Verri: il dolore, l'arte, il piacere

 di Giada Maria Zanzi

Pietro Verri (Milano, 12 dicembre 1728 - Milano, 28 giugno 1797)

Il Discorso sull'indole del piacere e del dolore

Il piacere e il dolore morale

I dolori innominati e il piacere della musica

Bibliografia

Pietro Verri (Milano, 12 dicembre 1728 – Milano, 28 giugno 1797)

Filosofo, storico, letterato nonché economista, figlio dell’illustre Gabriele Verri e di Barbara Dati della Somaglia. Studiò presso i gesuiti a Monza, Milano e Parma, i barnabiti a Milano, gli scolopi a Roma. Nobiluomo illuminista di grande cultura, si impegnò però anche socialmente e politicamente. Nel 1750 divenne membro dell’Accademia dei Trasformati di Milano (che nacque nel 1743 sulle fondamenta dell’omonimo istituto cinquecentesco); dal 1759 al 1760 fu ufficiale austriaco e partecipò anche alla Guerra dei Sette Anni, che si svolse tra il 1756 e il 1763 coinvolgendo le principali potenze europee dell’epoca, fra cui, appunto, l’Austria. Nel 1761 fondò a Milano, insieme a, fra gli altri, Cesare Beccaria (che fu stimolato dallo stesso Verri a scrivere Dei delitti e delle pene), l’Accademia dei Pugni, iniziale nucleo redazionale di Il Caffè. Successivamente si dedicò allo studio della struttura economica dello stato lombardo, lavorando per ottenere la riforma del sistema delle ferme, cioè degli appalti delle imposte indirette: divenuto consigliere dell’apposita giunta di riforma nel 1764, ottenne che gli appalti passassero all’amministrazione diretta del governo. Nel corso della sua vita occupò numerosi uffici pubblici: fu vicepresidente prima e presidente poi del Magistrato camerale, consigliere intimo di stato e membro della municipalità repubblicana. Diede una tiepida adesione alla Rivoluzione francese; distaccatosi dall’assolutismo illuminato, fu sostenitore di un regime costituzionale. Fu un grande pensatore e attivo scrittore, fra le sue opere ricordiamo le Memorie storiche sull’economia pubblica dello stato di Milano, le Riflessioni sulle leggi vincolanti, le Meditazioni sulla economia politica, le Osservazioni sulla tortura e la Storia di Milano; particolarmente interessante per gli studi musicologici e le indagini in campo estetico è il Discorso sull’indole del piacere e del dolore.

