L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

2013: celebrando Verdi e Wagner

di Roberta Pedrotti

Gli anniversari sono sempre delle armi a doppio taglio. Sono appigli sicuri intorno ai quali costruire le programmazioni, occasioni per pianificare monografie, convegni, riflessioni, spesso per scoprire materiale raro o proporre nuove chiavi di lettura. Sono anche passaggi obbligati ricchi di insidie, oltre che a rischio di saturazione e ripetitività, alla tentazione di adagiarsi in una programmazione celebrativa senza lo sforzo di una proposta più ricercata e stimolante.

Wagner e Verdi compartecipano in egual misura di pericoli e opportunità: autori così noti, eseguiti, celebrati per i quali è difficile dire qualcosa di nuovo ed è facile in ogni caso far cassetta; autori così geniali e complessi da costituire a ogni lettura una riscoperta. Autori che, per il solo fatto di essere stati i drammaturghi musicali più rappresentativi, rappresentati e influenti delle rispettive tradizioni nazionali, son divenuti vessilli di ataviche rivalità e inesorati dualismi, frutto e della faziosità umana e di una tensione – non priva di sporadici e controversi momenti di attrazione – storica, politica e culturale che affonda le radici almeno nelle campagne teutoniche di Caio Mario. Inevitabile, dunque, che il confronto dialettico generato dalla celebrazione congiunta avesse come corollario anche le stantìe polemiche fra i partigiani dell'uno e dell'altro. Lasciamole da parte, ché l'esser registrate per cronaca è già concedere loro fin troppo spazio rispetto alla riflessione costruttiva su queste due esperienze parallele, percorse da divergenze e convergenze continue.

Anno verdiano e wagneriano, dunque, nel quale il tedesco soprattutto è stato proposto a rischio di ripetitività, vuoi per un catalogo più ridotto rispetto all'italiano, vuoi per l'estensione e l'impegno produttivo che il wor-ton-drama in molti casi imporrebbe a istituzioni dai mezzi non proprio lussureggianti. In sede concertistica abbiamo visto un fiorire perfino stucchevole di Idilli di Sigfrido – pagina di puro intrattenimento privato vagamente appesantita dalla successiva orchestrazione sinfonica, ma pur sempre interessante per la prima esposizione di temi resi ben più noti in futuro – e di Wesendonck-Lieder, con i quali ogni cantante con a disposizione una sala e un pianista pare si sia sentito in dovere di omaggiare l'illustre bicentenario, anche – va detto – con esiti rilevanti, come quelli di Anna Caterina Antonacci.

All'opera la parte del leone l'ha fatta inevitabilmente Der fliegende Holländer, di durata simile a una Traviata, ancora affine per struttura alla tradizione franco italiana, ma già a pieno titolo appartenente al canone della maturità wagneriana, primo in ordine di composizione a esser accolto a Bayreuth, da cui restano esclusi Die Feen, Das Liebesverbot e Rienzi. L'abbondanza di vascelli fantasma che ha percorso l'Italia da un capo all'altro, approdando a distanza ravvicinata in diversi teatri, non è risultata però ridondante, in quanto la qualità e la varietà delle produzioni ha permesso a molti teatri di aprire uno sguardo non banale sul teatro di Wagner. Abbiamo visto come a Brescia la leggenda del navigatore maledetto abbia avuto un debutto assai felice e abbia finalmente presentato al nostro pubblico questo capolavoro in una visione intelligente e coerente, superando perfino la produzione vista alla Scala qualche mese prima, che nonostante di una compagnia di canto fra le più prestigiose, con protagonista un Bryn Terfel dal carisma sempre soggiogante, ha rischiato più volte il naufragio, e non solo per gli acuti pericolosi e taglienti di Anja Kampe. La direzione di Hartmut Haenchen è parsa infatti fiacca e priva di idee, così come la regia di Andreas Homoki, che pure partiva da un'interessante associazione con il capitalismo imperialista e colonialista del declinare del secolo scorso, ma si perdeva in allusioni che spesso affogavano fra trovate sciocche e di impatto teatrale inconcludente. Molto, molto migliore era stata la produzione che aveva aperto la stagione del Regio di Torino, con la direzione tesa e cristallina di un ispiratissimo Gianandrea Noseda e l'eleganza profonda della messa in scena di Willy Decker, con la sua astrazione sintetica, chiara, ricca di suggestioni psicologiche. Senza divi, la compagnia guidata da Mark Doss, credibilissimo anche nel suo aspetto non proprio pallido e nordico, si è distinta per l'efficacia e l'intensità. Lo stesso Doss è stato anche protagonista (alternandosi con il Thomas Hall visto a Brescia) delle recite bolognesi dirette da Stefan Anton Reck con il bell'allestimento di Yannis Kokkos, che con un abilissimo gioco di specchi offriva, con esemplare chiarezza, tutta la spettacolarità e l'ambiguità di questa leggenda marina popolata di fantasmi, attraverso effetti davvero difficili da dimenticare e non privi di intriganti chiavi di lettura, fra dimensione onirica e psicologica.

