Otello, tragedia rossiniana

 di Roberta Pedrotti

 

L’Ottello che sto scrivendo Sarà Magnifico e Certamente accrescerà la mia riputazione, se però è possibile Sorpassare il Cielo.1

Sto travagliando nell’Ottello Cosa difficile ma sicuro dell’effetto2

Spero avrete sapute Le notizie dell’Opera Immensa Otello andata in scena il 3 del presente che chiasso che capo d’Opera io certamente mi sono superato in maniera che dubito qualche volta di essere L’autore di una cosa tanto Clasica.3

Ora si darà ancora l’Ottello. Opera Clasica e che io preferisco a tutte le mie.4

Così Rossini riferiva alla madre della gestazione e dell'esito del suo Otello, definendolo a più riprese come "classico", termine che potrebbe stupire e fuorviare, ma che offre anche un'efficace ed eloquente chiave di lettura. Innanzitutto aiuta a sgombrare il campo da pregiudizi romanticheggianti influenzati da una reverenza verso Shakespeare che non avrebbe luogo ad estere, vuoi per le fonti dirette del libretto, che s'ispira al dramma inglese attraverso più d'un tramite, vuoi per la statura autonoma di questa trattazione del vero e proprio mito del geloso Moro di Venezia. Proprio invocando questo status di mito, in realtà, Stendhal criticava il testo del marchese Berio di Salsa: oltre che dalla musica, a suo dire, l'opera era retta dal ricordo di Shakespeare, cui si deve l'elevazione a mito del soggetto, ma proprio rammentare i versi inglesi condannava senza appello, a suo dire, quelli italiani. Tuttavia, già il teatro classico insegna il valore della trattazione sempre rinnovata d’un mito universalmente noto, che non per questo deve mancare in originalità e profondità artistica.


La marcia di Otello

Shakespeare apre la sua opera con una cupa scena notturna fra Jago e Roderigo, e in Verdi la tempesta è già presagio della drammatica conclusione non meno del bacio che chiude il duetto d’amore parallelo a quello estremo all’esanime Desdemona. In Rossini, invece, il mito di Otello è introdotto con una scena di trionfo cui l’ostilità di Jago e Rodrigo non è che pallido, ma già insidioso, sfondo5. Il meccanismo, dunque, è il medesimo del mito di Edipo: la sventura coglie l’eroe nel momento di maggior fortuna, è colpito dallo  φθόνος των θεών (classicamente, l'invidia degli dei, qui, nello specifico, l’astio e lo sdegno di Iago, Elmiro e Rodrigo) essendosi macchiato involontariamente di ὕβϱις,tracotanza, superamento dei propri limiti. Aristotele indica infatti come protagonista ideale della tragedia il «tipo d’uomo intermedio: quello che, distinguendosi per virtù e giustizia, cade nella sventura non per vizio o malvagità, ma per un errore» (Poetica, 1453a). Tale è Otello, perseguitato fino alla fine dall’eco della sua marcia trionfale. È questa una delle più interessanti invenzioni drammaturgiche di Rossini in Otello: laddove nessuna didascalia del libretto reciti all’incirca Odesi da lungi musica festiva, marziale etc… l’eroe eponimo è sempre presentato da un tema di marcia militare, mutevole ma sempre riconoscibile. Tale caratterizzazione musicale di Otello (con la funzione, di direbbe, di una “finta leitmotivica” sempre differente sotto il profilo formale) assume via via differenti valenze drammatiche, segnando il passaggio del Moro dal trionfo alla catastrofe.

La marcia dell’introduzione si presenta come un semplice Vivace marziale che da 4/4 passa a 6/8, di carattere vagamente orientale (nella misura in cui lo è il coro «Regna il terror» in Tancredi), adatto al trionfo di un eroe amante quale, ad esempio, Falliero nella sua sortita «Se per l’Adria il ferro strinsi». Dal punto di vista soggettivo può però risultare un’inquietante anticipazione del sadico giubilo conclusivo; anzi la figura stessa di Otello si può dire tragicamente legata a questo ritmo e a questa specifica configurazione.

Per esempio l’ingresso dell’eroe nel finale primo (Moderato sottovoce)

L’infida, ahimè che miro,

al mio rivale accanto!...

riprende figure ritmiche e armoniche dell’Introduzione e della Cavatina, così come queste ritornano nell'incipit della scena quinta del secondo atto (Moderato maestoso) e terza dell'ultimo (Maestoso). Si può dire che il finale riverberi a ritroso la sua forza straniante su tutta l'opera, facendo di una marcia brillante, di uno stesso Vivace marziale, ora in 4/4 ora in 6/8, il tema caratteristico di un eroe sul quale dalla prima battuta grava un fato implacabile, tragico nell’accezione più propria del termine. In questo senso anche la Sinfonia, proveniente da Sigismondo e da Il Turco in Italia, nella quale D’Amico e Gossett non rilevano alcun legame con l’azione, mostra invece affinità sotterranee ma non trascurabili con il resto dell'opera, per esempio nell’intervento già citato dei timpani, o nell'importanza e nella brillantezza dei fiati, in particolare flauto e ottavino. D'altra parte, al di là di quello specifico carattere timbrico e ritmico che possiamo quasi definire “tema di Otello”, anche il bellissimo preludio dell'ultimo atto rappresenta un ideale trait d'union fra la scena di Desdemona e l'altro magnifico preludio con corno della scena quarta del primo atto, che la introduce al suo primo apparire.


L'atto di Desdemona

Sarà nel terzo atto, il più amato dai commentatori romantici perché, nella struttura, ritenuto il più fedele a Shakespeare, che il personaggio di Desdemona prenderà definitivamente forma e autorità di protagonista. Negli atti precedenti essa era apparsa come un personaggio sostanzialmente elegiaco, simile ad Amenaide: una giovane afflitta da dubbi e timori (recitativo e duettino con Emilia, atto I), travolta dagli eventi, fra il volere del padre, l’amore di Rodrigo, l’amore di e per Otello. Ricorrendo a una terminologia hegeliana si potrebbe definire una personalità in sé. Dopo l’evento traumatico del finale secondo (gli insulti dell’amato, il duello di questi con Rodrigo, la maledizione paterna), Desdemona pare quasi estraniarsi dalla tragedia, che proietta e rispecchia nella natura circostante. Aliena dunque il suo intimo turbamento fuori di sé. Contemporaneamente la natura, ovvero la tempesta incipiente, si fa personaggio e partecipe dell’azione in un’ottica già romantica e schopenhaueriana. Quando Desdemona si risveglia vedendosi innanzi Otello armato la troviamo anche compiuta e realizzata in sé e per sé: consapevole e padrona del suo destino, che affronta con coraggio, non con disperata rassegnazione o dissennata sete d’autoannientamento.