Il Discorso sull’indole del piacere e del dolore

Pubblicato per la prima volta a Livorno nel 1773 (e ampliato dallo stesso Verri nell’edizione milanese del 1781), il Discorso sull’indole del piacere e del dolore è un significativo contributo a un dibattito, che non ha confini temporali o geografici, da parte di un nostro connazionale. Cos’è il dolore? E il piacere? Prendendo a modello di ricerca empirica l’Encyclopédie, raccolta di interventi di vari intellettuali sotto la direzione di Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Verri cerca di dare una risposta, che non sarà tuttavia universale bensì subordinata alla soggettività umana che è al centro della questione, a tali quesiti. Questi interrogativi sono connessi alla sfera sensoriale del dolore e del piacere fisici, che trova la sua sublimazione nella sensibilità dell’anima, sollecitata non tanto dalla materialità quanto da ciò che è in essa contenuto, il potenziale artistico che il reale veicola e racchiude. Dunque, da un lato vi sono il dolore e il piacere del corpo, dall’altro le sensazioni dello spirito, di cui l’arte è un’immagine. L’interiorità umana emerge attraverso le arti, originando artisti e fruitori. Per far valere la propria unicità, di esecutore/realizzatore oppure di spettatore, il soggetto è costretto a estrinsecarsi uscendo dall’oblio in cui il Razionalismo del XVII lo aveva relegato e non solo giudicare cosa è fisicamente spiacevole o gradevole, ma soprattutto cosa è o non è arte. Cosa è bello e perché? Per quale motivo quel quadro mi piace e quella scultura invece no, mentre ad altri si? Cosa ispira un artista? In tale senso, Verri rivendica l’importanza della passione, della propria opinione, a fianco della razionalità cartesiana imperante nel secolo precedente, il cui rigore è perdurante nel XVIII secolo: l’eredità seicentesca della necessità di un principio unificatore porta gli illuministi a rifugiarsi nel concetto aristotelico di “bella natura”, riscoprendolo in qualità di canone universale per le arti. Il sistema delle belle arti (formalizzato nel Settecento e delineato da Charles Batteux nel 1746 nella sua opera intitolata Le belle arti ridotte a un unico principio, nella quale individua la musica, la danza, la pittura, la scultura, la poesia come arti proprie, cui aggiunge l’eloquenza e l’architettura) si fonda sull’imitazione della bella natura: il vero genio artistico riesce a cogliere la bellezza intrinseca della realtà fenomenica e a riprodurla attraverso l’arte visiva, scrittoria o sonora, palesandola così al pubblico. La ricerca del bello coincide con il tentativo dell’individuo di votare la propria vita al raggiungimento della felicità, del piacere. Compito assai arduo poiché risulta difficile trovare precetti validi e costantemente attuabili che ci aiutino a orientarci a un “bello supremo”, a raggiungere il vero piacere, la pura felicità. Ciò che è brutto dà infelicità, non è virtuoso, non è, in altre parole, piacevole poiché non contribuisce a portare equilibrio e ad accordare il nostro spirito sensibile e passionale all’animo razionale acquietando la scissione che gli affetti generano irrimediabilmente nell’uomo. È come se la passione e la ragione fossero dotate di voci che riecheggiano nei cuori di chi entra in contatto con un’opera d’arte, e talvolta comunicano pareri differenti al soggetto, che si ritrova a dover fronteggiare un dilemma amletico: essere razionale o non essere razionale, quindi ascoltare gli affetti? Accettare il giudizio limitato e limitante di un gusto velleitariamente universale, storicamente formalizzatosi sulle basi di mere statistiche estetiche, oppure seguire ciò che mi dice l’eterno rivale del “logos”? Batteux ricorda che l’arte, in quanto imitazione, non è reale, pertanto il brutto artistico non turba quanto l’oggetto dell’opera: ergo, può verificarsi che una melodia stridente non solo non ci infastidisca a fondo, ma addirittura ci piaccia! Batteux contempla persino il gusto dell’orrido, fornendo un’ulteriore riprova dell’individualità delle percezioni e dell’impossibilità di determinare un criterio di giudizio universalmente condivisibile. L’Età dei Lumi vede la soggettività sfidare la pretesa di una forzata oggettività a singolar tenzone e Verri riassume il proprio pensiero in questi termini:

La sensibilità dell’uomo, il grande arcano al quale è stata ridotta come a generale principio ogni azione della fisica sopra di noi, si divide e scompone in due elementi, e sono amor del piacere e fuga del dolore: tale almeno è la comune opinione degli uomini pensatori e maestri. Ognuno conosce e sente quanta influenza abbiano il piacere e il dolore nel determinare le azioni umane; la speranza, il desiderio, il bisogno del primo; il timore, lo spavento, l’orrore del secondo, danno il moto a tutte le nostre passioni. Tutti gli amatori delle belle arti sanno che il loro scopo parimente è il piacere col quale allettano altrui a ben accogliere e l’utile e il vero. […] Ogni uomo ha un’idea esatta del dolore e del piacere, e ogni uomo è giudice competente di quello che eccita in lui la sensazione che gli è aggradevole o disgustosa; ma non così ogni uomo ha la ostinata curiosità di scomporre gli elementi che formano le proprie sensazioni e rintracciare quale sia la proprietà comune a tante e sì variate sensazioni che sono piacevoli, e a tante e sì variate che sono dolorose. Questo è quello che penso io di fare; e se per ventura potrò ritrovare questa proprietà, che sempre ha seco il piacere, e senza di cui non si può questo sentire, dirò d’aver mostrata la definizione di esso, e di averne spolpata l’idea, e ridotta alla nuda precisione.

