Una Rusalka non val bene un’Aida

 di Stefano Ceccarelli

Sono notissimi tutti i recenti fatti di cronaca nera che hanno afflitto il Teatro dell’Opera di Roma: l’abbandono del capitano della nave, il maestro Muti, ammutinamenti vari del personale e la successiva minaccia, poi rientrata, di licenziamento in tronco. Gli spettri che si erano paventati sulla messinscena di Aida si sono concretizzati: Aida non s’è fatta. Non che non si siano cercate bacchette volenterose di sobbarcarsi delle opere prescelte da Muti: ma il confronto (che sarebbe stato inevitabile) avrebbe scoraggiato chiunque. S’è alla fine optato per un nuovo allestimento della desueta Rusalka. Allestimento preparato troppo in fretta e, chiaramente, con pochi fondi. Il risultato non può che lasciare, per più aspetti, a desiderare.

ROMA, 7 dicembre 2014 – L’opera di ripiego scelta per sostituire l’Aida dell’abbandono − per così dire − è la Rusalka, capolavoro operistico del boemo Antonín Dvořák, cui è demandato il compito di aprire la stagione 2014/2015 del Teatro dell’Opera di Roma. L’atmosfera in cui si svolge la produzione non è delle più rilassate. Il nuovo allestimento è stato apprestato in quattro e quattr’otto; si è dovuto reclutare un nuovo intero cast e cercare un nuovo direttore. In così grande ambascia, non tutte le ciambelle possono uscire col buco.
    Apprezzabile è certo la scelta di un titolo raro e che trova la sua consacrazione europea in tempi recenti: Rusalka manca dall’Opera di Roma dalla sua ultima produzione, nel 2008, la quale era stata preceduta dalla première assoluta per il teatro romano nel 1994. Saranno state forse molte le defezioni e le rinunce di abbonati (e non) sentitisi defraudati della loro Aida: ma non si può che definire accorta la scelta di un titolo meno di grido. Saggia anche la scelta di un direttore non certo famoso, per non creare paragoni quanto mai importuni col maestro Muti. Eivind Gullberg Jensen ha esperienze in ambito wagneriano, verista e nel repertorio boemo a cavallo tra gli ultimi due secoli (Janáček); ha, inoltre, già diretto Rusalka. Nel complesso, infatti, porta a casa una buona serata, partendo in sordina e riprendendosi via via nel corso dell’opera, fino alla smagliante performance nel finale III; si percepisce distintamente, però, l’assenza di un congruo numero di prove. L’orchestra non è al suo massimo e il suono non è sempre perfetto; la direzione qualche volta è priva di carattere, peccando nel non trovare un giusto pensiero che si adatti a una determinata situazione sonora. Il tutto si percepisce ancor di più vista la natura intrinseca della partitura, che affida alla parte orchestrale un’importanza cruciale, protagonista tanto quanto le voci stesse, se non, a tratti, di più. Per molti aspetti, la performance di Svetla Vassileva nel ruolo del titolo è assai buona: l’esperienza della partitura le giova certamente. La Vassileva possiede inoltre l’autentico physique du rôle per interpretare l’eterea ondina; e non è certo carente dell’allure giusto. Ma la voce non è sempre limpida come il personaggio che interpreta; in alcuni punti forza negli acuti, pur statuari, stridono lievemente, e la compagine dei bassi è poco potente. Non vibrano molti armonici nelle sue corde: ma i duetti con Vodník e Ježibaba sono più che convincenti. Compensa con un ottimo fraseggio e una buona intesa con Gullberg Jensen: in tal senso, ancor più che la canzone alla luna del I atto, brano celeberrimo, lascia autenticamente spiazzati, intimamente commossi, il finale III, cantato con vibrante emozione e trasporto anche da Maksim Aksenov, nel ruolo del Principe. Dotato di una virile corda baritenorile, di acuti squillanti e di buon fraseggio, impreziosisce il tutto col giusto allure, l’aspetto regale e principesco: ottima l’esecuzione dell’aria finale del I atto. Si distingue positivamente anche il Vodník di Steven Humes, che possiede la giusta dose di sovrannaturale ieraticità (sarà forse per il suo timbro in parte chiaro e per la facilità in acuto?); ancor migliore la Ježibaba di Larissa Diadkova, con quella sua voce brunita realmente stregonesca. Michelle Breedt potrà avere la voce adatta per il ruolo della seducente Principessa Straniera, ma non certo il physique o la giusta sensualità: non funziona proprio sul palco, il che vanifica le scene di seduzione. Opachi gli altri comprimari, tranne l’esperto Antonello Ceron (Cacciatore); deliziose le tre ninfe dei boschi, Anna Gorbachyova (Prima ninfa), Federica Giansanti (Seconda ninfa) e Hannah Esther Minutillo (Terza ninfa), ben amalgamate e vocalmente impeccabili.
