Giovanna e le sue sorelle

 di Roberta Pedrotti

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La pazzia che trionfa nell'opera, ben inquadrata nelle sue forme, è la pazzia di Orlando, di Nina, di Lucia e di Elvira. È una follia episodica, un delirio del quale si possa individuare una causa scatenante precisa (per lo più di origine sentimentale) e che si può sviluppare e articolare negli spazi, nei tempi e nei modi di una grande scena dedicata.

La rappresentazione di un disagio mentale cronico, che alterni vaneggiamenti e lucidità, non è troppo raro – basti pensare ad Azucena – ma anche in questo caso è per lo più riconducibile melodrammaticamente a un episodio traumatico scatenante ben identificato. Ben altra questione è, invece, occuparsi di un personaggio la cui alterità si esprime in una condizione psichica, si direbbe, innata, in una scissione della realtà che non si può semplicisticamente ricondurre alla patologia, ma che comporta una percezione del mondo distorta – o amplificata – rispetto a quella comune.

È la posizione, sul crinale fra due dimensioni reali o avvertite come tali, di donne eccezionali, folli o veggenti, sante o streghe, interpreti del rapporto privilegiato tradizionalmente istituito fra la femminilità e il mondo dell'inconscio e dell'irrazionale, ma anche del conflitto con un contesto sociale mortificante, che le costringe all'irregolarità. Così è per le menadi seguaci di Dioniso, per le sapienti Circe e Medea, o per le misteriose e insidiose amazzoni, che si appropriano delle prerogative e delle attività maschili. La donna che entra in contatto con il soprannaturale, con l'irrazionale e l'invisibile può essere integrata nel tessuto sociale, come pizia sibilla o profetessa, se rinuncia alla sfera sessuale: le sibille dipinte da Michelangelo nella cappella Sistina hanno vigore e corporature quasi mascolini; le streghe sono pericolose anche perché sessualmente libere, promiscue, voraci. In un contesto, classico prima cristiano poi, in cui l'eros femminile è visto come elemento destabilizzante, incontrollabile, da reprimere, negare e sublimare, l'esito naturale è, in molti casi, di un disagio mentale, di una nevrosi nella quale estasi mistica ed erotica possono confondersi, come vediamo nelle rappresentazioni artistiche di Santa Teresa.

Sintomi schizofrenici (non necessariamente patologie), uniti a un carisma eccezionale, possono manifestarsi proprio in situazioni di disagio e costrizione su soggetti di sensibilità e intelligenza fuori dal comune: caratteristiche tutte facilmente attribuibili a Jeanne Dart, Tart o, poi, d'Arc, adolescente del borgo di Domremy nel XV secolo, suo malgrado, con la sua straordinaria quanto breve parabola dalla gloria militare alla condanna al rogo, origine di una miriade di leggende, interpretazioni, strumentalizzazioni. Come ogni mito, quello di Giovanna è un simbolo che, come nell'etimologia del termine, unisce più significati, sintetizza l'amazzone e la strega, la santa e la visionaria, la donna straordinaria posta fra due mondi, sia dono e dannazione, follia o profezia. Donna per questo pericolosa, che deve essere iscritta nei confini rassicuranti delle fede e della verginità, ma per la quale questi confini risultano inevitabilmente angusti. Così ce la mostra l'opera di Verdi, lacerata fra una grandezza d'animo e una libera sensibilità femminile da un lato, la ferrea volontà di uniformarla ai rigidi valori rappresentati dal padre dall'altro. Così, con un'opera molto più raffinata e potente psicologicamente di quanto non si creda comunemente, Giovanna in Verdi si rivela sorella, più che delle tante altre immagini musicali della Pulzella ispirata da Dio, di tormentate figure femminili del teatro musicale del '900. Donne che sentono voci, donne che vedono oltre, donne che, infine, soccombono fra due mondi, esterno e interiore. [segue]


Mimesis poetica

Accostandosi a Giovanna d'Arco, l'attenzione è subito catalizzata dalle apparizioni delle voci che parlano “alla sola anima di Giovanna”. Le pagine più discusse e più criticate dell'opera, a riprova di una centralità drammaturgica ineludibile.

