L'ultimo applauso

Il 20 agosto 2016 Daniela Dessì ci ha lasciati. La notizia, diffusasi a macchia d'olio nella notte fra sabato e domenica è esplosa nell'incredulità generale. Anche a distanza di una settimana è difficile abituarsi all'idea di dover parlare di lei al passato.

L'Ape musicale le dedica un doveroso omaggio. 

Ricordo di Daniela Dessì: Marta Mari

Ricordo di Daniela Dessì: Mihaela Marcu

Il momento dell'addio

di Roberta Pedrotti

BRESCIA 23 agosto 2016 - La cattedrale di Brescia è sobria e disadorna: il gonfalone della Leonessa d'Italia e quello di Viareggio (a testimoniare, grato, la straordinaria militanza pucciniana), alcuni omaggi floreali, le candele accese nel presbiterio, niente di più, in un cordoglio composto e dignitoso. Intorno il dolore e l'affetto di familiari, colleghi, amici, ammiratori.

Ma in questo addio c'è qualcosa di sbagliato, profondamente sbagliato e ce lo diciamo in silenzio, con le lacrime, gli sguardi, gli abbracci: non doveva essere oggi. Non avremmo dovuto trovarci lì, per Daniela Dessì, il 23 agosto del 2016, non così presto.

Fa caldo, là fuori, il cielo è limpido, il sole arroventa l'aria; già due ore prima della cerimonia in Duomo qualcuno prega, pian piano i banchi e le sedie aggiunte si riempiono, alla fine qualcuno rimarrà in piedi.

Siamo in tanti, e percepiamo il calore di chi, costretto alla distanza fisica, è sinceramente vicino con il cuore. Fare nomi potrebbe esser superfluo, indelicato verso chi non viene citato, ma non può non stringersi il cuore nel vedere l'ottantaseienne Pierluigi Pizzi varcare tutto solo la soglia e prender posto, commosso, per dare l'ultimo addio alla sua Duchessa Elena. È impossibile non percepire la profondità del dolore di un attonito Alfonso Antoniozzi, di Francesco Meli e Serena Gamberoni, quasi senza fiato, di un pallidissimo Michele Pertusi, e di Marco Tutino, in Duomo già due ore prima della cerimonia, e Leo Nucci, Cecilia Gasdia, Luciana D'Intino, agenti, direttori artistici, una nutrita rappresentanza del Club dei 27 di Parma, melomani, amici. C'è, sconvolto, Francesco Renga, c'è il sindaco di Brescia Emilio Del Bono con l'assessore alla cultura Laura Castelletti.

C'è, soprattutto, un pensiero incredulo che sembra rimbalzare condiviso da tutti: non potremo più ascoltarla cantare, non potrà più insegnare, non le potremo più parlare, non potrà più ridere, amare, non c'è più. E non era il suo momento, non può essere successo così, all'improvviso, dopo una malattia rapidissima e devastante, nota solo a pochissimi intimi.

Gli affetti più profondi e privati si manifestano nella musica: da tempo, ormai, Daniela svolgeva volontariato presso la comunità di recupero Shalom, con lezioni di musica e canto, preparando il coro dei ragazzi che ha aperto e chiuso la cerimonia con Amazing Grace e Nessuno ti ama come me, canto religioso moderno nel quale spiccava come solista il figlio Jacopo, bella voce e ben educata, nonostante l'emozione, tanto che per un istante è balenato il dubbio che non fosse in realtà proprio Renga ad aver preso posto accanto all'organo. A dirigere il coro c'è il padre di Jacopo, Giuseppe Sabbatini, che si prodiga con forza incredibile nell'organizzazione e nel sostegno al figlio e a Fabio Armiliato, compagno inseparabile di Daniela da sedici anni. Tutto l'amore che lei ha saputo ispirare si legge nei volti e nella solidarietà dei “suoi” tre uomini. E, davvero, ci si chiede quale ispirazione sovrumana, se non il desiderio di dedicare l'ultimo canto per la donna adorata e a lui sempre unita nella musica, possa aver permesso a Fabio di intonare Panis Angelicus durante l'Eucarestia. Marta Mari, giovanissima allieva di Daniela, canta con lui e gli stringe la mano, in un reciproco gesto di conforto. La sua voce sopranile, poco prima, aveva levato la preghiera dell'Ave Maria composta, con qualche reminescenza dall'Aida, proprio da Armiliato, e già cantata dalla stessa Daniela.

