Grazie, ci mancherai

di Roberta Pedrotti

Si è spento a Londra il 17 luglio sir Graham Vick, uno dei più grandi registi degli ultimi decenni. Era nato a Birkenhead, nel Nord ovest dell'Inghilterra il 30 dicembre 1953.

Bologna, La bohème, 29-30/06/2021

Streaming da Como, Zaide, 20/11/2020

Roma, Zaide, 22/10/2020

Bologna, La bohème, 23/01/2018

Bologna, La bohème, 19/01/2018

DVD, Verdi, Stiffelio

Parma, Stiffelio, 30/09/2017

DVD, Rossini, Guillaume Tell

Reggio Emilia, Don Giovanni, 11/12/2014

Brescia, Don Giovanni, 07/11/2014

Bologna, Guillaume Tell, 08/10/2014

Torino, Guglielmo Tell, 11/05/2014

Pesaro, Guillaume Tell, 11/08/2013

Firenze, Macbeth, 22/06/2013

Era l'estate del 1997, a Pesaro. Avevo sedici anni e come molti adolescenti vedevo poche sfumature; pensavo di avere le idee chiare su cosa si dovesse fare in una messa in scena d'opera, su cosa mi dovesse piacere. Poi, vidi quel Moïse et Pharaon (sul podio, tra l'altro, un giovanissimo e sconosciuto Vladimir Jurowski), non senza fatica perché i posti a disposizione erano pochi, con la scena a occupare quasi tutta la platea del vecchio Palafestival, ma evidentemente era destino: una giornalista tedesca si trovava con un biglietto in più e, vedendomi disperata, me lo regalò. Mio fratello entrò non meno fortunosamente e ci alternavamo di atto in atto sugli amati e scomodi gradoni del palazzetto.

Quella fu un'epifania. Ancor oggi non riesco a trattenere le lacrime quando ascolto il finale terzo “Redoublez d'amour et de zèle” e ricordo quegli egiziani in sottana bianca e armatura lucida – astrazione vagamente futuribile dei costumi antichi – rastrellare ebrei in abiti anni '40. O la discesa di Moïse/Michele Pertusi guidando il suo popolo durante la preghiera. Piangevo, e mi domandavo perché, in uno spettacolo pieno di elementi che ero convinta fino a poche ore prima “non andassero bene”. Ero completamente disorientata: quella sera ho capito cosa fosse davvero l'interpretazione, il teatro, cosa fosse davvero un regista d'opera. Grazie a Graham Vick.

Il 6 marzo del 2001 ho dato il primo esame all'università, Teoria e storia della scenografia, e non potei fare a meno di preparare una tesina su Moïse, sullo straordinario lavoro che per Vick aveva fatto Stefanos Lazaridis.

Oggi, 17 luglio 2021, mentre per coincidenza a Pesaro si prepara proprio un altro Moise, arriva la notizia che Graham non c'è più. Era girata la voce che al rientro dalle prove della Bohème a Bologna, ai primi di giugno, gli era stato diagnosticato il covid; era giunta da Parma la notizia che non avrebbe realizzato lui il suo progetto per Un ballo in maschera, però eravamo fiduciosi, non potevamo immaginare.

Caro Graham,

ci mancherai immensamente e non possono bastare queste righe per dirti quanto ti sono grata, quanto il tuo sguardo fosse un motivo di ispirazione e un punto di riferimento in assoluto, come amante dell'opera e “addetta ai lavori”, ma anche umanamente come una serie di strani casi abbia fatto sì che momenti fondamentali della mia vita coincidessero e fossero segnati da tuoi spettacoli.