Nel terzo atto troviamo, dunque, finalmente realizzato il ruolo centrale di Desdemona (ovvero, in termini di convenienze teatrali, di Isabella Colbran), prima impegnata solo nel duettino con Emilia (che infatti Giuditta Pasta sostituiva con un «Mura infelici ove ogni dì m'aggiro», ripreso dal «Mura felici ove il mio ben s'aggira»della Donna del Lago), nel Finale I e nel rondò del Finale II «Che smania! Ahimè! Che affanno!». Non solo, però, l'ultimo è l'atto di Desdemona: è anche e soprattutto un modello drammaturgico particolarmente raffinato che prefigura già il finale di Semiramide, criticato, infatti, dal Radiciotti, il quale non comprendeva il passaggio dall’akmè tragica (la scoperta del matricidio) al coro di giubilo per la legittimità regale restaurata. I questo caso abbiamo la giustapposizione simultanea, in una sorta di inquietante doppio finale, dell’angoscia di Otello pentito e della gioia degli altri personaggi ignari del delitto. All’imitazione realistica (i colpi alla porta) si intreccia così, con reminiscenze e richiami tematici, la visione distorta e personale del Moro. Perfino E.T.A. Hoffmann, generalmente critico nei confronti del Pesarese, riconobbe questo terz'atto come una dimostrazione della maestria drammatica di Rossini, altrove, secondo Hoffmann, inespressa.

Benché non ne presenti la forma canonica (scena-cantabile-scena-rondò), la prima metà dell'atto appare come una sorta di Gran Scena di Desdemona, sostenuta dalla sola presenza di Emilia. Non abbiamo nessun fatto teatrale, nessuna azione (al contrario di quanto avviene nell'atto precedente): tutto si svolge nella persona e nel canto di Desdemona e la stessa Emilia non è che l'incarnazione della razionalità e della speranza «che delude sempre». Due soli sono gli elementi esterni che intervengono; il primo è il canto dantesco del Gondoliero:

Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

nella miseria

Voce fuori scena, spersonalizzata, riflette ed oggettiva il sentire presago di Desdemona, così come la folata di vento che infrange la vetrata, il secondo elemento esterno:

Ah, come il cielo

s'unisce ai miei lamenti!...

Ascolta il fin dei dolorosi accenti.

Amplificazione del cupo presentimento che affligge Desdemona già dalla sortita del primo atto («mi veggo in preda a più crudel destino […] Un dubbio atroce m'agita, mi confonde. […] Me infida crede dunque?»)l'intervento del Gondoliero e la tempesta non assumono il valore romantico del colore locale (altrimenti, in luogo di Dante, si sarebbero utilizzati versi del Tasso, nel repertorio abituale dei barcaioli veneziani) o della partecipazione sublime della natura al dramma dell'eroe. È un significante ambiguo, che travalica ogni pretesa di illustrazione narrativa, ancorché simbolica, della tragedia e si carica di un sottile significato psicologico, come dilatazione assoluta dell'angoscia di Desdemona, che era arrivata a cantare all'inizio dell'atto:

In odio al Cielo,

al padre, a me stessa...

anticipando la fatale e autodistruttiva Ermione

Furente, oppressa

odio Pirro, odio Oreste,

odio me stessa.

Il suo tormento si concretizza con incisiva potenza quando, perdendosi in sé stessa, si confonde nella Canzone del Salice:

Salce d'amor delizia!

ombra pietosa appresta,

di mie sciagure immemore,

all'urna mia funesta

né più ripeta l'aura

de’ miei lamenti il suon.

Che dissi?..Ah m'ingannai!.. Non è del canto

questo il lugubre fin. M'ascolta.

Lo spessore drammatico di tutta la canzone va ben oltre l'apparente semplicità della forma strofica: il vero accompagnamento è costituito dal pedale dell'arpa («O tu del mio dolor dolce istrumento»), i fiati prevalentemente, invece, significano il suon ripetuto dall'aura, evocata dalla melodia lenta dei violini; i clarinetti intervengono sulle ultime battute della strofa, suggellata dalla ripresa del tema da parte del flauto solo e dall'eco del corno. La simmetria delle tre strofe è opportunamente variata (restituendo con ipnotica astrazione il modello seduttivo e soprannaturale delle variazioni di Armida) e impreziosita da madrigalismi, specialmente su ruscelletti, sospiri, mormorio, lenti giri, nonché, in più momenti, dall'ampliarsi degli intervalli armonici nelle sestine dell'arpa. E la variazione è forse l'elemento più importante della Canzone, se pensiamo che l'arcana melodia del Gondoliero può benissimo essere vista come variazione ante litteram dell'assolo di Desdemona, già nelle didascalie, che prescrivono prima dolce, poi affettuoso, con espressione.

Proprio l’intervento del Gondoliero assume un ruolo fondamentale nella tragedia (e infatti fu espunto dalla versione con finale lieto) anche per altri legami sottesi allo sviluppo del terzo atto: innanzitutto si tratta di un Maestoso, come poi sarà l'ingresso di Otello, il tremolo degli archi che costituisce l'accompagnamento ricomparirà, anche se in forma meno evidente, nella stretta del duetto fra il Moro e Desdemona. Infine il pezzo si chiude con l'indicazione morendo, la stessa che ritroveremo di lì a poco nella conclusione della preghiera di Desdemona «Deh calma, o Ciel, nel sonno», pur non possedendo quest’ultima lo stesso allucinato straniamento che tramuta la sorte di Desdemona in quella di Isaura (invocata con lo stesso onirico accento con il quale invocherà l'amato nel sonno). È, invece, un momento elegiaco, il riposo di un'anima afflitta dai presagi e dalle reminiscenze, ideale trait d'union fra «No che il morir non è» o «Giusto Dio, che umile adoro» di Amenaide e «Al mio pregar t'arrendi» di Semiramide, anch'esso l'ultimo istante d'anelito e intimo raccoglimento di una grande eroina consapevole di essere destinata alla morte. Non per questo, però, la preghiera va sottovalutata: come rilevò D'Amico la scrittura strumentale possiede una finezza quasi liederistica nella quale il presagio di morte emerso drammaticamente nella Canzone viene espresso con limpida malinconia, accettato con dolore composto, senza disperazione.


Il delitto di Otello

Con la preghiera si conclude la lunga parentesi nell'anima di Desdemona, che infine si addormenta. In questo momento l'orizzonte del dramma si allarga con l'entrata in scena di Otello, il cui monologo assume un altissimo valore teatrale. Apparentemente assai vicina, la scena omologa nell'Othello di Jean-François Ducis, in classici alessandrini, non possiede il medesimo vigore, ricalcando piuttosto maldestramente l'originale Shakespeariano.

W. Shakespeare Othello

It is the cause, it is the cause, my soul,–
Let me not name it to you, you chaste stars!–
It is the cause. Yet I'll not shed her blood;
Nor scar that whiter skin of hers than snow,
And smooth as monumental alabaster.
Yet she must die, else she'll betray more men.
Put out the light, and then put out the light:
If I quench thee, thou flaming minister,
I can again thy former light restore,
Should I repent me: but once put out thy light,
Thou cunning'st pattern of excelling nature,
I know not where is that Promethean heat
That can thy light relume. When I have pluck'd the rose,
I cannot give it vital growth again.
It must needs wither: I'll smell it on the tree.