Non ci sono parole per quanto è avvenuto, ma Fabio Armiliato ha saputo ugualmente raccoglierle nel più bel saluto che un uomo innamorato potesse esprimere, fra tenerezza, nostalgia, ammirazione. “Ciao, amore mio”, già queste sue prime parole stringono il cuore e la gola, si imprimono, fra le lacrime e i singhiozzi nella memoria di questo giorno, sintetizzando tutto il dolore e l'amore che Daniela Dessì ha ispirato, fra chi era più vicino, fra chi, in un modo o nell'altro, ha avuto modo di incrociarla, fra chi non la conosceva che dalla sua voce.

A quella voce che non c'è più si tributa l'ultimo applauso, ma, no, non doveva essere qui, non doveva essere così, non doveva essere ora. Ora, nel 2016 avremmo dovuto applaudire Daniela Dessì solo sulle scene, avremmo dovuto solo congratularci con lei dopo aver applaudito i suoi allievi.

 In sua memoria è costituita una Fondazione a scopo benefico, per la lotta ai tumori. Chi volesse contribuire può scrivere all'indirizzo fondazioneprevenzione@danieladessi.com


La Musica, prima di tutto

 di Roberta Pedrotti

Fa uno strano effetto l'idea di storicizzare un'artista che ci è stata strappata in maniera così repentina, a pochi mesi dalle sue ultime recite, quando ancora l'aspettavamo, tra l'altro, come Elisabetta di Valois nella prossima stagione al Carlo Felice di Genova. Eppure, a ben pensarci, il suo posto nella storia Daniela Dessì se l'era già assicurato da tempo, con un debutto precocissimo che le ha concesso quattro decenni di straordinaria carriera.

In questo arco di tempo ha cantato dall'Incoronazione di Poppea ad Andrea Chénier, da Gilda a Turandot: ha cantato tutto, ma non “di tutto”, la sua musicalità la metteva al riparo da ogni rischio d'eclettismo sconsiderato. Al contrario, qualunque repertorio affrontasse lo faceva sempre con classe, risultando sempre "giusta" ed elegante, anche quando è apparsa al Festival di Sanremo al fianco dell'amico Francesco Renga, anche quando ha prestato un suo vocalizzo per accompagnare il programma olimpico della ginnasta Vanessa Ferrari (la si è potuta ascoltare anche nei Giochi di Rio de Janeiro), anche quando ha onorato l'amicizia con Paolo Limiti tenendo a battesimo La zingara guerriera, “melodramma in due atti” su libretto dello stesso Limiti con musica di Luigi Nicolini.

Era curiosa, generosa, ma prima di tutto una musicista serissima e preparata e questo traspariva in ogni sua interpretazione. Ascoltandola con attenzione, parlando con lei, ripercorrendo le sue prove nei ruoli più diversi è chiaro che il suo essere primadonna autentica riposava, certo, in un carisma innato, ma anche e soprattutto nella forza di una musicalità formidabile, di uno studio scrupolosissimo del testo, in un'attenzione estrema al dosaggio dei propri mezzi.

Non si potrà mai dire che la Dessì non abbia ponderato un debutto, anche quando si è trattato dell'approccio complesso con Turandot, perché l'ampiezza del suo sguardo musicale non è mai confuso con collezionismo onnivoro, né si è tradotto in un percorso lineare a senso unico. Non è, cioè, semplicemente passata dal repertorio lirico leggero a quello drammatico con il procedere dell'età.

Vi sono vocalità – come quelle di Alfredo Kraus o Luciana Serra – che si mantengono fino a fine carriera nel medesimo alveo, altre – come quelle di Anna Netrebko o Mirella Freni – che con il tempo si dirigono verso diversi repertori, altre ancora che nel giro di pochi anni esplorano i campi più disparati. Nel caso di Daniela Dessì ogni esperienza musicale rappresentava un tesoro che andava ad arricchire le altre: il belcanto era il gusto e la disciplina che le hanno permesso di essere una Tosca, una Maddalena e una Minnie di portata storica; viceversa, la frequentazione di Puccini e del Verismo ha conferito nuova energia alla sua Norma, eclatante ritorno, cinquantenne, al Belcanto dei primi anni.