Caro Graham, se dovessi definire il lavoro del regista d'opera, tu ne saresti l'incarnazione stessa, l'idea platonica. Un uomo di teatro nel teatro totalmente, fisicamente immerso, instancabile, con una cultura immensa, un'etica ferrea, una conoscenza mostruosa del testo. Studiavi la partitura non meno di un direttore, il testo più che da madrelingua, alle prove sapevi analizzare ogni nota, ogni parola perché avesse senso, ma nello stesso tempo costruire via via lo spettacolo fino all'ultimo secondo con il cast, il concertatore. Ogni tua produzione era davvero un gioco di squadra in cui nulla si perdeva, tutto appariva necessario e naturale, ciascuno finiva sempre per dare il meglio.

Me la ricordo la sera burrascosa della prima di Mosé in Egitto al Rof, nel 2011. Mi ricordo soprattutto l'effetto sorpresa, i bigliettini appesi già nell'atrio dell'Adriatic Arena, ma che non immaginavo facessero già parte dello spettacolo, poi le strane divise delle maschere... E gli sguardi degli egiziani che durante la scena delle tenebre ti interrogavano mostrando le foto dei loro cari. E il buio profondo illuminato solo dai led delle cinture kamikaze alla fine del primo atto (non posso più ascoltare la scena della grandine e del fuoco senza quel brivido). E l'incontro sospeso fra il giovane soldato ebreo e il ragazzino egiziano sulle ultime note. L'emozione era alle stelle, quella sera, un nodo perenne alla gola, uno stimolo continuo al pensiero. Quando una voce interruppe la cabaletta di Elcia (era un nemico personale di Sonia Ganassi, ma non lo sapevamo) mi alzai come una molla gridando “Zitto, imbecille!”. Un attimo dopo le luci accese, una piccola bagarre, i facinorosi buttati fuori e lo spettacolo ripartiva destinato comunque a finire nei servizi di cronaca. Tanto se ne era parlato, d'altra parte, già perché il medio oriente di oggi tocca nervi scoperti, ma tu non ti discostasti un secondo dal senso del libretto e non prendesti parti, se non per due popoli sofferenti in egual minsura ma in modo diverso, osservando le dinamiche dei potenti nella politica e nelle lotte religiose. Diverso, diversissimo dal Moïse et Pharaon. D'altra parte son due opere diverse e le hai trattate come tali, quella francese grandiosa, spettacolare, epopea di un popolo in cammino contrapposto all'asettico e sclerotizzato tiranno.

Graham, hai saputo rappresentare come nessun altro anche la distanza fra i due Macbeth di Verdi. Quello parigino, del '65, dato alla Scala con quel cubo immenso, simbolo del potere intorno a cui tutto ciclicamente ruota; quello fiorentino del '47, visto al Teatro alla Pergola dove era nato, spietata analisi del precipizio mentale e morale del tiranno (come dimenticare la nonchalance con cui la Lady offre i ragali di natale ai figli di Macduff e poi ne ordina il massacro? Come dimenticare Macbeth/Luca Salsi che cerca risposte fra prostitute e travestiti - “dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba” - e poi impazzisce mitra in mano cantando “Vada in fiamme e in polve cada”?).

E vorrei dire L'incoronazione di Poppea a Bologna, o Les troyens e Tamerlano, a Firenze, con Bruce Ford straordinario Bajazet. Vorrei dire Lucia di Lammermoor, in cui dimostravi che cosa fosse una grande e nuova regia con costumi "d'epoca" senza ripetere il già visto (basterebbero gli uomini degli Asthon svegliati di soprassalto per percorrere le spiagge vicine, o l'avanzare lubrico di Arturo verso Lucia sulle ultime note della scena delle nozze). Vorrei dire Anna Bolena, con Mariella Devia che per te, solo per te accettò di cantare La traviata all'Arena (alla faccia di chi si scandalizzò: gli artisti intelligenti si riconoscono fra loro e lavorano al meglio insieme). Vorrei dire quel capolavoro che è stato il tuo primo spettacolo a Pesaro, L'inganno felice (e il tuo sguardo un po' storto nel rispondermi che “nessuna opera è piccola” quando io dopo l'ultima ripresa ti espressi la mia ammirazione per il lavoro svolto in un testo apparentemente semplice). E Don Giovanni, visto a Brescia e a Reggio Emilia, tale da destare immotivato scandalo negli uffici Rai e giacere ancora in un cassetto in attesa d'essere trasmesso. E Simon Boccanegra a Torino, allestimento chissà perché mai più ripreso (sarebbe ora). E La clemenza di Tito, un saggio sul potere in cui calcolasti alla perfezione il limite estremo in cui si potesse sopportare la santificazione di un giovane dittatore in orbace, mostrando poi via via sempre più apertamente l'ambiguità dei rapporti, le manganellate squadriste e le violenze sui dissidenti. La clemenza come instrumentum regni. A ben leggere Metastasio con il senno del XXI secolo, impeccabile.