(Kissing her)

Ah balmy breath, that dost almost persuade
Justice to break her sword! One more, one more.
Be thus when thou art dead, and I will kill thee,
And love thee after. One more, and this the last:
So sweet was ne'er so fatal. I must weep,
But they are cruel tears: this sorrow's heavenly;
It strikes where it doth love.
She wakes.6

 

J. F. Ducis Othello

Oui, je le promet; oui, ma fureur peut-être,

m’entraineroit trop loin ; j’en veux être le maître.

Non, tu ne mourras point… Que ces sombres clartés

l’embellissent encore è mes yeux enchantés!

(en regardant le jour de la lampe.)

Ah ! pour ressusciter cette flamme mortelle,

je puis d’un feu nouveau retrouver l’étincelle!

(en regardant Hédelmone.)

Mais ce feu créateur qui sert à l’animer,

si je l’avois éteint, comment le rallumer!

Avec quel souffle pur je l’entends qui respire !

Un charme tout-puissant vers elle encor m’attire.

Va, ce sang, dans mon cœur que tu viens d’accabler,

ce sang, hélas! Pour toi voudroit encor couler!

Oui, dans ces noirs cachots, dans ces muets abîmes,

où Venise engloutit le coupable et ses crimes,

sans me plaindre un moment, privé de tous secours,

tel qu’un reptil impur, aurois traîné mes jours.

Mais, avec tant d’horreur, voir trahir ma tendresse!

Employons à mon tour le courage et l’adresse.

Voyons comment perfide avec naïveté,

ce front pourra s’armer contre la vérité ?

Mais pourquoi de son crime accabler la parjure !

Mon malheur est certain; je connois mon injure.

Oublions tout : mourrons.7

Nel primo caso il Moro non manifesta alcun dubbio, riflettendo piuttosto amaramente sulle irreparabili conseguenze di un gesto necessario, Ducis, invece, enfatizzando il tormento del protagonista, propone una psicologia manierata, tutto sommato debole, soprattutto se si considera il perentorio, sintetico dialogo shakespeariano con la destata Desdemona e il corrispondente, prolisso quanto capzioso ed esangue, del francese. Il marchese Berio di Salsa, librettista per Rossini, trova a sua volta, pur riferendosi più che altro a Ducis, una soluzione piuttosto pregevole:

Eccomi giunto inosservato e solo

nella stanza fatal... Jago involommi

al mio vicin periglio. Egli i miei passi

dirigere qui seppe.

Il silenzio m'addita

ch'ella di mia partenza omai sicura

sogna il rivale e più di me non cura.

Quanto t'inganni! Egli or al suol trafitto...

Che dissi?... Ah, sol tu colpi al mio delitto!

Che miro! Ahimè!... quegli occhi abbenché chiusi

pur mi parlano al cor! Quel volto, in cui

natura impresse i più bei pregi suoi,

mi colpisce, m'arresta.

Ma se più mio non è... perché serbarlo?

Struggasi... E chi mai puote

riprodurne l'egual? È sua la colpa

se il mio temuto aspetto

l'allontana da me? Perché un sembiante,

barbaro ciel, non darmi in cui scolpito

si vedesse il mio cor?... Forse... che... allora...

Che dico?... E il tradimento

non merta il mio rigor? Mora l'indegna!

Ahi! Trema il braccio ancor! Crudele indugio!

Ecco la cagion... tolgasi... (spegne la face) O notte

che mi siedi sul ciglio eternamente,

colle tenebre tue copri l'orrore

di questo infausto giorno.

 

Di Shakespeare rimane l'ammirazione estatica per una bellezza meraviglioso modello dell'eccellenza naturale, della quale è impossibile riprodurre l'egual, ma soprattutto l'invocazione alle tenebre notturne, le stesse che celavano gli amori di Giulietta e Romeo, le stesse complici dei delitti di Macbeth e della sua Lady. Originale, e splendida, è l'immagine seguente: Desdemona invoca l'«amato bene», Otello non sa se sia desta, e dunque si rivolga sicuramente a lui, o dorma. Un lampo «gli mostra ch'ella dorme»:

Ah! che tra i lampi il cielo

a me più chiaro il suo delitto addita

e a compier la vendetta il ciel m'invita…

Poco prima Desdemona cantava «Oh come il cielo | s'unisce ai miei lamenti», la tempesta era l'oggettivazione della sua angoscia, ora sembra esternare il tormento di Otello e sollecitare la tragica conclusione. Come sarà nella Cenerentola o, più decisamente, nella Donna del lago o in Guillaume Tell, la natura è l'elemento soprannaturale, sublimato in un ideale immateriale distante dalla stilizzazione classica come dal maestoso romantico. Ne è piuttosto la sintesi hegeliana, composta nel perfetto equilibrio compositivo, prima ancora che formale, di un’opera «tanto Clasica».

Una squisita ambiguità interpretativa ammanta anche i versi di Berio che seguono il risveglio dell’eroina, anche sulla scorta del testo di Ducis cui sono direttamente inspirati8. Pertanto, ad esempio, quando nel recitativo appena precedente al duetto finale Desdemona esclama:

Ah padre! Ah che mai feci?

È sol colpa la mia l'averti amato.

Uccidimi se vuoi, perfido! Ingrato!

L'invocazione del padre potrebbe essere intesa come un a parte che sintetizza i versi francesi:

Je ne vois plus d'amant, je ne vois plus d'époux ;

je vois la mort, la mort! Tu l'as prédit, mon père!9

ma Ah che mai feci? è con ogni probabilità rivolto ad Otello, dato l’evidente parallelismo con il terzetto del secondo atto:

Ma che ti fec'io mai?

Quando invece, nel momento fatale, Desdemona canta:

O Ciel! se me punisci

è giusto il tuo rigor.

abbiamo una pura esclamazione cui segue un'affermazione rassegnata e nel contempo provocatoria rivolta ad Otello, a meno di non voler leggere un ultimo atroce fraintendimento nella sua reazione:

Tu d'insultarmi ardisci

ed io m'arresto ancor?

Comunque si vogliano interpretare questi versi, il duetto afferma la statura eroica di Desdemona, restituendole la forza di una donna che in Shakespeare sfida il padre e tutte le convenzioni per unirsi al Moro, ma che inevitabilmente, e in tutte le versioni successive (fino a Boito), lo prega poi di non ucciderla protestandosi innocente. Nel libretto di Berio per Rossini, invece, il solo fatto di non essere creduta le fa preferire decisamente la morte, con una fierezza che avevamo già ritrovato nel finale primo:

ELMIRO

Misero me che sento?

Giurasti?

DESDEMONA

È ver: giurai...