Certo, nel 2008 l'elasticità vocale non era più quella dei vent'anni, ma la capacità di coniugare la pienezza e la morbidezza del suo mezzo vocale con il linguaggio della coloratura è stata la miglior lezione che Fiordiligi, Amira (Ciro in Babilonia) e Matilde (Elisabetta regina d'Inghilterra) potessero impartire a Norma. Da parte loro, Tosca e Maddalena hanno imposto un'attenzione superiore alla teatralità della parola, alla declamazione cantata, tornendo le consonanti come le vocali. Giovandosi nel gusto, nella tecnica, nella forma mentis le une delle altre, hanno fatto sì che la Dessì, con moderna sapienza, rievocasse l'arte tragica delle interpreti storiche e, al suo debutto bolognese, scatenasse un applauso a scena aperta più unico che raro per il monologo del secondo atto “Dormono entrambi”. Questo può essere uno dei traguardi più significativi dell'arte della Dessì, anche se le interpretazioni eccellenti sono state tante e così varie che proporne una selezione potrebbe costringere a imbarazzanti esclusioni.

Potremmo dimenticare il suo Cimarosa o il suo Pergolesi? La sua Fiordiligi e la sua Donna Elvira? Perfino la sua Berta, nel Barbiere, ha lasciato il segno e per chi conosca la rarissima Alina regina di Golconda di Donizetti l'incarnazione che ne offrì la trentenne Dessì non può non imprimersi nella memoria per il controllo vocale, l'autorevolezza dell'accento, la capacità di coniugare leggerezza e dramma di un soggetto semiserio avventuroso quanto balzano.

E potremmo trascurare la sua intelligenza nell'approccio a Verdi? Il carattere fanciullesco e sensuale della sua singolarissima, splendida Gilda, la femminilità della sua Aida, il fraseggio inconfondibile, porto con nobile eleganza e pure così insinuante e malioso? Lo stesso che l'ha resa maestra nel canto di conversazione pucciniano, nell'afflato melodico emozionante e mai melenso, nella declamazione incisiva e mai esteriore del Verismo. Ciascun autore aveva la sua peculiarità stilistica, la sua unicità artistica e, parimenti, l'interprete rimaneva sempre personale, sempre forte delle stesse solide basi di sensibilità, intelligenza, rigore. Anche per questo non abbiamo solo perso una cantante-attrice, abbiamo perso un modello, un'insegnante, un punto di riferimento.


 

"Ciao, amore mio"

Con queste parole, Fabio Armiliato ha porto l'ultimo, commuovente saluto a Daniela Dessì. Ne proponiamo una trascrizione il più possibile fedele per testimoniare lo splendido, estremo gesto d'amore condiviso con chi si è stretto affettuosamente al suo dolore.

Ciao, amore mio. Qualcuno ha detto che noi ci parlavamo con gli occhi. Gli occhi sono lo specchio dell'anima e le nostre anime si sono sempre parlate.

Ho condiviso con te 16 anni indimenticabili, ricchi di tante grandissime soddisfazioni e di una vita privata intensissima che abbiamo sempre difeso e privilegiato rispetto a tutto il resto. Non voglio ricordare la grandezza della tua arte che è universalmente conosciuta e che è testimoniata dalle migliaia di messaggi che piovono da ogni parte del mondo. Voglio invece ricordare di te la tua grandezza di donna, di mamma, la tua bellezza interiore e la tua generosità, il tuo umorismo, la tua malinconia, ma soprattutto la tua fragilità che potrebbe sembrare un paradosso rispetto alla dirompente personalità da vera diva che possiedi, diva nel senso di divina, di chi ha il fuoco sacro.

Anche l’autorevole critico Giorgio Gualerzi, recentemente scomparso, una volta mi ha detto che come c’è stata "un’era Callas", così c’è stata, in anni a noi più vicini, "un’era Dessì". Aveva ragione. È proprio così. Senza mai clamore hai scandito il tempo di questa grande fetta di vita musicale a cavallo di due secoli con la tua classe e con un' interpretazione straordinaria sempre diversa e sempre con un denominatore comune di qualità artistica e vocale insuperabile. Tu sei entrata di diritto nell'immortalità per questo e sarai sempre ricordata come interprete di riferimento. Tu sei e sarai un orgoglio perenne per il nostro Paese.

Abbiamo cantato tante volte insieme, perché volevamo farlo e nella musica sublimavamo il nostro amore, dimenticavamo le piccole difficoltà quotidiane. Potevo sempre amare la mia Daniela riguardando negli occhi Mimì, Desdemona, Manon, Leonora, Aida, Maddalena di Coigny nell'Andrea Chénier, l'opera che ci ha fatto innamorare, ma tu hai sempre considerato Jacopo e Alessandra i nostri capolavori.