ATTO I, scena quinta

Carlo depone l'elmo e la spada, s'inginocchia e prega. Intanto alla sola anima di Giovanna parla in sogno il seguente

CORO DI SPIRITI MALVAGI

Tu sei bella
tu sei bella!
Pazzerella,
che fai tu?
Se d'amore
perdi 'l fiore,
presto muore,
non vien più.
Sorgi, e mira,
te sospira
la delira
gioventù.
Non è brutto
qual per tutto
vien costrutto
Belzebù!
Quando agli anta
l'ora canta
pur ti vanta
di virtù.
Tu sei bella
tu sei bella!
Pazzerella,
che fai tu?

I nembi si diradano ad un tratto, e la foresta viene rischiarata vivamente dalla luna. Succede un

CORO DI SPIRITI ELETTI

Sorgi, o diletta vergine,
Maria, Maria ti chiama!...
Francia per te fia libera,
ecco cimiero e lama.
Lévati, o spirto eletto,
sii nunzio del signor...
Guai se terreno affetto
accoglierai nel cor! ~

ATTO II, scena sesta

L'anima di Giovanna è assalita dal seguente

CORO DI SPIRITI MALVAGI

Vittoria, vittoria!... Plaudiamo a Satàna,
e ammorzino i gridi l'eterna sventura...
vedete stoltezza di questa villana
che nunzia è del cielo, che dicesi pura!
Ma d'Eva, o superba, non eri tu schiatta?...
Già nostra sei fatta, già nostra sei fatta!
Lasciamo le tane, sprezziamo l'esiglio,
lanciamoci in alto con urla di scherno;
ai cembali, ai sistri stendiamo l'artiglio,
danziamo, danziamo la ridda d'inferno...
Non tosto Satàna si move alla giostra
la femmina è nostra, la femmina è nostra!

ATTO IV, scena ultima

CORO DI SPIRITI ELETTI

Torna, torna, esulante sorella,
sopra i vanni dell'angelo al ciel!
È il signore, il signor che ti appella,
e ti cinge inconsutile vel.

CORO DI SPIRITI MALVAGI

Più del fuoco che n'arde e ne scuoia,
più che il buio di notte crudel,
n'è tormento d'un'alma la gioia,
n'è supplizio il trionfo del ciel.

I versi di Solera sono, indubitabilmente, brutti, maldestro incunabolo della ventura moda satanica cavalcata da Carducci e portata ai massimi esiti da Boito, oltre, che, naturalmente, estrema conseguenza di quel romanticismo lombardo ghiotto di onomatopee e atmosfere nordiche così ben sintetizzato dalla traduzione del Berchet del Cacciatore feroce di Bürger: “Olá, compagni! addosso addosso, dálli dálli! To to, qui qui, ciuee ciuee ciuee!”

Tuttavia, come sempre nei libretti d'opera, non è il valore intrinseco dei versi a contare, quanto la loro funzionalità al trattamento da parte del compositore. E, in questo caso, da un lato il goffo demoniaco di Solera sembra preconizzare la galleria del grottesco e dell'orrore che Piave imbandirà (suscitando non meno sdegno critico fra i contemporanei) per le streghe del Macbeth o l'elaborazione ambiziosamente iper letteraria di Maffei per i Masnadieri (libretto non brutto, quanto piuttosto coerente con la poetica anticlassica dell'autore e troppo denso lessicalmente e sintatticamente per il canto), dall'altro offre a Verdi l'occasione impagabile di rappresentare le “voci di dentro” di Giovanna.

La Pulzella, pur riabilitata da un successivo processo post mortem nel 1456, salirà agli onori degli altari solo nel 1907 come beata, tredici anni dopo come santa. Le precauzioni nei confronti della censura religiosa – che interverrà in più punti – non saranno mai troppe, ma pure il personaggio non canonizzato offre minori preoccupazioni. Più che mai, Verdi sembra libero di non credere nelle visioni di Giovanna, pur rappresentandole, cosa che non fa, per esempio Schiller, il quale porta sulla scena una sola, enigmatica, apparizione – il Cavaliere Nero – presaga di sventura, ma non le “voci” intese dalla Pulzella, il cui dramma consiste nell'insinuarsi di dubbi e incertezze in una visione di sé e della propria missione politica dapprima granitica.