L’esistenza è ricerca del piacere e fuga dalla sofferenza: felicità e dolore si configurano come elementi propulsivi, estremamente personali e soggettivi, che vivificano l’essere umano, dando uno senso alla sua vita e lo scopo delle belle arti, dice Verri, deve essere il divertimento (ma essere devono altresì perseguire l’utilità, essere, per così dire, coinvolgenti, e la verità, rendendole accessibili e più facilmente accettabili). L’autore ritiene comunque insufficiente asserire che una cosa sia bella perché il nostro gusto ce lo impone e desidera comunque inseguire un elemento ideale che possa essere comune a ogni esperienza piacevole. Tale bisogno evidenzia l’eco aristotelico e cartesiano nell’opera di Verri, o forse semplicemente la sua umanità di essere finito che deve ridurre a principi dai confini ben definiti anche l’impalpabile. Oppure ancora, è probabile che il Verri non voglia sostituire la tirannia della ragione seicentesca con un impero di sola passione: in effetti, l’Età dei Lumi persegue l’equilibrio, non l’assolutismo, l’accordo degli opposti, non l’esclusione di uno o più elementi. Proseguendo nella lettura, incontriamo le definizioni di piacere e dolore fisici secondo l’autore:

Il dolore che nasce da una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro si chiama un dolor fisico; una forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando per lo contrario si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; così, dopo un disastroso viaggio d’inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria e affannosa caccia una mensa delicata, sono piaceri fisici: dolori e piaceri cagionati da un’immediata azione sulla nostra macchina.

Ciò che danneggia il nostro corpo e ciò che invece lo risana sono rispettivamente il dolore fisico e il ritorno a uno stadio di piacevolezza. Le sensazioni fisiche sono comuni a chiunque mentre

ai piaceri e dolori morali tanto più l’uomo è sensibile, quanto è più dirozzato dall’educazione, cioé quanto è maggiore la folla delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle intere nazioni della diversità su tal proposito; i popoli più inciviliti sono più sensibili alla gloria e al disprezzo; i popoli ancora più rozzi lo sono alle percosse e alla mercede. I piaceri e i dolori morali sono tanto maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni e delle relazioni che un uomo sente d’avere cogli altri.

Il piacere e il dolore morali

Il piacere e il dolore morali sono frutto di una presa di coscienza raggiungibile attraverso l’erudizione e sono strettamente connessi alla socialità.

Per conoscere questa verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento in cui mi si annunzia la morte di un mio dolcissimo amico, io potessi essere certo che dopo brevi istanti la di lui memoria non esisterà più nel mio animo, né più mi risovverrò di averlo conosciuto; se avessi, dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe semplicemente la compassione del male altrui; sentimento il quale preso isolato fors’anco non consiste che nel fremito di alcune parti unisone della nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione e lo squallore ov’io piombo, si è che in quel momento prevedo quante volte avrò davanti agli occhi l’immagine della perdita fatta; sento in quel momento la trista solitudine che mi si apre davanti, e il paragone che ne farò col bene avuto: nelle mie afflizioni non avrò più un fedele compagno, a cui senza timore manifestarmi, e riceverne consiglio e assistenza; negli avvenimenti felici non vedrò più quella gioia dell’amicizia che moltiplica la felicità, comunicandola. Dove trovare chi s’interessi meco ne’ deliri della mia immaginazione, e che per uniformità di genio avendo meco comune la curiosità di scoprire il vero mi accompagni? Dove troverò più un essere tanto grato, tanto sensibile, che mi consolava a ogni atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà, attivo, discreto, nobile? Così mi vado col pensiero spegnendo sulla serie delle dolorose sensazioni che mi aspettano, e su quel primo momento contemporaneamente pesando tutti i momenti del dolor preveduto, resto immerso nella più crudele amarezza. Questo dolor morale nasce dalla riunione de’ fantasmi che occupano la mia mente, onde la parte più nobile di me stesso appoggiando sul passato, e sull’avvenire più che sul momento attuale, e paragonando i due modi di esistere, tutta inviluppata nel timore dei mali preveduti s’immerge in un dolore morale. Mi ripongo in una opposta situazione. Mi figuro che mi venga l’annunzio d’una luminosa carica ottenuta. Se io potessi dimenticarmi del passato, se io non mi slanciassi nell’avvenire, la novella recatami riuscirebbe insipida, e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole. Ma si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l’orgoglio, la fredda indifferenza, che hanno mostrato per me alcuni uomini insolenti per la loro carica sin tanto che restai disarmato e senza potere, mi spingo nell’avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava nell’impossibilità di acquistarmi l’opinione pubblica, eccomi il campo aperto per guadagnarmela; ho in faccia degli amici che potrò coi benefici rendere agiati, e sempre più ben affetti; gli emuli, o riconciliati o ridotti all’impotenza di nuocere; tutto questo ridente spettacolo mi si spalanca allo sguardo; tutte le sensazioni, alle quali vado incontro, già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la consolazione invadono tutta la mia sensibilità; sono immerso in un voluttuosissimo piacer morale, perché, poco o nulla pesando sul momento presente, tutto mi appoggio sul passato e sull’avvenire. Questi due esempi generalmente convengono a tutti i dolori morali, a tutti i piaceri morali. Essi non si risentono se non in quel momento, in cui l’animo dimentico quasi del presente si risovviene e prevede; e a misura che o teme, o spera, sente o dolore, o piacere. Se questo è vero, ne scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli o dolorose, dipendono da tre soli principi azione immediata sugli organi, speranza e timore. Il primo principio cagiona tutte le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazioni morali. Scelgasi un piacere morale ancora più nobile e puro; figuriamoci un geometra nel momento in cui per un fortunato accozzamento di idee ha carpito lo scioglimento d’un problema arduissimo e importantissimo. Qual sarebbe la gioia di quel geometra, se egli vivesse in un’isola disabitata, sicuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta?