Una risposta tanto perentoria da far tornare alla mente l'eroina shakespeariana:

Che io abbia amato il Moro e deciso di vivere con lui possono proclamarlo al mondo la mia schietta ribellione e la tempesta delle mie vicende...10

Come già accennato, possiamo ribadire qui, servendoci ancora di categorie hegeliane11, che dopo il dramma emotivo, in sé, dei primi due atti, nella prima parte del terzo si verifichi un'oggettivazione del sentimento della protagonista nella Natura e nel canto del Gondoliero, fuori di sé (ma già nel finale del secondo atto cantava «In me non so più ritrovar me stessa»), e che dal momento del risveglio, dialetticamente, sia consapevole e padrona dl suo destino, che domina e costruisce, andando verso la morte anche nel canto, che tendenzialmente presenta virtuosismi discendenti.

L'incipit del duetto contribuisce a determinare lo status eroico di Desdemona, suonando addirittura più imperiosa di Ermione o Semiramide. Confrontando, infatti, l'attacco di «Non arrestare il colpo», «Non proseguir, t'intendo» e «Se la vita ancor ti è cara», subito si nota che il duetto dell'Otello è l'unico a iniziare in battere e sulla tonica, mentre la prima frase di quello di Semiramide è tutto giocato sulla tensione tonica dominante e in Ermione è costituita da un movimento ascendente sul secondo rivolto dell’accordo di tonica12. In entrambi i casi dall'attacco riscontriamo subito un’eccitazione virtuosistica emblema dell'angoscia della regina babilonese come della nevrosi della principessa spartana: Desdemona non ha incertezze, è lei che domina il gioco, decisa a non poter vivere senza la fiducia dello sposo

DESDEMONA

(...)

Come tu puoi?...Ma no....contenta io t'offro

inerme il petto mio.

Se più quell'alma tua pietà non sente...

OTELLO

La tradisti, crudel!

DESDEMONA

Sono innocente.

OTELLO

Ed osi ancor spergiura?...

Più frenarmi non so. Rabbia, dispetto

Mi trafiggono a gara!

DESDEMONA

Ah padre! Ah! che mai feci?

È sol colpa la mia d'averti amato.

Uccidimi se vuoi, perfido! Ingrato!

Il primo verso del duetto è sillabico, potentemente accentato, continuamente frammentato da pause che caratterizzano tutta la scrittura di Desdemona in questa pagina, al contrario di quella di Otello, in seguito la linea vocale si arricchisce di passaggi d'agilità affrontati con tutta l'autorità di un’eroina. L'attacco di «Non arrestare il colpo» è, come già accennato, sulla tonica, il Re4, la voce sale subito al Fa, in fortissimo con tutte le note accentate, e tornare con una quartina discendente di ventiquattresimi alla dominante, il La3, e dopo una pausa scendere ancora al Fa3ribattuto sulla parola «colpo». Anche Otello attacca sulla tonica, ma in levare, con una configurazione virtuosistica molto meno autorevole: dal Re ribattuto scende subito al La e solo sul verso«Che Jago il trucidò» riprende le volute vocali di Desdemona. Questa risponde con un ritmo giambico spezzato, incisivo e sottilmente provocatorio (il giambo è anche il metro della satira) cui corrisponde da parte di Otello un fraseggio al contrario quasi del tutto privo di frammentazioni sillabiche nella parola.

All'Allegro segue subito l'Agitato, non vengono musicati i versi che avrebbero dovuto costituire il tempo lento del duetto:

OTELLO

(Ah quel volto a mio dispetto,

di furor disarma il petto,

in me desta ancor pietà.)

DESDEMONA

(Per lui sento ancor nel petto

benché ingiusto, un dolce affetto

Per lui sento ancor pietà.)

Verrebbero qui ribaditi l'amore di Desdemona, fiera e pietosa verso l'Αμαρτία(l'errore e l'ignoranza) dello sposo, e il tormento di Otello, ma entrambi sono già espressi incisivamente nei versi e nella musica, l'inserimento di un assieme lento nel duetto avrebbe interrotto e rallentato l'azione inutilmente, compromettendo l'effetto fulminante della catastrofe finale.

Non avevamo più ascoltato vento e tuoni dal momento del risveglio di Desdemona, quando si scontrano senza incontrarsi le due figure teatrali e musicali del Moro e della sua sposa, ora sull'Agitato fatale, recita il libretto, «Comincia il temporale».La tempesta in questo preciso momento non è intesa in senso romantico o come ideale cornice dell'akmé tragica, o meglio, non solo in questo senso: «Oh, come il cielo | s'unisce ai miei lamenti...» aveva cantato Desdemona, e Otello «Ah! che tra i lampi il cielo | a me più chiaro il suo delitto addita | e a compier la vendetta il ciel m'invita... », il cielo rappresenta l'interlocutore, l'oggettivazione del sentimento per entrambi, e nel momento fatale li unisce, per sempre nell'estremo amplesso dell'anima. Solo nella morte possono ritrovare l'unione. La morte, la tempesta, la notte; Victor Hugo scrisse a proposito di Otello:

Chi è Otello? È la notte, una figura immensa e fatale. La notte si è innamorata del giorno. Il buio ama l'aurora. L'africano adora una donna bianca. Di Otello Desdemona è la luce e la follia.13

Ugualmente Berio di Salsa fa dire al suo Moro:

O notte

che siedi sul mio ciglio, eternamente

colle tenebre tue copri l'orrore

di questo infausto giorno.

La notte è dunque la chiave della catastrofe, la tempesta è nella mente di Otello e Desdemona prima che nella natura oggettivata, è lo scontro fra l'umbratile energia dell'uno ed il fiero lampo razionale dell'altra. Nella stretta:

Notte per me funesta!

Fiera crudel tempesta!

Tu accresci in me co' fulmini, / Accresci co' tuoi fulmini,

col tuo fragore orribile

i palpiti e l'orror. / tu accresci il mio furor!

Otello e Desdemona cantano assieme, per la prima e l'ultima volta. È lo stesso dolore, la stessa invocazione alla notte da parte della vittima e dell'assassino, i cui ruoli sembrano confondersi. Di fatto, conservando il fulminante precipitare degli eventi la stretta sostituisce e si fa pieno portatore del significato del cantabile non musicato. Solo in un altro punto il rapporto fra i due appariva tanto sottilmente, quando le parole pronunciate nel sonno da Desdemona mentre sogna lo sposo si inseriscono e completano idealmente l'arco melodico del recitativo di Otello. Esattamente nello stesso modo più avanti sulla sticomitia del tempo di mezzo che precede l'Agitato, i versi, divisi fra i due interlocutori

DESDEMONA

Oh qual giorno!

OTELLO

Il giorno estremo…

DESDEMONA

Che mai dici?

OTELLO

Per te sarà!

Sono intonati su un’unica frase musicale, condivisa e ripartita esattamente come lo è la forma metrica.