Solera imbastisce per gli spiriti malvagi quinari, dodecasillabi e decasillabi: versi decisamente poco nobili, nella tradizione italiana, tanto più in quel proliferare martellante di chiuse tronche, di rime baciate o, al massimo alternate. Verdi li prende alla lettera come l'immagine che una pastorella, i cui orizzonti non si erano mai spinti oltre il podere paterno, il villaggio e la “fatidica foresta”, poteva avere dell'inferno; e quale peccato poteva mai immaginare la pia adolescente semianalfabeta fuori di qualche festino danzereccio paesano, dove le ragazze più disinibite potevano mescolarsi ai giovanotti? E come avrebbero potuto parlarle i demoni tentatori? Non certo con i limpidi ottonari con cui le odalische lusingano Anna nel Maometto Secondo rossiniano:

Quando poi fia bianco il crine
cangerem, cangiando aspetto.
Posto il Cielo ha quel confine
fra il diletto e la virtù

Bensì con un proverbio molto più spiccio

Quando agli anta
l'ora canta
pur ti vanta
di virtù.

Ecco allora che il ritmo ternario del valzer, una strumentazione studiata proprio per restituire una certa qual insidiosa grevità popolaresca, il suono accidentato e saltellante di un organetto o di una banda paesana, un po' come sarà l'effetto del violino “scordato” nella Quarta di Mahler. Sembra di vederla, così, Giovanna, osservare con sdegno le finestre illuminate di un'osteria da cui provengono musica e risate, mentre una parte di lei, segretamente, è incuriosita, attratta, e si trasforma inconsciamente nell'insidia demoniaca da combattere.

Per contro, il canto degli spiriti eletti si esprime in un registro linguistico molto più elevato e i versi sono, oltre che decasillabi, più aulici settenari; non si trovano rime baciate, ma lo schema è di semplice alternanza, le uscite tronche servono solo a suggellare la strofa. Verdi usa, ancora una volta un linguaggio familiare a una giovane contadina di poche esperienze, un canto chiesastico sillabico, unisono, accompagnato da arpeggi celestiali. Il coro è santo e più alto nello stile, ma sempre nell'ambito del mondo contadino della Pulzella.

Com'è evidente, Verdi realizza una mimesis perfetta nell'orizzonte musicale di Giovanna (ovviamente in senso lato e non filologico medievale) e fa apparire chiaramente le “voci” come possibile frutto del suo inconscio plasmato sulle sue esperienze. Se poi si vorrà credere alla reale divina ispirazione della Pulzella, si ricorderà la storica diatriba processuale sulla lingua nella quale i santi le si sarebbero rivolti (in francese) e il dono pentecostale della glossolalia, che non rende inverosimile per la teologia cristiana l'espressione del verbo divino nelle forme familiari all'interlocutore. [segue]


Visioni in Mi bemolle maggiore

Ma la rappresentazione delle visioni di Giovanna è trattata musicalmente anche in modo più sottile: i cori degli spiriti sono entrambi in Mi bemolle maggiore, identità tonale necessaria all'intreccio delle voci infere e celesti, ma che ne marca anche un'origine comune e una precisa comune funzione drammaturgia musicale, allorquando l'armatura con tre bemolli in chiave ricorre solo in situazioni ben precise e caratterizzate. Mai in assenza di Giovanna, coincidendo invece sempre con i suoi momenti di massimo turbamento, come nel secondo duetto con Carlo, in cui la reminiscenza dell'ammonizione angelica “Guai se terreno affetto accoglierai nel cuor” innesca una catena di modulazioni che arriveranno a chiudere l'atto nella massima tensione possibile, alla tonalità della dominante, La bemolle maggiore. La stessa, peraltro, dello spossato turbamento espresso nella romanza “O fatidica foresta”, quando, prima delle apparizioni spirituali bemollizzanti, la propulsiva cavatina “Sempre all'alba ed alla sera” era invece in un più luminoso La maggiore. Per quanto nel sistema temperato occidentale l'enarmonia metta in guardia da un'eccessiva considerazione dell'ethos delle tonalità, è anche vero che nella Giovanna d'Arco le armature in bemolle afferiscono spesso e volentieri alla sfera soprannaturale (anche nella cavatina del tenore) e definiscono sempre situazioni di difficoltà, inazione e contrasto psicologico per la protagonista, fino alla sublimazione di queste nell'apoteosi della morte, conseguenza ultima e massima espressione, nella medesima tonalità, dei primi richiami delle “voci”. Per contrasto, la presenza di Giacomo, antagonista principale dell'interiorità di Giovanna, tende alla solidità fondamentale del Do maggiore e tonalità limitrofe prevalentemente diesizzanti (l'unica eccezione solistica è una cabaletta in Fa maggiore, un solo bemolle in chiave).