Che senso hanno il piacere e l’esistenza se non li si può condividere con qualcuno? Oltre all’empatia, entra in gioco la tematica della solitudine, che, insieme alla noia, è la principale nemica dei pensatori illuminati. Alla base dei piaceri morali vi è la speranza, che è

probabilità di esistere meglio di quello che ora esisto. Dunque speranza suppone mancanza sentita d’un bene. Dunque suppone un male attuale, un difetto alla nostra felicità. Dunque non posso avere un piacere morale se non supponendomi previamente un male; ché tale debb’essere un difetto, una mancanza sentita alla mia felicità.

Insomma, non vi può essere gioia senza dolore, e viceversa. Per avvicinarci alla conoscenza della vera felicità dobbiamo sperimentare il suo contrario, cioè la sofferenza. Verri afferma che il piacere morale è “una rapida cessazione del dolore”. Per provare nuovamente piacere non si deve interrompere il circolo, che è al contempo virtuoso e vizioso, di dolore-gioia. A questo eterno ciclo partecipa attivamente anche l’arte: le belle arti concorrono a donare l’illusione di una “fragile felicità”, devono dilettare, distrarre momentaneamente l’uomo dal dolore, ma non quello morale.

I dolori innominati e il potere della musica

Verri afferma che

La musica, la pittura, la poesia, tutte le belle arti hanno per base i dolori innominati; in guisa tale che, se io non erro, se gli uomini fossero perfettamente sani e allegri, non sarebbero mai nate le belle arti. Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati della vita. Esaminiamo infatti l’uomo nel momento in cui è veramente allegro, contento e vivace, e lo troveremo insensibile alla musica, alla pittura, alla poesia e a ogni bell’arte, a meno che la precedente abituazione meccanicamente non lo porti a riflettervi, ovvero la vanità di mostrarsi sensibile non lo renda ipocrita in quel momento. L’uomo vigoroso che ha la contentezza nel cuore, è nel punto il più remoto dalla sensibilità; questa s’accresce col sentimento della nostra debolezza, dei nostri bisogni, dei nostri timori.

Una sorta di male di vivere sembra aver spinto l’uomo a industriarsi per sfuggirvi. Sembra che le arti siano l’unica possibilità dell’uomo di tacitare questo malessere quando insorge, poiché quando siamo felici siamo come isolati e le percezioni sensoriali quasi annullate. Ricorriamo alle arti quando ne abbiamo bisogno: la fragilità umana indossa la maschera dell’arte e la musica appare come la regina delle belle arti.