Il duetto iniziava in Re maggiore, nella stretta torna il Re minore della Canzone del salice e del Gondoliero, Otello attacca normalmente sulla tonica, mentre Desdemona riprende il canto alla quinta superiore, attaccando sulla dominante. Solo sull'Agitato la partitura prevede pioggia, vento e tuoni, sull'ultima frase cantata assieme la didascalia recita «Cessano i tuoni e la tempesta», tuttavia già su «O Ciel! se me punisci» torna l'indicazione di pioggia e soprattutto ricompare il tuono simulato dai timpani (gli stessi dell’ouverture), ricorrente fino alla prima sillaba di «Mori, infedel!». Rossini dimostra così di attribuire un fondamentale valore drammaturgico a questa tempesta, un valore che va ben oltre quello di uno sfondo scenografico ben adeguato alla tragedia.

La strumentazione di questo duetto appare semplice, soprattutto se si pensa alle sfumature timbriche ammirate nella prima parte dell'atto: qui abbiamo quasi esclusivamente viole e violini in funzione prevalentemente ritmica, con valori puntati e numerosissimi chiodi, per esprimere l'incalzare della tempesta tragica, mentre l'unica varietà strumentale è data dal vero proprio intarsio fra viole e violoncelli, che si alternano nelle quartine. Otello chiude naturalmente sul Re, segue un vertiginoso moto discendente degli archi che termina in un accordo di settima sul primo grado di Re Maggiore (quadriade di prima specie: un accordo non certo risolutivo).


Il doppio finale

A questo punto, come si usava anche per il Don Giovanni, in molte esecuzioni ottocentesche calava il sipario14: il gusto romantico era il medesimo di Radiciotti che, come abbiamo già accennato, criticava il coro finale di Semiramide (anch'esso spesso espunto, basti pensare alla revisione parigina del '29). In realtà è proprio questo finale il momento di maggior interesse nell'Otello, in virtù della sua geniale ed agghiacciante ambiguità drammatica che raddoppia i piani narrativi dando vita ad un vero e proprio doppio finale. La soluzione lieta proposta a Roma, un pastiche da Armida e Ricciardo e Zoraide, non merita troppa considerazione, essendo frutto di una mera convenienza teatrale (curioso che, mentre Tancredi, nato lieto, divenne tragico, Otello e Maometto II abbiano subito la sorte inversa), mentre quello originale può essere considerato uno dei momenti più alti della drammaturgia rossiniana.

Al delitto segue il silenzio, un silenzio sonoro, cupo, significativo, che dilata metafisicamente il vuoto e la solitudine che ora atterrano Otello: «De’ detti, ah!, più loquace | è quel silenzio ancor», cantava Desdemona nella grande aria del finale secondo. Il silenzio viene interrotto da Lucio che batte alla porta, chiama Otello e lo informa dell’inganno di Jago. Il dialogo si sviluppa in una totale astrazione temporale e spaziale resa dall’iterazione ossessiva delle medesime cellule melodiche e ritmiche, con una linea vocale ostinatamente circoscritta in un limitatissimo intervallo tonale. Si sviluppa, tuttavia, anche un tragico crescendo alla scena finale, reso con implacabile, oggettiva ed angosciante freddezza dalle sestine del flauto sul racconto di Lucio. Un disegno questo che riprende il virtuosismo dei legni nella marcia dell’introduzione e anticipa quello folle ed ossessivo della scena finale.

Nella scena ultima si ritroveranno temi e moduli di questo fondamentale dialogo, nel quale Lucio assume sia il valore di voce esterna, oggettivante, specchio astratto delle angosce e dei rimorsi dei protagonisti (quale era il Gondoliero per Desdemona), sia quale confidente, la voce della razionalità elusa e lontana dai personaggi, quasi un raggio di speranza nell’implacabile imperscrutabilità del tragico, come lo era Emilia nel suo rassicurare l’amica.

Dall'ingresso del coro, del Doge, di Elmiro e di Rodrigo, abbiamo il sublime e drammaticissimo sovrapporsi di due piani narrativi, di due visioni, lieta e tragica, sovrapposte in un effetto di straniamento che supera anche l'emergente poetica romantica dei contrasti15:

LUCIO

Ah già tutti,

deh, mira contenti.

 

 

OTELLO

A tanto tormento

resister non so!

DOGE

Per me la tua colpa perdona il Senato.

ELMIRO

Io riedo placato

qual padre al tuo sen.

RODRIGO

Il perfido Jago

cangiò nel mio petto

lo sdegno in affetto...

Ti cedo il mio ben.

 

 

 

OTELLO

Che pena!...

CORO

Che gioia!

DOGE

Accogli nel core...

RODRIGO

...il pubblico amore

la nostra amistà

ELMIRO

La man di mia figlia...

 

 

OTELLO

La man di tua figlia?...

Sì...unirmi a lei deggio...

(Scuopre la tendina)

Rimira...

ELMIRO

Che veggio!...

OTELLO

Pentito m'avrà.

(si uccide)

TUTTI

Ah!

Musicalmente la costruzione è di stupefacente finezza: abbiamo una scena di giubilo perfetta, in Mi bemolle maggiore, intervallata però dall'iterato «Che pena!...» di Otello, contrappunto tragico al tono trionfante degli interventi del Doge, di Elmiro, di Rodrigo e del Coro. Anche in questi, però, è presente un'ombra inquietante di follia, quasi ci trovassimo ancora di fronte all'incontrollata oggettivazione del dramma interiore: innanzitutto, se la tempesta reale è conclusa, in orchestra ricompaiono i timpani che ripropongono sommessamente lo stesso trillo che prima significava il tuono (e sul valore psicologico di questo temporale ci siamo già soffermati). Quello stesso trillo dei timpani era però già apparso nell'Ouverture (con una certa insistenza a partire dalla battuta 49) e, in particolare, come inquietante presagio nell'ingresso di Otello nel finale primo. Recuperando l'effetto del palpito riferito al battere alla porta di Lucio, vediamo tornare ossessivamente la stessa frase musicale: il Doge ed Elmiro entrano sullo stesso motivo, Rodrigo chiude con una frase che, a differenza della precedente, discendente, si muove più linearmente (ma anche in modo più virtuosistico) fra il Si bemolle3 ed il Sol4. La contrapposizione Otello/Coro affida all'uno quasi la stessa sequenza ritmica e lo stesso intervallo di semitono su cui aveva intonato «Qual voce» nella scena precedente, mentre al coro che propone su un tribraco (o più propriamente un dattilo con l'ictus sulla seconda sillaba) una vertiginosa parabola discendente (Si bemolle3 Mi bemolle4 Mi bemolle3 per le donne ed i tenori, i bassi raddoppiano all'ottava inferiore) gli archi accompagnano una coppia di accordi ritmicamente del tutto identica al battito alla porta, senza che frattanto venga meno l'iterazione ossessiva della melodia dei fiati (e soprattutto dei legni). Se però il motto ricompare in modo meno evidente, non è per questo meno incisivo: lo ritroviamo ancora iterato fino alle battute 697/8 e 699/700 sia come reminiscenza implacabile dell'atroce rimorso, sia come immagine della stessa Desdemona-Eroina. Questa cellula ritmica elementare, quasi un battito cardiaco (ed in questo senso l'effetto sarebbe simile a quello angosciante del racconto Cuore rivelatore di Poe), si ricollega idealmente alla scrittura del soprano nel duetto finale, con il potentissimo attacco in battere e l'intensa accentazione della sticomitia giambica che precede la cabaletta.

