potrebbero essere verosimilmente attribuiti alle virtù di Verdi e di Cigni e ascritti alla loro gloria.

 

 

foto Alessia Santambrogio