L'atto centrale della Cattedrale di Reims è interamente incorniciato dal Mi bemolle maggiore, dalla Marcia Trionfale d'apertura fino alla stretta conclusiva. Gli interventi di Giovanna, benché il quadro si articoli in diverse sezioni tonali, coincidono esattamente ed esclusivamente con la riapparizione, prima, dello stesso La bemolle, dominante di Mi bemolle, ancora sospeso nella sua voce dalla stretta dell'atto precedente nel massimo turbamento e senso di colpa, poi, finalmente del Mi bemolle che segna la rinuncia alla difesa e l'esaltazione mistica dell'espiazione per un peccato solo immaginato. La tonalità delle “voci” è la tonalità con la quale Giovanna si consegna all'inquisizione e al rogo, quasi l'anelito di morte intonato intorno al La bemolle nel secondo atto

Oh perché
sui campi in guerra
non versai quest'alma impura?...
Chi m'adduce a ignota terra
ov'io celi il mio rossor?
Ma, se ad anima pentita
valga il pianto e la sventura,
ogni giorno di mia vita
sia pur giorno di dolor!

trovasse requie e risoluzione sul Mi bemolle in cui si sentiva in contatto con la dimensione sovrannaturale:

Contro l'anima percossa
tuona, tuona, eterna voce;
ma la colpa sia rimossa,
fia purgata nel dolor!
Dell'accolto pentimento
ecco l'iride già sento...
bene venga la mia croce,
io l'attendo con amor.

Il ciclo armonico è compiuto con l'espiazione: allorché Giovanna torna all'azione “dal padre benedetta, appurata dai dolori”, chiedere e ottenere dal genitore “la tua spada!” può tornare ai “bellici sentier” e a quel La maggiore con cui aveva chiesto a Maria Vergine “il dono d'una spada e d'un cimier”. Compiuta la sua missione si rende a un Mi bemolle maggiore sempre emblema della dimensione altra, sia visione mistica o delirio, ma con la quale non c'è più conflitto. [segue]


Il testo e la censura

Se l'opera sembra affermare la buona fede di Giovanna mantenendo l'ambiguità sulla natura delle “voci”, altri elementi religiosi restano determinanti nel testo, tant'è vero che l'edizione critica ha dovuto ripristinare più passi compromessi dalla censura. In particolare si tratta del recitativo che precede la cavatina “Sempre all'alba ed alla sera”, chiuso nella versione corrente con

E d'una spada, e d'un cimiero forse
a me fia grave il pondo?..
Tanto richiedo a te, Speme del mondo.

Mentre l'originale risulta molto più esplicito

E d'una spada, e d'un cimiero il pondo
Forse a me grave fia?
Tanto richiedo a te, vergin Maria.

Anche sulle labbra di Carlo le parole Iddio e Maria dovettero mutarsi in Cielo e la Pia, ed “Ecco mi prostro a te, madre di Dio” in “Ecco mi prostro, riverente e pio”, ma soprattutto fu l'associazione fra la Vergine e Giovanna a subire gli interventi degli occhiuti censori, sia nel primo coro degli spiriti eletti, il cui incipit dell'autografo “Sorgi, o diletta vergine, | Maria, Maria ti chiama” fu mutato in “Sorgi, i Celesti accolsero, | la generosa brama”, sia soprattutto nell'interrogatorio subito da parte del padre:

Testo originale

 

CARLO

(a Giovanna)

Ti discolpa!

CORO

Imbianca e tace!

CARLO

Le tue prove, o veglio audace?

GIACOMO

(prende per mano la figlia)

Dimmi, in nome della Francia,

pura e vergine sei tu?

(silenzio generale)

CORO

Né favella!... Il capo asconde!

CARLO

(a Giovanna)

Solo un detto e ognun ti crede

 

GIACOMO

Dimmi, in nome della fede,

 

pura e vergine, sei tu?

(silenzio come sopra)

CORO

(con raccapriccio)

Non risponde!... Non risponde!...

CARLO

(con passione)

Parla, parla, oh che mai fia?