Un uomo che abbia della tristezza, s’egli avrà l’orecchio sensibile all’armonia, gusterà con delizia la melodia d’un bel concerto, s’intenerirà, si sentirà un dolce tumulto di affetti, godrà un piacer fisico reale, cioè sarà rapidamente cessato in lui quel dolore innominato, da cui nasceva la tristezza, coll’esser l’animo assorto nella musica, e sottratto dalle tristi e confuse sensazioni di dolori vagamente sentiti e non conosciuti. Anzi, per uscire dalla tristezza che lo perseguita, l’uomo per sé medesimo si aiuta e cerca di abbellire e di animare coll’opera della fantasia l’effetto delle belle arti, e per poco che abbia l’anima capace d’entusiasmo come nella casuale posizione delle nubi ei ravviserà l’espressione di figure in vario atteggiamento, così nelle variazioni musicali s’immaginerà molti affetti, molti oggetti e molte posizioni, alle quali il compositore medesimo non avrà pensato giammai. La musica singolarmente è un’arte, nella quale il compositore dà l’occasione a chi l’ascolta di associarsi al suo travaglio per ottenere l’effetto della illusione. Una bella pittura, una sublime poesia, faranno qualche senso anche in chi non ne abbia gusto o passione; ma una bella musica resterà sempre un rumore insignificante per chi non abbia orecchio a ciò fatto e positivo entusiasmo per la ragione già detta che la musica lascia fare la più gran parte alla immaginazione di chi l’ascolta. Perciò la medesima musica piacerà a diverse persone, nel tempo medesimo in cui le sensazioni di esse saranno diversissime; uno la troverà sommamente semplice e innocente, l’altro tenera e appassionata; il terzo la troverà armoniosa e ripiena, e così dicendo. Le quali diversità non accadranno sì facilmente nel giudicare della pittura, né della poesia; perché, come dissi, in queste l’artista è attivo, e l’ascoltatore purché abbia una squisita sensibilità, è quasi puramente passivo; laddove nella musica l’ascoltatore deve coagire sopra sé stesso e dalle diverse disposizioni del di lui animo accade che ora in un modo ora nell’altro agisca, e sieno così diverse le sensazioni prodotte dal medesimo oggetto occasionale.

Prima di Verri, Batteux individua nella musica e nella danza, a suo avviso inscindibili, le forme artistiche più coinvolgenti in quanto trasmettono emozioni più forti rispetto alla pittura, alla poesia, all’architettura e alla retorica. La musica incanta. L’universo sonoro rapisce e conduce in un altro mondo, stimola l’immaginazione e la creatività di chi compone, di chi suona e di chi ascolta. L’uomo può plasmare le sue emozioni a ritmo di musica; ecco l’immenso potere della sfera musicale: rendere ogni individuo un artista delle sonorità, anche solo per pochi istanti. In conclusione, possiamo affermare che Verri individui nella fuggevolezza del bello e del piacere il principio che accomuna la percezione della piacevolezza da parte di ognuno che si riproponeva di trovare: abbiamo bisogno della bellezza e di essere felici per dimenticare la tristezza, ma allo stesso tempo non possiamo prescindere dal dolore, senza il quale non esisterebbe il piacere. Non tutti possiamo avere gli stessi gusti, però quel solitario impulso di piacere, anche se suscitato da eventi che variano da persona a persona, che episodicamente e periodicamente ci attraversa è sempre cagionato dal rincorrersi di gioia e dolori, che ci permettono di conoscerci sempre più a fondo. Più intensa è la sofferenza, maggiore sarà la felicità. Accrescere le nostre esperienze di vita, amando, perdendo, ritrovando, temendo, imparando dal passato, certamente ci renderà infelici, anzi, ANCHE infelici, poiché, come ricorda Verri, penando ci avviciniamo sempre più a una gioia sublime.

 

Bibliografia

Contarini, Silvia (a cura di), Pietro Verri.Discorso sull’indole del piacere e del dolore, Roma, Carocci, 2001.

Fubini, Enrico, Estetica della musica, Bologna, Il Mulino, 1995.