Subito torna la configurazione dell'incipit della scena, con il Doge e, questa volta, Rodrigo che intonano la stessa frase, ma in questo caso i due tenori si alternano su un'unica battuta (il libretto originale vorrebbe un a due disatteso in partitura), solo sul terzo verso, ripetendo in forma ridotta la precedente struttura AAB, Rodrigo risalirà al La bemolle4 per scendere subito al Si bemolle inferiore. La dialettica fra melodie ascendenti e discendenti assume in questo finale un ruolo assai importante, significando il tragico contrasto fra catastrofe e lieto fine sfiorato, tra il sogno e la tragedia: nell'incipit del duetto Desdemona scendeva subito dal Re al Si bemolle, la morte è siglata dal rapidissimo movimento discendente degli archi. In seguito la melodia è sospesa, immobile, affidata a palpiti di un solo semitono, finché non comparirà la voce di Lucio, nuovo elemento esterno oggettivante (nella prima rappresentazione assoluta il ruolo del Gondoliero era affidato all'interprete del Doge, in modo molto più intrigante a Pesaro nel '98 la barcarola era intonata da Antonino Siragusa, impegnato anche come Lucio).

La linea melodica di

Occultati, atroce

rimorso, nel cor!

torna angosciosamente discendente, come quasi tutte le frasi seguenti (fanno eccezione Rodrigo nelle sezioni che potremmo chiamare B ed alcuni momenti del dialogo con Lucio), nelle quali l'ombra della tragedia si insinua atroce nell'apparente lieto fine. Nell’ossimoro dei due emistichi

Che pena!...

Che gioia!

Otello torna all'immobilità di una linea vocale sviluppata nel solo spazio di un semitono, fra il Si bemolle ed il Do bemolle prima, fra Re, Re bemolle e Do poi, fino all'α̉νάγνωσις (agnizione) tragica che riunisce i due piani narrativi, con Elmiro che ripropone la figura discendente Mi3 Re3 Mi2, ed Otello che dopo Do4 Do4 Do3 su «Rimira» risale nella frase finale Mi bemolle4 Mi bemolle4 Re4 Mi bemolle4 Sol4.

Il continuo ripetersi e richiamarsi di forme e motivi intreccia profondamente i due piani del giubilo e della tragedia intima di Otello, che lentamente lo invade e comprende, e vi si riverbera. Peraltro questo finale si configura come immagine dell'intera opera definendola finalmente come compenetrazione implacabile di speranza e tragedia, trionfo ed orrore, illusione e catastrofe.


La tragedia del terzo atto

Possiamo dunque ben sostenere che il terzo atto non rappresenta la geniale conclusione posta dopo due atti piuttosto convenzionali, bensì ακμη̃, apice e risoluzione ideale dei precedenti, che contengono in nuce tutti gli elementi che troveranno qui naturale e completa espressione drammatica. Bisogna pure considerare un totale fraintendimento la diffusa opinione che sancisce l'assoluta, isolata superiorità del terzo atto inteso come il più vicino a Shakespeare: nel suo pur fondamentale Il teatro di Rossini anche D'Amico incorre in questa convinzione, smentita, se non altro, dall’identificazione delle fonti dirette del libretto. I parallelismi con il testo inglese non sono in questo punto affatto rilevanti, mentre del tutto identico a quello di Berio è lo schema adottato da Ducis, che apre il quinto atto con un dialogo fra Hédelmone (Desdemona) ed Hermance (Emilia), seguito dalla Canzone del salice e da una preghiera, quindi abbiamo il monologo di Othello, il suo scontro con Hédelmone (molto più arrendevole che nell'opera) e l'uxoricidio, infine sopraggiungono Hermance, Lorédan (Rodrigo), Odalbert (Elmiro) e Moncénigo (Doge) che annunciano il perdono e svelano le trame di Jago. L'intervento del Gondoliero è invece plausibilmente ispirato al dramma di Giovanni Carlo Cosenza, nel quale Desdemona ode delle voci esterne:

Figlia salviamoci...il cielo ne minaccia la morte.16

Così sempre in Cosenza troviamo l'unica versione che preveda la risoluzione positiva (Otello scopre che Rodrigo è in realtà fratello di Desdemona) non solo come finale alternativo. Il testo drammatico di Otello sottintende numerose fonti, tuttavia, o forse proprio per questo, si tratta di un lavoro autonomo ed originale. Stendhal riconosce al moro lo status di mito, sostenendo che

Ciò che salva l'Otello di Rossini è ancor sempre il ricordo di quello di Shakespeare. Questo grande poeta ha fatto di Otello un personaggio storico e reale quanto Cesare e Temistocle. Il nome di Otello è sinonimo di gelosia passionale, come quello di Alessandro di coraggio indomito17

dunque, rispetto al libretto giudicato indegno del marchese Berio,

rifacciamo noi stessi il libretto.18

Com'era nella tragedia greca, cioè, il pubblico conosce già lo sviluppo e l'esito della vicenda, che è una di quelle «trame tradizionali» che secondo Aristotele «non si possono disfare»: Otello non può non uccidere Desdemona così come Clitennestra deve morire per mano di Oreste. Posto questo dato indiscusso si deve però considerare l'ambiguità dialettica dell'essenza del mito. Mύθος(Mythos) è letteralmente il racconto, il linguaggio, e, come il linguaggio, la sua eternità risiede proprio nella sua infinita varietà. Così non si può accusare l'Otello di Rossini di infedeltà a Shakespeare, né riconoscerne la forza nel ricordo della tragedia inglese. Viene rispettato il μύθος originale, ma in un'ottica diversa; in particolare la costruzione musicale del dramma ne sublima il carattere mitico con un'analisi critica e spietata delle passioni, che non emergono nella loro forza dirompente, ma sono osservate dall'esterno nel loro sviluppo dialettico. Ciò non vuol dire che in Otello Rossini neghi l'emozione, semplicemente l'illusione imperfetta della scena non si fa portatrice della passione reale, non si fa carico di rappresentarla così come si presenta nella vita attraverso l'arte, che è sì specchio del reale, ma uno specchio critico, deformante, che scarnifica le passioni per mostrarne l'essenza più nascosta. Il melodramma è la forma teatrale meno vicina al vero, ed è dunque quella che più d'ogni altra permette quello scarto dalla norma che caratterizza l'universale ed il sublime, cioè il mito. Rossini realizzò costruzioni drammaturgiche di cristallina perfezione dove la componente psicologica emerge in partitura con un nitore e una profondità impressionanti, ma sempre filtrati attraverso lo sguardo clinico e disincantato dell'autore.