 

GIACOMO

Dimmi, in nome di Maria,

 

pura e vergine se tu?

Testo censurato

 

CARLO

(a Giovanna)

Ti discolpa!

CORO

Imbianca e tace!

CARLO

Le tue prove, o veglio audace?

GIACOMO

(prende per mano la figlia)

Dimmi, in nome del dio vindice,

non sacrilega sei tu?

(silenzio generale)

CORO

Né favella!... Il capo asconde!

CARLO

(a Giovanna)

Parla, e tutti avrai credenti.

GIACOMO

Di', per l'alme dei parenti,

non sacrilega sei tu?

(silenzio come sopra)

CORO

(con raccapriccio)

Non risponde!... Non risponde!...

CARLO

(con passione)

Solo un detto!... (Oh cieco padre!)

GIACOMO

Di' per l'alma di tua madre

non sacrilega sei tu?...

Il valore, e la pericolosità, dei riferimenti alla Madonna si muovono sul doppio binario di una consacrazione religiosa, attraverso l'identificazione fra la vergine Maria e la vergine Giovanna, dell'azione politica, massime in questo caso di liberazione della patria da una dominazione straniera, e di un'accentuazione dell'aspetto sessuale – o, meglio, di negazione della sessualità – delle vicende della Pulzella. La quale, storicamente, subì almeno due ispezioni che ne certificassero lo stato di virgo intacta, una in sede di processo, ma la prima come condizione preliminare al suo incontro con il Re, a garanzia che non di strega, e in quanto tale avvezza ai più turpi consessi carnali, si trattasse, ma di una potenziale autentica veggente. Nell'ambiente superstizioso della corte di Carlo VII, pare appassionato di scienze occulte, e in un momento di crisi nella contesa con gli Inglesi non sembra poi così stravagante che si prestasse orecchio anche a profeti o sedicenti tali, ma anche che si prendessero tutte le precauzioni suggerite dalle credenze dell'epoca onde evitare impostori, o peggio.

Condizione principale su cui basare la propria credibilità e la propria autorità, viatico della propria affermazione, è naturale che il tema della verginità divenga centrale nella maggior parte delle trattazioni del mito di Giovanna, non senza un pizzico di morbosità che arrivò a teorizzazioni fantasiose come quella (basta sulla testimonianza di un mancato mestruo della Pulzella) che si trattasse in realtà di un uomo! Si tramanda, inoltre, di un tentativo di stupro ai suoi danni da parte dei carcerieri inglesi, e del fatto che indossasse abiti maschili (su indicazione delle “voci” prima che, durante la prigionia, le fossero sottratte le vesti femminili) anche per difendersi da aggressioni sessuali. In Schiller, la sua ascesa e la sua autoaffermazione ha inizio con il rifiuto del matrimonio impostole dal padre, la sua caduta e la sua crisi quando ai nuovi sentimenti di pietà verso i nemici uccisi si somma quello ignoto d'amore per l'inglese Lionel.

Nell'opera di Verdi e Solera, Giovanna si presenta animata solo da pensieri d'azione, la sua femminilità è totalmente negata, tant'è vero che nel primo duetto con Carlo irrompe irruente come una creatura angelica, asessuata (“vinto son io da palpito | sinora ignoto a me” canta il sovrano, ma più che amore terreno si tratta per ora di celeste ispirazione rispetto alla sua inanità bellica) che si rivolge al tenore chiamandolo “mortale”, quasi fosse posseduta e identificata con un messo celeste. Solo le “voci” che nel sonno hanno parlato alla sua anima tradiscono un conflitto inconscio e represso, quale emergerà poi nei due atti successivi. L'iperbole della lode “a Satàna” degli spiriti malvagi per un'ammissione di amore subito pudicamente ritrattata è davvero eclatante se rapportata a un'evoluzione del dramma in cui ogni elemento sembra proclamare l'innocenza di Giovanna e la cecità dell'errore intransigente di Giacomo e in cui pure la protagonista s'immerge volontaria in un'espiazione oggettivamente sproporzionata. Sproporzionata ai fatti ma non alla percezione che lei ne ha e che le voci “malvagie” dichiarano, evidente emanazione della sua psiche. [segue]