Amarti ed essere amato da te è stato il regalo più bello del destino, faccio però fatica a pensare che lo stesso destino ti abbia strappato così presto dalla mia vita. Ci piaceva tanto stare insieme e ti piaceva dire che noi siamo sempre appiccicati come due francobolli. Cercavo la tua mano e mi dicevi 'non scappo' e invece non ho potuto fermarti, ma ho tenuto stretta la tua mano nella mia fino al tuo ultimo respiro. Come dice Nemorino nell’Elisir d’amore, ho confuso i miei con i tuoi sospiri. Ciao amore mio, mi manchi già moltisismo. Ti amo.

 

 


 Conversando intorno a Norma

di Roberta Pedrotti

Nel 2008, in occasione del suo debutto a Bologna nel ruolo di Norma, ebbi il piacere di intervistare Daniela Dessì. Il ricordo di quel pomeriggio nel residence dove alloggiava con Fabio Armiliato e il loro splendido pastore tedesco Zelda resta indelebile per l'affabile ospitalità e la piacevolezza della conversazione, che si ripropone integralmente.

Daniela Dessì ha attraversato nella sua carriera tutta la storia dell’opera, dal barocco al XX secolo, sempre ai massimi livelli. La straordinaria intelligenza musicale e teatrale le ha permesso di rinnovarsi nel repertorio in un percorso di continue scoperte e d’ininterrotta crescita artistica, affermandosi come la vera diva dei giorni nostri. L’abbiamo incontrata a Bologna, in occasione del suo debutto in Norma, signora della scena e donna serena e appassionata, forte e rigorosa, conversatrice simpatica e brillante con la quale, al di là dello spazio di un’intervista, è stato un autentico piacere intrattenersi conversando di musica, canto, teatro.

Per un’insigne belcantista divenuta poi Tosca e Cio Cio San di riferimento non si poteva non partire dall’approccio al ruolo di Norma alla luce del suo personale percorso artistico.

Credo che Norma vada affrontata con tutta la capacità espressiva che deriva anche dall’esperienza di palcoscenico, per cui ho aspettato un po’. E devo dire che il mio cammino belcantistico e verista mi ha molto aiutata in questo senso. Ovviamente si tratta di belcanto, di Bellini, ma Norma è comunque estremamente diretta, forte, realistica, e quindi è certamente “verista” sotto un certo aspetto, letterale e non di Giovane Scuola. Il mio passato da belcantista mi ha aiutata ad avere una capacità di visione del personaggio nello stile del primo ottocento, mentre la mia esperienza verista mi ha aiutata a dare al personaggio credibilità a livello di parola in musica. Il senso della parola è importantissimo in ogni opera: sentir vocalizzare può essere bello, i bei suoni piacciono a tutti, ma qualche volta si può prediligere l’espressione, ogni tanto si può anche sacrificare un suono per il senso, per arrivare al cuore della gente.

Mi sono ritrovata con trent’anni di carriera, comunque, a fare delle agilità che francamente non mi aspettavo neppure io, agilità vere, non lente, trascinate, delle agilità quasi rossiniane. Quindi per me è stato anche uno scoprire che vocalmente gli anni non passano, per ora. Speriamo di mantenere questa voce il più a lungo possibile, perché con il tempo va curata sempre di più.

Quindi ci saranno altre esperienze belcantiste?

Io spero di sì, con la mia agenzia ho insistito molto per poter fare alcuni ruoli di questo genere. Affrontati con un’esperienza diversa sicuramente si può dare di più che non a 25, 30 anni, quando si è un po’ immaturi per interpretare Lucrezia Borgia o Poliuto, anche se le si può cantar bene. Con un po’ di carriera alle spalle riesci a superare le trappole di questi ruoli terribili: ogni atto di Norma ha il peso emotivo di un’opera intera. Al termine di una recita nella quale non ero in perfetta forma mi sono trovata con le stigmate perché avevo le unghie conficcate nelle mani proprio per la tensione emotiva di questo ruolo. Straordinario e bellissimo: io sono stata felicissima di affrontarlo, arricchisce, è di grande soddisfazione vocale, è rischioso, ma son quei rischi che val la pena di correre, perché è veramente bello da cantare, i recitativi del secondo atto sono straordinari.