 

Fra tante recite, più o meno riuscite, val la pena di ricordare anche l'iniziativa Opera Domani dell'AsLiCo, che ha portato una riduzione dell'Olandese di circa un'ora, tradotta in italiano, al pubblico dei bambini e dei ragazzi di scuole di tutta Italia. C'era un po' di scetticismo nel pensare a un Wagner così “addomesticato”, ma l'esito è stato sorprendente, non solo per la qualità del cast (a Bologna ho ascoltato la Senta davvero notevole di Benedetta Bagnara, voce già della Festa dell'Opera di Brescia), ma anche per la cura di uno spettacolo semplice ma non banale e per la partecipazione vivacissima dei bambini impegnati a intonare i cori di filatrici e marinai.

Non altrettanta fortuna sembrano aver goduto in generale altri titoli, e su tutti si segnala la dolorosa sospensione del Ring progettato a Palermo con la regia di Graham Vick. Pare che il Prologo e la prima Giornata siano stati notevolissimi e duole che il ciclo non sia stato completato quest'anno come previsto e che il recupero in extremis delle ultime due giornate sia stato di recente annunciato solo fra il 2015 e il 2016. Non memorabile il Ring Barenboim-Cassiers alla Scala, funestato anche da qualche cambio di cast (come la defezione finale della splendida Stemme per la mediocre Théorin come Brünnhilde), da un allestimento tecnologico ma povero d'idee, aggiornamento contemporaneo di un Wagner solo mitico e figurativo, diretto con bel lirismo ma interpretazione alterna dall'ormai ex “maestro scaligero”.A Roma, ben più interessante, ricordiamo invece il Rienzi con la regia di Hugo De Ana. Dopo l'eclatante Ring diretto negli anni passati da Thielemann, bisogna dire che, però, nemmeno Bayreuth ha convinto del tutto quest'anno con la Teatralogia del bicentenario, sia per la concertazione discussa di Kirill Petrenko, sia per la regia contestatissima di Franz Castorf, che con le sue pompe di benzina e i busti di Marx, Lenin, Stalin e Mao s'illudeva forse di rinverdire i fasti del compianto Chéreau, sviluppati da altri (Vick, Carsen) in chiave politica con ben altri risultati.

Fra tanti Olandesi, però, in Italia e non solo, uno degli spettacoli più rappresentativi dell'anno wagneriano è stato il Lohengrin che ha inaugurato la stagione scaligera appena conclusa. Un momento di teatro formidabile in cui ogni componente era calibrato alla perfezione, in un equilibrio raro, che ha di fatto concentrato le quattro ore dell'opera in un intensissimo battito di ciglia con il fiato sospeso. Claus Guth ha mantenuto una tensione altissima nel sondare tutte le pieghe psicologiche del dramma: Lohengrin è il cavaliere che appare nei sogni di Elsa e da questi viene evocato come una proiezione dell'amore fraterno della fanciulla. Dovrà salvarla, amarla e liberarla da un mondo ostile, dai sensi di colpa. A questo amore una sola clausola è sigillo: l'oblio dell'identità, la negazione delle origini. Elsa e Lohengrin non possono conoscersi e riconoscersi perché nella realtà ella, come causa della sua apparizione, gli è in un certo senso genitrice, egli, materializzando l'amore per Gottfried, le è in un certo senso fratello. Solo ignorandolo potranno amarsi. Affermare il proprio nome non è solo svelarlo a Elsa, è svelarsi a se stesso, e come per Edipo questa scoperta devastante annichilisce ogni speranza di felicità. Come per Edipo, per Lohengrin l'amore è una sorta d'incesto: nel corpus leggendario più antico relativo al Chevalier au cygne, spesso la donna salvata è madre o comunque consaguinea; nella fiaba dei Cigni selvatici è la sorella, con il suo silenzio anche a costo di condanne e calunnie da cui non può difendersi, la diretta salvatrice dei fratelli.