Giovanna e Renata

L'estasi mistica e l'estasi erotica come prossime e contigue, e di conseguenza in conflitto inconciliabile, si risolvono in Giovanna in una tormentata negazione della parte di sé che è identificata con il peccato, ma anche con la debolezza e le costrizioni della condizione femminile. Lo stesso conflitto fondamentale è alla base della psicologia della protagonista di un'opera apparentemente lontanissima da quella verdiana: L'angelo di fuoco di Prokof'ev. Qui la protagonista Renata tenta una conciliazione fra le sue pulsioni religiose e sensuali, là dove, con l'adolescenza, le è parso naturale desiderare di coronare l'apparizione di Madiel' e l'anelito a Dio e alla santità, anche attraverso pratiche autolesionistiche, con la forma più completa d'amore, di cui rifiuta caparbiamente di riconoscere alcunché di peccaminoso. Tuttavia rinnega qualsiasi forma d'amore fisico terreno, negandosi con ostinazione inflessibile a Ruprecht – che dopo il tentativo di violenza già al primo incontro, resta avvinto in questa forzata castità sadomasochista – ma concedendosi a Heinrick nel momento in cui riconosce in lui l'incarnazione di Madiel', tornato da lei. L'idea che l'amante non fosse che un comune mortale ben lieto di godere dei suoi favori ma, infine, insofferente di fronte alle sue ossessioni religiose non sembra sfiorarla finché, come Ermione con Oreste in Racine e Rossini, non comanda al devoto Ruprecht di vendicarla uccidendo l'amato e, subito dopo, se ne pente. L'omicidio è sventato, ma a rischio della vita del sicario innamorato e qualunque conciliazione amorosa fra i due, anche nel momento in cui Renata dichiara la sua disponibilità a una relazione terrena, è resa impossibile dalla dimensione soprannaturale: le “voci” subentrano a convincere l'uomo alla fuga, come se l'inconscio di Renata la difendesse dalla sua volontà, o come ennesima persecuzione demoniaca. L'atteggiamento di Prokof'ev pare essere di ironico e scientifico distacco, ma di fatto ciò amplifica l'ambiguità della situazione: Renata è una folle o una visionaria? Madiel' una creatura immaginaria, angelica o demoniaca? E il brulicare di oscure presenze che, dalla prima apparizione della donna, permea la scena è un'illusione? Che rapporto ha con Renata? Certo è che Prokof'ev caratterizza fortemente, in partitura, la dimensione parallela che con e attraverso Renata si manifesta. L'angosciante ostinato ritmico si presenta come una sorta di personaggio immateriale al pari della mimesis degli spiriti verdiani, con i quali condivide il carattere di ambiguo perno della partitura.

Parlare di legame consapevole o svincolare deliberatamente Verdi dal suo tempo sarebbe un azzardo controproducente, ma certo si può affermare che la Giovanna d'Arco, con le sue scelte ardite in un'emancipazione del brutto funzionale al dramma, arriva a costituire una delle più fini intuizioni psicologiche dell'autore di Macbeth e Otello, un esperimento suggestivo di opera impostata sulla focalizzazione interna, per di più di una mente decisamente borderline, con esiti paragonabili a lavori e riflessioni novecenteschi. [segue]


Dar voce alle Voci

L'opera di Verdi non era sconosciuta in terra russa, se, almeno Cajkovskij ebbe occasione di leggerne la partitura e di decretarla “mediocre”, salvo poi comporre per la sua Orleanskaja Deva un preludio tripartito il cui tema principale è un ranz de vaches affatto simile, per ispirazione e strumentazione, al pastorale verdiano e si contrappone a una sezione, questa volta centrale, tempestosa e battagliera. Non solo, diede anche voce concreta alle apparizioni angeliche che in Schiller sono solo citate. Fatto non di poco conto, ché anche nei libretti di Rossi e Barbieri per le opere di Vaccaj e Pacini sulla Pulzella le “voci” non sono chiamate a intervenire direttamente, relegate nei sogni e nell'ispirazione di un'eroina decisamente più secolare che spirituale, come appare – indirettamente – anche nel racconto presente nell'introduzione della Gemma di Vergy donizettiana:

CORO
Qua, Rolando, e narra a noi
l'alte imprese degli eroi:
de' francesi, e degl'inglesi
le battaglie, ed il valor.

ROLANDO
Vidi cose, che ridire
la mia lingua a voi non basta:
de' francesi fremon l'ire:
ma non brando, ma non asta
frena il torbido britanno,
d'ogni danno apportator.
Solo d'Orléans la donzella
argin pone al suo furor.