Questa Norma è stata molto seguita dai media, anche con la trasmissione in diretta di una recita in un circuito di sale cinematografiche.

C’è stato veramente, ed è stato un grande piacere, un assalto dei media per questo debutto per me importantissimo. La trasmissione è stata una cosa molto giusta secondo me perché il teatro aveva mille posti e una grande richiesta: ben venga quindi anche la sala cinematografica! Gli americani ci hanno preceduto con queste dirette e da queste possiamo prendere esempio. Anni fa feci un Requiem di Verdi a Notre Dame a Parigi con il maestro Muti e la Scala, mi ricordo che c’erano 11000 mila persone nella chiesa e 13000 fuori a vedere i maxischermi! Così si coinvolge la gente, la si avvicina piano piano alla lirica. Io ritengo sempre che l’opera vada sentita in teatro, però se non c’è la possibilità va anche bene vedere una cosa di questo genere, le persone possono rimanere colpite e andare vedere poi cos’è l’opera in teatro. Perché l’opera è il teatro: lo spettatore ha tutta un’altra possibilità di scambiare energia con l’artista, di essere coinvolto. C’è bisogno di sostenere la lirica perché veramente con i nostri governi è stata tartassata tanto. Se vediamo un programma lirico lo vediamo alle 2 di notte o alle 8 del mattino? È un patrimonio culturale, fa parte della nostra storia. Le scorciatoie pubblicitarie non portano a nulla, ognuno deve rivendicare la propria identità artistica. Mi sono stati offerti dei dischi con Bocelli, ma la mia prima e unica esperienza con lui è stata la Bohème a Cagliari. Non lo conoscevo, non sapevo di cosa si trattasse, era la sua prima opera importante: nel momento in cui ti rendi conto di che si tratta dici “Con tutto il rispetto, ma ognuno ha le sue strade”. Ho scelto di non registrare né quella Bohème né poi Tosca.

Farebbe bene invece un po’ meno di critica e un po’ più d’interesse, secondo me. Purtroppo soprattutto noi cantanti italiani siamo spesso più criticati che supportati nel nostro paese, mentre altrove succede esattamente il contrario, qualunque cosa facciano. E poi, ripeto, è una grande risorsa: a Bologna, parlando con alcuni amici ristoratori, abbiamo visto che questa Norma ha portato un notevole indotto per alberghi e ristoranti, il teatro era veramente pieno. Quindi il nostro è un mondo che crea interesse.

La voce lirica, basta vedere il successo che hanno anche i dilettanti nei programmi televisivi quando si cimentano in un brano d’opera, fa sempre effetto. Ormai si è abituati ai microfoni, invece trovarsi di fronte al miracolo della voce credo che alla gente faccia effetto.

E si sfata il mito del canto lirico come innaturale…

È come i bambini, il neonato ha la tecnica del cantante lirico! La tecnica è uguale per tutti, ma l’applicazione è naturale e molto soggettiva. C’è una regola di base, ma poi se mi facessero respirare come un altro soprano non ci riuscirei, la cosa migliore è provare le cose per metterle addosso al proprio corpo. Quasi mai un grande cantante è un grande maestro di canto, può essere un grande maestro d’interpretazione.

Sicuramente lei, attraversando un repertorio vastissimo, è sempre stata un modello per la gestione dei mezzi vocali.

Ho sempre cercato di fare cose che non andassero oltre le mie possibilità. La serata migliore o peggiore può capitare a tutti, però bisogna avere uno standard che sia sempre elevato. Ho sempre puntato a dire “Se faccio quest’opera è perché posso dare il 150%”, se posso dare solo l’80 è una fatica immane e la tua voce poi ne risente tantissimo. Ho cominciato a cantare prestissimo: mi sono iscritta al conservatorio di Brescia a 15 anni, ho debuttato a 17 e mezzo, era automatico fare delle scelte per mantenere una voce così giovane e non rovinarmi nel giro di 4-5 anni. Poi mi sono appassionata a tutto il repertorio che ho cantato, amo moltissimo il barocco, tutto il repertorio napoletano: Pergolesi, Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, Traetta. Ho fatto tante opere sconosciute: quando ce n’era una nuova si diceva “Chiamiamo la Dessì così ce la fa”! Mozart è stato altrettanto importante, come poi Verdi, Puccini, il Verismo che sto facendo. Con Bellini invece è la mia prima esperienza. Ogni sfida è importante, perché adagiandosi sulle cose troppo facili non si va avanti. Norma poteva essere un appuntamento sbagliato, potevo debuttarla e dire non fa per me o avere una critica non proprio positiva o non creare un personaggio che potesse impattare come invece ha fatto. Per fortuna è stata una scelta positiva, un rischio grosso che valeva la pena correre.