Tutti i cantanti, anche con i rispettivi limiti (e Jonas Kaufmann ne ha molti, ma è anche artista intelligente e attore formidabile, ottimo fraseggiatore nella sua lingua), e Barenboim hanno condiviso ed esaltato questa lettura, pertecipando in egual misura all'esito entusiasmante della recita, mettendo in secondo piano anche le defaillances vocali di Telramund. Che differenza rispetto alla Traviata che ha aperto l'attuale stagione compiendo idealmente il ciclo celebrativo! Dmitry Tcherniacov ha deluso immensamente le aspettative con un teatro privo d'anima e di spessore, dichiarando di volersi concentrare sui rapporti fra i tre protagonisti senza rappresentare il contesto etico e sociale in cui essi si muovono. Ma come è possibile rappresentare una psicologia completamente avulsa dal suo contesto? L'opera è stata ridotta alla storia d'amore accidentata fra un giovanotto piuttosto antipatico e una donna un po' stupida e volubile che finisce per suicidarsi con alcol e barbiturici e che era usa frequentare amici vestiti malissimo, mentre ogni appare il padre di lui a fare dei sermoni cui, non si capisce perché, la gente tende a dare ascolto. La drammaturgia, così perfetta e moderna nel tratto verdiano, nel complesso è assente o fallita. Né ci si consola all'ascolto, che, anche giustamente, non può rappresentare nettamente un altro dal teatro: canto, suono e gesto devono andare di pari passo, e se pure i cantanti s'impegnano assai, ciascuno secondo le proprie possibilità (tecnicamente superiori in Diana Damrau che nei suoi colleghi), e Gatti cura meticolosamente nel dettaglio la sua concertazione, il tutto suona freddo e appesantito.

Scorriamo rapidamente il ben più vario e nutrito cartellone verdiano degli ultimi dodici mesi e il panorama non ci appare concentrato e lineare come quello wagneriano. I titoli sono, evidentemente di più, più diversi, e le problematiche più variegate, giacché oggi come oggi per il cigno di Bayreuth ci troviamo a constatare compagnie di canto di livello medio soddisfacente, con rare punte d'eccellenza e un gruppo di artisti che possono comunque dare buoni risultati con i direttori e i registi giusti, che non mancano. Per Verdi il discorso è simile ma lo spettro qualitativo molto più ampio.

Due sono stati gli spettacoli più significativi che ci piace ricordare. Il primo anche dal punto di vista filologico: il Macbeth riproposto per la prima volta nella versione del 1847 alla Pergola di Firenze, là dove nacque. Notevolissima proposta musicale, che il regista Graham Vick ha letto con un'accuratissima analisi drammaturgica in cui l'attenzione è tutta per Macbeth, la cui centralità in questa versione è prepotente (basti pensare alle sue chiuse solistiche degli ultimi due atti) arrivando perfino a relegare la lady in secondo piano.

Tre lustri or sono Graham Vick aveva messo in scena per la Scala il Macbeth del ’65 opprimendo e inghiottendo ogni personaggio con un gigantesco cubo, emblema impassibile del potere. Oggi, trattando la versione del ’47 cambia giustamente angolazione e si concentra sugli uomini, rappresenta con cura agghiacciante il mondo dell’alta società scozzese e la condizione del popolo, ma anche un degrado che negli ultimi due atti, nell’apparente realismo, distorce la prospettiva gradualmente nel delirio perverso del protagonista.

L'altro spettacolo memorabile è stato l'Otello messo in scena a Genova in chiusura di questo 2013. Uno spettacolo d'altri tempi, reso straordinario dalle voci di Gregory Kunde, Maria Agresta e Carlos Alvarez, ma modernissimo in virtù della sensibilità stilistica di tre artisti capaci di esprimere interpretazioni musicalmente raffinatissime ed elettrizzanti con un canto non men che superlativo. Un Otello che ha lasciato letteralmente a bocca aperta (in particolare per un formidabile duetto fra il Moro e Jago, ma anche per i brani solistici, che hanno suscitato autentiche ovazioni a scena aperta), ma ha offerto molti spunti di riflessone sulle mille sfumature psicologiche e simboliche di questo capolavoro.