CORO
Qual prodigio! Una donzella
argin pone al suo furor?
Narra, narra, e di' com'ella
pervenisse a tanto onor!

ROLANDO
Ella è senno, è brando, è duce
per cittadi e per castella;
strage e morte all'anglo adduce:
è cometa che flagella
coll'infausto suo splendor.
Dei francesi ell'è la stella.
Scudo immenso, e difensor.

CORO
Viva d'Orléans la donzella,
nostra speme, e nostro amor.

Nella cantata rossiniana del 1832, l'ispirazione divina è ben presente, determinante, ma ancora una volta non si manifesta direttamente, bensì nel racconto e nella riflessione di Giovanna e – quel che forse più conta – ancora una volta senza il contraddittorio di un dubbio, di una tentazione.

[…]
L'Onnipossente dal gregge suscitò la pastorella.
[...] Ah! repente
qual luce balenò nell'oriente,
non è il sole che s'alza,
sei la mia vision, io ti conosco.
Più grande che non suole
empie il ciel fulminando e mi fa segno.
Angiol di morte, tu mi chiamo chiami, io vegno.
Ah, la fiamma che t'esce dal guardo
già m'ha tocca, m'investe, già m'arde.
[...]
Ah! vinse la vergine che in Dio sperò.
[...]

La lacerazione della Giovanna verdiana, che vede e sente fisicamente gli ammonimenti degli spiriti eletti e le seduzioni degli spiriti malvagi interagire in maniera costante, commentare, influenzare le sue scelte e i suoi comportamenti, non trova un equivalente nelle altre trattazioni musicali del soggetto, nemmeno nella Jeanne d'Arc au bucher di Honegger, nel quale il dubbio della Pulzella di fronte alla condanna per eresia, fugato dall'intervento di San Domenico, è di natura razionale e umana. Viceversa, Giovanna d'Arco, come la dipingono Verdi e Solera, si trova sempre sul crinale fra due realtà, con una percezione distorta, o ampliata del mondo sensibile che la porta a confrontarsi con una dimensione ignota a chi la circonda, quale che sia la sua natura. In questo, dunque, più che alle sue omonime omologhe, è più vicina alla novecentesca Renata di Prokof'ev, che come la Giovanna storica e operistica viene vista come santa o strega, folle o veggente. Entrambe sono figure carismatiche, in grado di esercitare una potente influenza, di arrogarsi attributi virili, o condizionando l'agire dello stesso sovrano e ponendosi a capo dell'esercito, o asservendo totalmente un avventuriero razionale e spregiudicato come Ruprecht. Nel caso di Renata, invece di appropriarsi di un ruolo sociale maschile e di un attributo chiaramente fallico come la spada, il travalicare i confini stabiliti per le donne del suo tempo consiste nel dedicarsi agli studi esoterici, nel non darsi alla stregoneria comune, ma nel cercare di dominare il mondo spirituale che la circonda impadronendosi della scienza magica superiore di Agrippa, di Faust, dei grandi filosofi neoplatonici rinascimentali. La sua pericolosa irregolarità, qual è quella di Giovanna guerriera e capace di tener testa agli interrogatori dei teologi, è nella ricerca del potere della conoscenza, lo stesso che nella Grecia classica fa guardare con sospetto alla sapiente Medea, donna forte trapiantata in un contesto di sottomissione femminile.

L'eccezionalità della loro condizione, della loro indipendenza si esprime, trova sfogo nervoso anche nella lacerazione visionaria della psiche, nell'esternare il conflitto proiettando lo spirito in una dimensione sensibile, o nel possedere e saper vedere ciò che agli altri è precluso. Per entrambe lo stress formidabile trova un'unica soluzione: consegnarsi alla regola, alla disciplina e al potere religioso. Giovanna non ribatte alle accuse del padre, sentendosi colpevole di aver nutrito per “un solo istante” un sentimento proibitole dalle voci angeliche, e si consegna volontariamente al rogo purificatore; Renata si ritira in un convento. Tuttavia, se nel primo caso la discesa metaforica agli inferi del carcere le consentirà di liberarsi da dubbi e rimorsi, di essere infine creduta dal padre, di compiere la sua missione e morire serenamente, nell'opera di Prokof'ev la clausura è solo causa di ulteriori tormenti, le visioni non si placano e le traversie di Renata sono brutalmente troncate, al culmine di un'orgia parossistica, dalla condanna al rogo da parte dell'Inquisitore. [segue]