E quel Guillaume Tell, che inseguii dopo Pesaro a Torino e, per almeno tre repliche, a Bologna. Ricordo che al debutto temevo una delusione dopo il Mosé in Egitto: come replicare un tale capolavoro di opera politica? Ce l'hai fatta, hai lasciato un segno indelebile.

Mi innamorai anche del discusso Flauto magico di Macerata, non mancai di definire non del tutto risolta la tua Semiramide a Pesaro, ma tu stesso già un anno prima mi dicesti di temere un po' l'immensità dell'ultimo capolavoro italiano di Rossini.

Graham, così politico, senza compromessi, anche quando lo spettacolo si legava a doppio filo all'attualità conservava un valore universale che gli consente di non invecchiare. Dopotutto, il tuo Stiffelio sfruttava le ipocrisie di omofobi, sostenitori della “famiglia tradizionale”, antiabortisti e contrari all'eutanasia per raccontare le dinamiche fra i presonaggi e nel farlo realizzava un manuale di teatro in cui ciscuno di noi, immerso nella rappresentazione si trovava costantemente in bilico fra disincanto e immedesimazione, recitare, osservare, crederci o meno. Due volte ho partecipato allo Stiffelio in piedi, talora riguardo il video, spesso mi manca, come mi manca e mi mancherà il tuo venirmi vicino e farmi cenno di spostarmi, alla prima, perché m'infilavo sempre sotto i carri o nei punti di passaggio.

E poi, raccontavi la vita. Alla prima della Bohème a Bologna, nel gennaio del 2018, eravamo in tanti, anche insospettabili a guardarci con gli occhi lucidi e dirci “oddio, parla di me: è la mia vita”. Ti dirò, non credo di aver mai pianto tanto in vita mia a teatro. Non potrò mai dire quanto quelle recite abbiano significato per me.

Non ci sono parole a sufficienza. Chi ha conosciuto Graham Vick lo sa, sa che persona meravigliosa fosse e quanto tutti coloro che hanno lavorato con lui ne siano usciti arricchiti e ne serbino un ricordo pieno di affetto.

Ci sarà tempo per razionalizzare, per parlare del suo teatro, che nel lockdown ancora aveva saputo regalarci quella meravigliosa Zaide in streaming da Como (a Roma era andata in scena con il pubblico, ma lo spettacolo aveva in video una sua autonomia e coerenza di inno al teatro davvero toccante), che avremmo voluto ritrovare a Parma per Un ballo in maschera, se non fosse che già le sue condizioni di salute avevano fatto affidare la realizzazione a Jacopo Spirei. Pregustavamo, però, la Madama Buttefly già annunciata per il 2022 a Torre del Lago.

Ora, solo, Graham, ci manchi. Ora, solo, un abbraccio a Ron Howell, con il quale formavi una delle più belle coppie che io abbia mai conosciuto, con il vostro perfetto equilibrio umano e artistico che si concretizzava in ogni spettacolo, in cui la presenza di Ron è sempre stata molto più che di un semplice, seppur eccezionale, coreografo.