E, appunto, con una grandissima forza espressiva, molto reale.

Immedesimandomi in una storia del genere non posso non essere realista. Poi qui non è certo la storia dei grandi amori, chissà…per lei sicuramente sì. C’è un po’ di Butterfly in Norma, è la donna innamorata dello straniero, del diverso, del conquistatore. Lui invece è più cialtroncello, si può pensare che si divertisse, avesse le sue storie come un po’ tutti i romani all’epoca. Erano i dominatori e si sentivano di dominare qualsiasi cosa e qualsiasi persona. Quindi è anche uno scontro fra due grandi civiltà. È interessante anche il rapporto con i figli: Norma non uccide i figli, l’aspetto materno è più forte, arriva a eliminare se stessa. Anche in questo è un po’ Butterfly. Entrambe tradiscono la propria cultura, ma in Norma è ancora più forte il tradimento nei confronti della propria gente e il tradimento da parte dell’uomo. E’ una storia a tinte fosche. Mentre Medea, però, ne viene fuori in maniera così cruda e cruenta, Norma ne viene fuori in maniera estremamente positiva, riesce a purificarsi dal passato. È molto bello anche il rapporto con Adalgisa, il fatto che lei riesca a perdonarla, ad avere un rapporto quasi amichevole con questa ragazza che le ha portato via l’uomo.

Un personaggio complesso, pieno d’ira e di bei proponimenti: di fronte al pubblico poteva essere un rischio, essendo io adesso impegnata soprattutto nel repertorio verista e venendo da un impegno come la Fanciulla del West a Roma. Ma non canto mai senza far del belcanto, anche nel verismo, quindi la cosa tutto sommato non mi ha creato problemi grossi problemi. L’importante è cercare di far tutto con intelligenza: per questo dico che Norma in qualche momento è verista perché piena di accenti, con il suo modo forte di affrontare le cose, questi recitativi crudi, e d’altra parte io faccio una Fanciulla del West che è Fanciulla, non Virago. Sono dell’idea che nulla va gridato, tutto va cantato, va raccontato, va detto. Naturalmente con una vocalità che ti consenta di farlo. Anche quella è un’opera meravigliosa, un personaggio bellissimo difficilissimo: è una donna vera e completa perché è chiaro il suo modo di essere fin dall’inizio, una ragazza che ha a che fare con gli uomini dalla mattina alla sera ma che non ha mai amato. ancora una persona per cui c’è proprio questa scoperta dell’amore con la persona più sbagliata possibile che però poi diventa la persona giusta.

Un ritorno a Rossini, magari con il Tell?

Se capitasse lo rifarei volentieri, ma non è una priorità: c’è tanto da fare, da esplorare, tanto Verdi. Mi han detto “Adesso ti manca Nabucco”: un momentino, calma! Per carità, lo farei anche, ma sono quei ruoli che già m’interessano, m’intrigano meno. M’intriga di più Lady Macbeth, molto più varia, con tutta la scena del sonnambulismo: c’è molto da cantare, molti pianissimi, molto belcanto.

Fra le grandi voci di oggi è forse il soprano che ha cantato il maggior numero di ruoli verdiani.

Ne ho cantati tanti, abbastanza. Amelia nel Ballo avrei dovuto debuttarla a Bologna, ma stetti male e non potei partecipare alla produzione, comunque c’è sempre tempo. La Forza mi ha dato un’enorme soddisfazione, è un ruolo per soprano importante, uno di quelli che ti segnano anche vocalmente. Leonora la considero proprio una parte per voce bella, per voce pura, un ruolo da controllare molto a livello vocale: ha delle grandi responsabilità perché, come il buon Verdi faceva spesso, c’è una grande aria all’inizio e alla fine, però insomma, da soddisfazione!