Così come Desdemona definisce il suo status eroico, la tragedia rossiniana giunge alla completa realizzazione attraverso gli aspetti coesistenti e paralleli dell'autentica, innegabile, intensità drammatica e della sua disincantata negazione critica che anticipa la riflessione brechtiana (che però fu assolutamente politica): lo stesso termine tedesco Verfremdung utilizzato da Brecht e tradotto normalmente come straniamento indica anche l'alienazione, richiamando dunque alla dialettica hegeliana, sia al distacco tragico rossiniano, che per affermare il dramma come mito deve necessariamente crearlo e saperlo osservare criticamente dall’esterno.

In questo senso andrebbe interpretata la definizione di «Opera Clasica» che Rossini stesso diede dell’Otello in due lettere alla madre19. Definizione tanto più importante in quanto rilasciata da un artista assai parco di dichiarazioni di poetica in un’epoca che, invece, ne era avida e prodiga in egual misura. Non stupisce, dunque, che il compositore che dominò l’Europa ottenendo un successo, anche economico, che ha ben pochi termini di paragone nella storia della musica, amato o criticato, raramente sia stato compreso ed interpretato in maniera univoca, rivelando invece un’ambiguità che egli stesso, in qualche modo, con le se dichiarazioni frammentarie e aforistiche, talvolta sfuggenti o apparentemente contraddittorie.20 Ma proprio nel confine sottilissimo fra distacco ironico ed intensità tragica, fra l’avversione per le innovazioni del restauratore del belcanto21 e la composizione della Bibbia del melodramma romantico e l'anticipazione di poetiche novecentesche consiste il fascino, l'inestinguibile ricchezza del teatro rossiniano. Di un teatro che appagava le aspettative del pubblico, anzi, ne creava i gusti, pure guardando lontano, gettando ponti verso un futuro rifiutato e divinato con geniale inconsapevolezza.

Wagner non fu certo persona conciliante, facile all'apprezzamento verso rivali così ingombranti, nonché lontanissimo come stile e mentalità; perciò il breve dialogo con Rossini riportato dal Michotte assume un particolare valore:

Rossini: Cosicché anch'io avrei fatto della musica dell'avvenire senza saperlo?

Wagner: Voi avete fatto, maestro, della musica di tutti i tempi, ed è la migliore... 22

La definizione di Wagner è perfetta (anche se in Oper und Drama sosterrà più o meno il contrario): musica di tutti i tempi. Altrettanto significativo il «senza saperlo» di Rossini: il suo non è un genio inconsapevole, è un genio lucido e cosciente di sé, e forse anche da questo dipendono le sue nevrosi, il suo carattere ambiguo, istrionico e brillante, ma anche umbratile ed introverso. Si può ragionevolmente supporre che non avesse la benché minima volontà di comporre musica dell'avvenire, ma pure ne comprese il valore e, in un certo qual modo, la portata storica. Che poi questa sarebbe stata ritrovata e riscoperta nella consapevolezza di centocinquant'anni di evoluzione delle poetiche teatrali è prova miracolosa dell'altezza di un genio che Wagner, cercando di non darlo troppo a vedere, riconobbe. Lo stesso artista tedesco, d'altra parte, come narra anche Svevo, aveva visto la sua musica rifiutata dall'idolatrato Schopenhauer, il quale «riteneva che la musica del Rossini fosse quella che si acconciasse meglio alla sua filosofia. Egli intanto per suo conto non voleva che quella.»23 Ciò non stupisce se si confronta una delle rarissime dichiarazioni rossiniane di poetica (riportata da Zanolini nel 1836), che torniamo a citare:

La musica è una sublime arte proprio perché, non avendo i mezzi per imitare il vero, si innalza al di là della natura comune in un mondo ideale, e con la celeste armonia commuove le passioni terrene. La musica, vi ripeto, è tutta ideale, non è arte imitativa.24

con la teoria del tedesco:

La musica (...) è staccata da tutte le altre [arti]. In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; epperché ell'è una sì grande e sublime arte, sì potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, sì e appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più limpida dello stesso testo intuitivo.25

Schopenhauer aiuta ad evitare il fraintendimento di un Rossini esclusivamente olimpico classicista, sottolineando come invece questo ribaltamento della critica platonica all'arte liberi la musica da pretese mimetiche o dalla poetica degli affetti (che scardinerà nel gioco sublime dei «Mi lagnerò tacendo»), facendone invece strumento drammaturgico perfetto di straniamento ed espressione drammatica, tant'è vero che se avevamo riconosciuto nella tempesta ed in alcuni elementi esterni l'oggettivazione del dramma psicologico, dobbiamo ammettere che in questo terzo atto di Otello si concretizza una comunione assoluta, ai limiti della dissoluzione, fra il personaggio e la natura. Una comunione che supera la poetica romantica della natura sublime come emblema dello stato d'animo: non è una rappresentazione del dramma nella natura, ma si tratta di una natura che è dramma, partecipa ad esso e non potrebbe esistere senza.

La miglior conclusione, citando ancora Zanolini, potrà allora essere quella che è forse la più celebre dichiarazione di poetica attribuita a Rossini:

[…]mentre le parole e gli atti descrivono le più minute particolarità degli affetti, la musica si propone un fine più elevato, più ampio, più astratto. La musica allora è, direi quasi, l’atmosfera morale che riempie il luogo, in cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione. esprime il destino che li persegue, la speranza che li anima, l’allegrezza che li circonda, la felicità che li attende, l’abisso in cui sono per cadere; e tutto ciò in un modo indefinito, ma così attraente e penetrante, che non possono rendere gli atti, né le parole.26

A prima vista si potrebbe intendere questa concezione dell’arte in senso neoclassico - illuminista, ma a uno sguardo più attento appare evidente che il mondo dischiuso negli ideali di destino, speranza, allegrezza, felicità ed abisso esprima nel modo più profondo e complesso il divino e indefinito (in senso leopardiano) potere della musica, che mai come in questo caso si trova a rispondere perfettamente all’anelito romantico, e non solo, di una musica pura ed assoluta.


1 Lettera alla madre, Anna Guidarini, Napoli 15 maggio 1816

2 Lettera alla madre, Anna Guidarini, Napoli 8 ottobre 1816

3 Lettera alla madre, Anna Guidarini, Napoli 9 dicembre 1816

4 Lettera alla madre, Anna Guidarini, Napoli 19 agosto 1817

5 La reazione di Iago e Rodrigo è espressa in due discreti a parte («I: Che superba richiesta! | R: A’ voti del mio cor fatale è questa» e «R: Che ascolto? Ahimè! Perduto ho il mio tesoro | I: Taci, non disperar»), ma soprattutto nella didascalia del barone Berio di Salsa «Rodrigo nel massimo del dispetto si vorrebbe scagliare su Otello: Iago lo trattiene». Didascalia spesso disattesa sulle scene e non a torto, poiché Rossini pare non prestare alcuna attenzione al gesto di Rodrigo, così non sembra interessato a valorizzare il pertichino a parte di Iago («T’affrena, la vendetta | cauti dobbiam celar») come invece farà in Ermione tre anni dopo (Cavatina di Pirro, l’andante «Deh serena i mesti rai» e l’a parte di Ermione «E resisti, o mio furore?»).