Gli spiriti di Bly

Un'altra donna si trova a vivere tragicamente sospesa fra due dimensioni, a contatto con un soprannaturale sulla cui origine ed effettiva consistenza continueremo a interrogarci. La religione non entra nelle sue vicende, non attraversa la superstiziosa Francia medievale battuta dalla guerra dei Cent'anni, né la Germania rinascimentale degli alchimisti, bensì nell'idillio apparente della tenuta di Bly, nell'Inghilterra vittoriana. L'Istitutrice narrata da Henry James e messa in musica da Benjamin Britten in The turn of the screw ha abdicato a tal punto alla sua individualità e alla sua sessualità da essere priva di un nome che non sia semplicemente quello del suo ruolo sociale, della posizione conquistata con l'istruzione. È una donna giovane, sola e anonima, che, per un'inconfessata ma evidente attrazione nei confronti del misterioso, fascinoso e assente tutore dei piccoli Miles e Flora, pone al centro della sua vita una missione, cui si vota con la stessa dedizione di Giovanna alla causa di Carlo VII: l'educazione e la difesa dei due ragazzi. Una missione totalizzante, sublimazione di una maternità virginale, che diviene ossessione, culminante con un estenuante confronto che sarà fatale al piccolo Miles.

Nella novella, l'ambiguità è data dal non detto, ma soprattutto dalla focalizzazione del racconto, desunto dalla testimonianza in prima persona dell'Istitutrice, la quale è l'unica a percepire la presenza degli spettri di Peter Quint e Miss Jessel, l'unica a intuire le allusioni nelle parole e nei comportamenti dei ragazzi. L'unica perché ha la sensibilità per vedere oltre o perché la dimensione soprannaturale altro non è che un'emanazione della sua mente? Certo, nell'opera gli spiriti hanno corpo e voce, almeno Miles sembra interagire con Quint, se non altro quando sottrae la lettera destinata al tutore. Tuttavia, non hanno forse un'altrettanto precisa caratterizzazione musicale, non cantano chiare parole anche le ammonizioni e le tentazioni di Giovanna, anche i tormenti di Renata (che, pure, arrivano a farsi intendere da Ruprecht)? L'Istitutrice vede quel che vuole negare: tutto ciò che è connesso alla sessualità e al peccato, tutto ciò che contraddice l'ideale e idealizzata innocenza dei fanciulli. Vuole affermare il suo mondo perfetto, l'idillio di Bly come si presenta al suo arrivo, e perciò lo vede corroso dall'imperfezione fino alla catastrofe.

Bly è un paradiso perduto al pari della foresta in cui Giovanna trova pace, nonostante la sua fama sinistra, o dell'infanzia in cui Madiel' visitava Renata. Ciascuno è corrotto dai sensi: dalla percezione delle perversione identificata in Quint e Jessel, dal contatto con un mondo pieno di tentazioni, come quella dell'amore del Re, dal desiderio della completezza carnale nell'unione con l'angelo.

"Peter Quint, You Devil!" sono le ultime parole di Miles, prima di crollare esanime, stremato dalla lotta dell'Istitutrice contro i (suoi?) fantasmi. Tu sei il demonio: la stessa accusa scagliata dalle monache contro l'Inquisitore nell'Angelo di fuoco. L'ottocentesca Giovanna mette a tacere le tentazioni sensuali che la tormentano rifiutandole, il prezzo per conciliarsi con l'autorità paterna affermando la sua volontà autonoma d'azione è identificare l'amore terreno, in ogni sua forma, con il demonio, alienare desideri e pulsioni in un'entità esterna e cacciarla negli inferi, abbracciando definitivamente la morale imposta dal padre. Per l'Istitutrice e Renata il problema rimane aperto. Soccombono, ma continuano a combattere fino alla fine, e la fine è ambigua, aperta, non scioglie il dubbio su chi sia il vero demone. Resta la certezza che la pace cercata da Giovanna nella conciliazione del suo spirito con i confini morali e sociali imposti da religione e famiglia sia solo illusoria e che le voci torneranno a parlare alle sue sorelle.