Con Gregory Kunde, tenore rossiniano e belcantista puro, raffinatissimo musicista, che alla soglia del sessant'anni ha saputo affermarsi come Moro verdiano di riferimento oggi, e con pieno merito, il tenore più rappresentativo di quest'anno verdiano è stato Francesco Meli, poco più che trentenne e dotato di una delle più belle voci liriche degli ultimi anni, ha quest'anno consacrato collaborazioni importanti con Antonio Pappano (memorabile Un ballo in maschera in forma di concerto a S. Cecilia, l'altro vertice, cui mancava solo la scena, di questo anno verdiano) e Riccardo Muti (Simon Boccanegra ed Ernani soprattutto). Ricordiamo anche Roberto Aronica, che a Parma nei Masnadieri ha sortito esiti davvero rilevanti. Tutte voci solide ma non muscolari, tutti tenori che vengono dalla pratica del primo Ottocento e possono guardare, se ben guidate, nella giusta prospettiva musicale l'opera verdiana. Così come Nicola Alaimo, Carlos Alvarez, Ludovic Tézier, magnifico Marchese di Posa in Don Carlo a Torino, o Ildar Abdrazakov (Filippo II sempre a Torino) e Michele Pertusi (Oberto alla Scala). Fra le donne citiamo Anna Pirozzi, ormai l'Abigaille di riferimento di oggi, Jessica Pratt, Gilda oggi senza eguali e in occasione dell'anno verdiano anche Giovanna d'Arco a Martina Franca, Maria Agresta e Hui He, una delle prime Aide al mondo. Rolando Villazon e Anna Netrebko hanno dato il loro contributo con appassionati recital verdiani incisi con bacchette e complessi italiani (Noseda e il Regio di Torino), mentre Jonas Kaufmann seguita la sua esplorazione di Verdi con esiti che lasciano a dir poco perplessi.

Sul podio le stelle indiscusse di questo anno verdiano sono state ancora una volta Antonio Pappano e Riccardo Muti, anche se non sono mancate buone e ottime direzioni di Michele Mariotti, Renato Palumbo e James Conlon, e soprattutto si sono affacciate nuove stelle di prima grandezza, come Jader Bignamini, allievo di Chailly e autore di una formidabile concertazione di Simon Boccanegra a Parma, ma anche il preparatissimo, meno appariscente ma assolutamente efficace Sebastiano Rolli, capace di domare perfino il crollo dell'anziano Bruson nel Falstaff a Busseto. Pollice verso, invece, per Riccardo Frizza, pesante e sgangherato nell'Oberto alla Scala, e per Andrea Battistoni, giovane promessa al momento non mantenuta.

Teatralmente si è visto di tutto, astrazione e sovraccarico, tradizione e creazione, intelligenza, stupidità, insipienza. Abbiamo citato, nel bene e nel male, Vick e Tcherniakov; non ha funzionato troppo l'attualizzazione di Mario Martone per Oberto alla Scala, né il kitsch oleografico e coloratissimo di Massimo Gasparon per Un ballo in maschera a Parma o l'insistito tableau vivant di De Ana per il Boccanegra a Parma. Il regista argentino ha però riproposto con successo il suo magnifico Don Carlo a Torino, in una Spagna del Siglo de Oro angosciante e oppressiva, mentre Leo Muscato ha saputo conquistare a Parma con dei Masnadieri recitati benissimo e con un uso superbo delle luci. Da dimenticare invece la prova autoreferenziale di Bob Wilson che con un costosissimo Macbeth a Bologna – di livello tecnico nemmeno eclatante: molto meglio altri suoi spettacoli come l'Orfeo di Monteverdi – ha commesso l'errore di sovrapporre alla pulsazione temporale della drammaturgia musicale verdiana una sua propria scansione affatto incompatibile.

Il teatro in musica ha il suo linguaggio, i suoi codici, che non sono quelli della ripetizione di immagini, cadenze, modi e stili già visti e sentiti. Non è museo, ma per potergli dar vita sempre rinnovata bisogna saper conoscere e comprendere i suoi meccanismi, i suoi tempi: così si potrà agire dall'interno e far funzionare uno spettacolo che dovrà essere unico e indimenticabile, quale che sia l'iconografia di riferimento, quale che sia la prospettiva dell'interpretazione. Il resto è come riproduzione meccanica, anche senza stereo e cd, mentre Verdi e Wagner volevano il teatro, scrivevano teatro, ritornavano sui loro lavori, li rielaboravano, li mettevano in relazione con il loro tempo e i loro artisti. Il cantante, il regista, il direttore, il musicologo non possono prescindere l'uno dall'altro e non possono mai stancarsi di studiare, sperimentare, approfondire. E così il pubblico. Questo dev'essere il lascito che, nel bene e nel male, i grandi esiti e i fallimenti di questo doppio bicentenario devono consegnarci a monito, più di tanti concerti celebrativi e compilativi.


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