Jenůfa e il té con la Horne

di Gina Guandalini

Di ritorno da una New York fra fermento e sconcerto, gli appunti di viaggio di Gina Guandalini, fra l'opera al Met, incontri con musicisti, confronti politici.

Dopo diverse stagioni di assenza il Metropolitan di New York ripresenta Jenufa, il capolavoro verista di Janacek, e la diva finlandese Karita Mattila nel ruolo della fanatica matriarca Kostelnička. In una regìa eccessivamente stilizzata di Olivier Tambosi, che esaurisce tutta la vicenda in un enorme masso di roccia al centro della scena, nella goffaggine più assoluta dei movimenti scenici; sotto la bacchetta di David Robertson, che ha seguito una linea di intensa drammaticità senza approfondire i guizzi e le inflessioni della complessa partitura; ecco che la Mattila è stata acclamata dal folto pubblico per presenza tragica e abilità di inflessioni, e nessuno ha notato che la voce è ormai affievolità e forzata. Né il resto del cast ha brillato per gradevolezza timbrica. Nel ruolo della nonna, la veterana wagneriana settantatreenne Hanna Scharz ha fatto scrivere a un critico “la Schwarz ci fa sentire tutta la sua età, ma così deve essere”; il concetto conferma come ormai il canto sia assimilato alla recitazione e nessuna stilizzazione portata dall’imposto tecnico è ormai desiderabile.

Capelli candidi, carnagione radiosa, Marilyn Horne siede nel piccolo tinello accanto alla cucina e sorseggia tè Earl Grey in cui intinge biscottini allo zenzero. Nella nostra conversazione salta fuori la notizia che Carrie Tenante è morta circa un anno fa lasciando tutto il suo patrimonio in beneficienza. Gli appassionati di opera meno giovani riconosceranno che si tratta della seconda storica moglie di Samuel Ramey, che lo ha accompagnato dovunque dal ’74 al ’97. Con la separazione del ‘98, ha trattenuto nell’appartamento di New York tutto l’interessantissimo materiale della carriera di Sam: foto, nastri, video, lettere e autografi di Karajan, Abbado, Strehler… Ci si chiede quale fine può avere fatto questa collezione trattenuta in ostaggio, alla quale il grande basso teneva molto. Il passato di Ramey ci porta a parlare del suo presente, che consiste soprattutto nel corso di canto che tiene all’Università di Wichita. Chiedo a Marilyn notizie dei suoi allievi, e mi parla (miracolo!) di tre giovani tenori nei quali ripone grandi speranze; uno di loro si esibirà in un recital alla Juilliard School la sera seguente.

Ma non è il discorso operistico che la coinvolge: siamo infatti nella storica giornata dell’8 novembre in cui gli americani hanno eletto il presidente; in cui i newyorkesi, in stragrande maggioranza di pensiero liberal, fanno code lunghe tre isolati per votare Hillary Clinton. “Conosco bene Bill”, mi dice Marilyn (che a quattro anni cantava nei comizi pro-Roosevelt e la cui fede democratica non è da mettere in discussione), “ ma qualche volta ho incontrato anche sua moglie: una donna splendida e sempre molto spiritosa”. La mia amica è molto ottimista, e su questa nota di viva speranza ci congediamo. La batosta è chiara fin dalle 21.30 e il giorno dopo con una semplice telefonata non riesco a a scuoterla dalla profondissima delusione, a darle una scintilla di conforto.

Tre giorni dopo sono a pranzo con Gil Morgenstern, splendido e intenso violinista, organizzatore e pedagogo di origini e cultura viennesi. È logico che la conversazione si aggiri soprattutto sul futuro politico, civile e culturale degli Stati Uniti, sulla disperazione dell’intellighentsia di questa enorme, multicolore, attivissima nazione. Non voglio parlargli della mia partecipazione a due manifestazioni sulla Quinta Avenue: anche qui le riflessioni, i consigli strategici di una esperta italiana di opposizione lascerebbero il tempo che trovano, almeno per il momento, ed è comprensibile. Tutta la cultura qui è sotto shock. L’ora degli esami di coscienza, dell’organizzazione pacata, dell’opposizione costruttiva, deve ancora suonare.