    Il punto dolente della produzione è sicuramente la mise en scene, affidata interamente (regia, scene, luci e costumi) a Denis Krief. Tenendo comunque conto della fretta e furia con cui l’opera è stata apprestata, molti difetti derivano recta via da scelte di gusto almeno discutibili. I costumi, per esempio: hanno una foggia non molto curata e tendono a mortificare la magia onirica che dovrebbe essere valorizzata in un'opera come Rusalka. Si pensi alle tutine bianche, stile Arancia Meccanica, per le tre ninfe o la mise dark in pelle di Vodník, che sono una palese contraddizione di intenti dello stesso Krief, che dichiara, nelle note di regia, di evitare regie “global-chic” che dirottino la prospettiva del pubblico dalla storia, per poi spiegare che lui ha inteso le ninfe del bosco come tre elfi che muovono l’azione e in tal senso sono dei macchinisti (…?). Oppure, le luci: proponendo un tipo di scenografia astratta, per lo più neutra (fondali di pannelli lignei), le luci dovrebbero suggerire ed evocare l’ambientazione, riuscendovi solo raramente. Bella, in ogni caso, la proiezione delle onde che si increspano sulla superficie del lago: e non ci si spiega perché non sia stata maggiormente utilizzata nel primo e nel terzo atto, dove l’ambientazione lacustre viene suggerita solo da uno specchio romboidale calato assieme a una sorta di stilizzato canneto. Uniche scene gradevoli di questi atti sono quella della canzone della luna, dove Rusalka, illuminata dai raggi dell’astro, siede presso un salice rappresentato da un pannello con raffigurato l’Albero grigio (1911) di Piet Mondrian − opera quasi contemporanea alla première assoluta dell’opera (1901); e quella iniziale, in cui le tre ninfe (macchiniste…) giocano con lo spirito dell’acqua avvolte da enormi strisce di velino bianco, evocanti l’acqua. Della scenografia del secondo atto, si nota con piacere solo la resa classicheggiante (due filari di colonne in dorico romano) del colonnato del giardino del Principe. Del terzo atto, si apprezza solo la scena finale, − come detto − veramente toccante, dove le luci si fanno soffuse, fino alla morte del Principe baciato da Rusalka, quando una luce rivolta al pubblico compare dal fondo del palco (l’aurora foriera della condanna eterna di Rusalka e della morte del Principe?). A livello registico, stanca e non poco il continuo utilizzo delle botole (da cui esce, di continuo, lo spirito dell’acqua): bastava dosarle un attimo e alternarle con l’uso delle quinte. Incomprensibili i continui passettini da osteria a suon di musica. L’elemento comico in Rusalka c’è, e è ben rappresentato da personaggi come lo Sguattero e il Guardiacaccia. Dunque si fa fatica a comprendere perché rendere comico un personaggio come Ježibaba, che ha nell’ambiguità il suo fascino. Ma il colmo si raggiunge quando, in un opera in cui tutti cantano in ceco, compare su un’enorme cesta di vimini la scritta ‘attrezzi’ (e per giunta vi si mettono dentro solo dei bicchieri!). L’impressione generale, quindi, è di continui impaludamenti registici: come il finale II, non poco impantanato (per non parlare dei movimenti del coro: per fortuna che le coreografie di Denys Ganio ravvivano un po’ il tutto).
    Di questa Rusalka, insomma, si è potuto gustare più l’impianto musicale, brillantemente descritto dal Distaso (dal programma di sala): «il portato sinfonico della sua scrittura musicale si materializza stavolta in una vocalità fatta di intensi colori e di sensuale vivacità, che a tratti rimanda al grand-opéra francese e al suo impatto emotivo, dall’altro è debitrice del canto ucraino dumka, con i suoi accenti epici e melanconici, caratteri che fanno di Rusalka un’opera drammatica simbolico-romantica dal sapore di ballata dove il colorito orchestrale delle triadi e delle progressioni, mescolato con le architetture armoniche delle orchestrazioni tradizionali, sono espressione del forte contrasto fra mondo spirituale e mondo umano che caratterizza il tema centrale dell’opera». Si rimane col rimpianto di una messinscena non certo degna di un’apertura di stagione di un teatro dell’importanza dell’Opera di Roma.

foto Yasuko Kageyama