6 Shakespeare, Othello, V, 2. «Questa è la causa, la causa, anima mia; ma non posso nominarla a voi, caste stelle: questa è la causa. Ma io non verserò l suo sangue, non scalfirò quella sua pelle più bianca della neve e liscia come l'alabastro delle tombe. Eppure deve morire, altrimenti tradirà altri uomini. Spegni la luce e poi ancora spegni la luce. Ma se io spengo te, ancella fiammeggiante, poi posso darti un'altra volta luce se dovessi pentirmi. Ma una volta spenta la tua, meraviglioso modello dell'eccellenza naturale, io non so dov’è il fuoco di Prometeo che possa riaccenderti. Quando ho colto la rosa, non posso più restituirle la sua crescita vitale: è necessità che appassisca. Ti odorerò sulla pianta. Oh respiro balsamico, che quasi persuade la giustizia a spezzare la sua spada. Ancora uno, ancora uno: sii così quando sei morta, e ti ucciderò e ti amerò dopo. Ancora uno e questo è l'ultimo. tanta dolcezza non fu mai così fatale. Devo piangere, ma sono lacrime crudeli. Questo dolore è celeste, colpisce dove ama. Si sveglia.», traduzione dall’inglese di Guido Paduano

7 J.F. Ducis, Othello, V, 6. «Sì, lo giuro a me stesso: si, il mio furore potrebbe trascinarmi troppo lontano; io voglio dominarlo. No, non morrai...Come questi cupi bagliori la rendono bella al mio sguardo amante. Ah, per ravvivare quest’effimera fiamma posso ritrovare la scintilla d'un nuovo fuoco; ma quel fuoco creatore che l'anima, se è spento, come accenderlo ancora? Com'è puro il suo respiro! Un fascino onnipossente mi spinge ancora verso di lei. Viene, il mio sangue, in questo cuore che ora hai infranto, ahimè, questo stesso sangue vorrebbe ancora scorrere per te. Sì, in quei neri anfratti, in quei muti abissi, dove Venezia inghiotte il colpevole e i suoi crimini, senza compiangermi un istante, privato d'ogni risorsa, qual rettile impuro, trascinerò i miei giorni; ma veder tradito con tanto orrore il mio affetto! Sfruttiamo a mia volta il coraggio e l'astuzia, vediamo come, ingenuamente perfido, questo volto potrà armarsi contro la verità. Ma perché colpire chi spergiura il suo crimine? Il mio dolore è certo: l'ingiuria mi è nota. Dimentichiamo tutto: si muoia.», traduzione dal francese mia

8 Val la pena di ricordare che lo stesso Ducis fu forse il primo a concepire un finale lieto per Otello, alternativo a quello noto ed in tutto simile allo scioglimento lieto rossiniano.

9 J. F. Ducis, Othello, V, 4. Più avanti Hédelmone cercherà di persuadere Othello della sua innocenza spiegando come il padre l’abbia costretta a firmare il biglietto amoroso per Loredan (Rodrigo). Dunque l’esclamazione «Che mai feci?» può anche riferirsi plausibilmente alla condiscendenza verso le richieste paterne, nell’Otello di Berio-Rossini limitate ad aver secondato l’errore di Elmiro che credeva diretti a Rodrigo il biglietto e la ciocca di capelli destinati, invece, ad Otello.

10 Shakespeare, Othello, I, 3, traduzione di Guido Paduano

11 Hegel fu, come testimoniano le lettere alla moglie, estimatore di Rossini, che conobbe proprio con Otello e Zelmira a Vienna.

12 Motto imperioso che sembra riflettersi amaramente in quello incipitario dell’arietta «Amata l’amai», nel secondo atto di Ermione.

13 V. Hugo, William Shakespeare, in Ouvres dramatiques complètes, Paris, Pauvert, 1963, p.1399, trad. it. Marco Grondona.

14 A Brescia nel 1827, a Torino nel 1855 e 1856; a Senigallia (1835) e Firenze (1839) si tagliò persino il duetto.

15 Proprio per evidenziare la presenza di due piani narrativi (il giubilo del Coro, del Doge, di Elmiro e Rodrigo; il dolore di Otello) e la loro unione al momento in cui viene rivelato il delitto, non si è adottata una grafica strettamente rispettosa della forma metrica, distribuendo piuttosto i versi in tre diverse colonne.

16 G. C. Cosenza, Otello, V, 2.

17 Stendhal, Vie de Rossini, Paris, 1823. Trad. it. Bruno Revel, Perugia, Passigli, 1990, p.138

18 Stendhal, Vie de Rossini, cit., p.139

19 Lettere citate, 9 dicembre del 1816 e 19 agosto del 1817

20 Come quando scrive alla madre che Il barbiere di Siviglia le sarebbe piaciuto perché la musica era «spuntanea ed’immitativa all’eccesso» (16 febbraio 1916), mentre vent’anni dopo, secondo Zanolini, avrebbe dichiarato che la musica «non è arte imitativa». Nel primo caso si tratta però di un riferimento ai gusti, ed alla sensibilità, della madre, nonché ad una generica adesione al testo ed all’azione, come annotano anche i curatori dell’epistolario, del tutto assimilabile all’espressione drammatica teorizzata nello stesso discorso trascritto da Zanolini.

21 Nella lettera a Tito Ricordi del 21 aprile 1868, scrisse però: «Voglio essere ricordato a Boito, di cui apprezzo infinitamente il belli’ngegno. Egli mi mandò il suo libretto il Mefistofele, del quale vedo volere egli essere troppo precocemente innovatore. Non crediate ch’io faccia la guerra agl’innovatori!; desidero solo che non si faccia in un giorno ciò che solo si puol ottenere in parecchi anni. Che il caro Giulio legga benignamente il Demetrio e Polibio, mio primo lavoro, e il Guglielmo Tell: vedrà che non fui un gambaro!!!». Evidentemente l’ostentato conservatorismo non voleva essere preso troppo sul serio, né però rinunciare ad un atteggiamento prudente e moderato.

22 E. Michotte, La visite de R. Wagner à Rossini (Paris 1860), Bruxelles, Bulens, 1906

23 I. Svevo, Soggiorno londinese, in Italo Svevo “Opera omnia” Racconti, saggi, pagine sparse , a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 1968, p. 687

24 A. Zanolini, Una passeggiata con Rossini, in Biografia di Gioachino Rossini, Bologna, Zanichelli, 1875, p.286.

25 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, Bari, Laterza, 1916, pp.116-7

26 A. Zanolini, Una passeggiata cit. p. 288