La Lady è quello che molto probabilmente, se vanno in porto un paio di progetti in Italia, sarà il prossimo grosso debutto. Dopo Norma penso di poterlo affrontare. Verdi non scritto che voleva una voce brutta, ma una voce che si piegasse a espressività particolari: insomma se si fa Norma per me si può fare anche la Lady, perché anche lei ha dei momenti da cantare meravigliosi e dei momenti in cui cercherò di piegare la mia voce al ruolo, all’espressività che si può trovare lavorando, possibilmente avendo vicino anche un direttore importante.

Violetta?

Violetta l’ho cantata una volta in Giappone, fu un bellissimo successo. Il problema è che “purtroppo” adesso c’è l’abitudine di farla cantare ai soprani leggeri, si preferisce dare risalto più al primo atto che agli altri, perché ovviamente un soprano leggero non può avere la pienezza per fare poi un secondo atto, un terzo atto come in realtà è scritto da Verdi. Quando decideranno che la si può affidare anche a un soprano lirico spinto allora io lo farò con molto piacere perché l’ho cantata devo dire senza grande fatica. La farei certamente con la mia voce, non come un soprano leggero; attenendomi quanto scritto nello spartito Violetta potrei farla benissimo. Se qualche teatro me la offrirà la canterò molto volentieri, se non sarà troppo tardi!

Cos’è per lei una voce verdiana?

Io credo che dipenda dal risultato, nel senso che se canti bene una cosa automaticamente ti considerano una cantante di quel repertorio, però per me essere un cantante verdiano significa dare degli accenti giusti al momento giusto. Verdi costruiva tutti suoi personaggi proprio sulla scultura dell’accento. Non credo che ci sia la voce verdiana, non c’è la voce belliniana, la voce pucciniana, rossiniana, ci sono dei modi per cantare determinati autori. Se hai una cultura musicale capisci che certe cose non vanno fatte, sai come si canta un certo tipo di repertorio, sai che in Verdi se puoi evitare portamenti, se puoi evitare di fare certe cose un po’ sguaiatamente è sempre meglio e in questo si può entrare in un ordine di idee. Questa è cultura musicale. Poi io, soprattutto per quanto riguarda la corda sopranile, sono dell’idea che la voce verdiana debba essere bella, ricca di armonici, con un bellissimo centro e la possibilità di viaggiare anche sull’agilità. Se parlo di soprano verdiano mi viene in mente la Tebaldi, la Stella, la Caniglia, cantanti di grande bellezza vocale, indipendentemente dalle loro singole capacità e possibilità. Desdemona deve avere una bellissima voce, Leonora, Amelia, Aida… Voce nobile, voce bella, che abbia un corpo, una bellezza di suono. Non si può cantare Verdi altrimenti. Forse Nabucco ti può portare a pensare a una voce più aggressiva, ma, insomma, non mi piacciono le vociacce che si buttano a fare Nabucco, Attila, Vespri Siciliani. Come per Traviata: ci vuole voce voce voce e ancora voce. Tutto analizzato con un po’ di ragionamento. È chiaro che Violetta ha una voce diversa in ogni atto, ma quello dipende dalla tua espressività. Verdi scrive proprio che una voce si deve piegare ad accenti. Onestamente non ho voglia di ascoltare il Sonnambulismo di Lady Macbeth da una vociaccia. Certo che può funzionare una voce come quella della Verrett, un po’ nera, con un accento particolare, ma non certo brutta! La stessa Gencer usava magari degli effetti particolari, ma quando c’era da fare puro belcanto legato, come nel Macbeth capita spesso, la bellezza veniva fuori eccome.

Ora il massimo sarebbe riuscire a fare un grande successo nel Macbeth con la mia voce. È una sfida. La Callas nella voce aveva tre o quattro colori, se non hai una voce di quel genere devi cercare altre carte da giocare. La Tebaldi avrebbe avuto la sua forza vocale, per esempio. Io credo che come al solito avrò tutti i fucili puntati, ma magari può anche andar bene, perché, insomma, io ci credo abbastanza!

Quindi il prossimo impegno importante sarà Macbeth?

Sì, se tutto va bene nel 2009. Doveva esserci anche Gioconda, ma l’ho posticipata per non affrontare troppi debutti insieme, dopo i due importanti, La forza del destino e Norma, di quest’anno. Ci sono comunque molti progetti importanti, anche la Norma ha destato attenzione. Poi ho un sogno nel cassetto: vorrei divertirmi facendo Carmen una volta. Quasi tutti i soprani che mi hanno preceduta l’hanno cantata, quindi perché no?

 

 [pubblicata in origine da Gli amici della musica]