No, che il morir non è

 di Roberta Pedrotti

Si è spento a Pesaro, all'età di ottantanove anni, Alberto Zedda.

Pesaro, 7 agosto 2016. La conversazione sulla Donna del lago con Michele Mariotti e Damiano Michieletto, in vista della prima del Rossini Opera Festival, si sta concludendo; dalla sala giunge una domanda sugli autoimprestiti nell’opera oggetto dell’incontro, in particolare per quanto concerne l’aria di Malcom nel secondo atto: Ilaria Narici, direttrice dell’edizione critica rossiniana e coordinatrice dell’appuntamento, risponde rievocando pacatamente il quadro storico e la genesi delle partiture citate, quand’ecco che una figura minuta di folletto balza in avanti, guizza di fronte al palco degli oratori, gli occhi scintillanti, quasi infuocati e si lancia nella più bella lezione sull’estetica musicale rossiniana, sul valore assoluto di una scrittura che va oltre la singola situazione e si eleva in un’astrazione di forza sublime, che trae forza dai diversi contesti in cui si rifrange e mostra i suoi volti.

Tutti siamo in piedi di fronte alla preziosa “orazion picciola” di un'anima fiammeggiante, ardita, curiosa e avida di conoscenza come l'Ulisse dantesco. Un’ovazione interminabile accoglie Alberto Zedda e il suo fuoco rossiniano come l’anima della Renaissance, come lo spirito autentico del recupero dell’essenza profonda dell’opera del pesarese.

Da qualche mese non era più direttore artistico del ROF, la creatura che aveva contribuito a far nascere fin dalle sue origini più remote, quando aveva fornito a Claudio Abbado quell’edizione critica che avrebbe convinto Gianfranco Mariotti a intraprendere l’avventura pesarese con i migliori musicologi gravitanti intorno alla Fondazione Rossini. Tuttavia Alberto Zedda non era uomo che potesse rimanere inattivo: con i suoi passettini, la parlata caratteristica, così espressiva anche nel masticare le parole l’una nell’altra, gli occhi stretti stretti sul viso da tartaruga, quasi una creatura fantastica, saggia e antica che qualcuno paragonava allo Yoda della saga di Guerre stellari, continuava instancabile a guidare l’Accademia rossiniana, a selezionare talenti e seguirli passo passo; continuava a dirigere, a programmare opere e concerti, come se non vi fosse respiro che avesse senso se non nella musica. Ci si chiedeva, a volte, perfino se mangiasse o dormisse.

È stato così fino all’ultimo: pochi giorni fa avrebbe dovuto dirigere i suoi amati giovani in una Cenerentola a Pesaro, per i duecento anni dell’opera, e subito dopo Il turco in Italia al Comunale di Bologna. Ha cancellato entrambi e per chi lo conosceva un brivido è corso lungo la schiena: se Alberto Zedda annulla una produzione, anche a ottantanove anni compiuti, vuol dire che sta veramente male. Avrebbe smesso di far musica solo quando avrebbe smesso di respirare: lo si pensava con affetto, come se quel momento non dovesse mai arrivare, ma ora che è giunto si è fatto sigillo di una vita tutta animata dal fuoco dell’amore per quest’arte, per Rossini soprattutto. Una vita vissuta pienamente, fino in fondo.

Nulla poteva fermarlo, ardente e volitivo com’era. Chi era a Pesaro per La donna del lago che diresse in forma di concerto nel 2013 [leggi] lo ricorda bene, ricorderà quell’istante interminabile in cui Michael Spyres, concluso il cantabile “Ah dov’è colei che accende” si è voltato verso il podio in attesa dell’attacco della cabaletta. Pochi secondi, anche meno, che parvero un’eternità, con il maestro che si era fatto bianco come uno spettro ma aveva saputo attendere l’ultimo “fa quest’anima bear!” prima di accasciarsi. Dal fondo della platea lo leggevamo negli occhi di Rodrigo di Dhu che da impavido guerriero delle Highlands trasecolorava a sua volta in uno sconvolto Michael Spyres, mentre Simone Alberghini, Douglas, accorreva con un bicchier d’acqua, i professori dell’orchestra del Comunale di Bologna sorreggevano o facevano spazio, Gianfranco Mariotti – medico prima che sovrintendente – balzava dal suo palco con lo scatto di un ragazzino per soccorrere l’amico Alberto. Le luci in sala si rialzavano, rimbalzavano dubbi e domande sulla salute del Maestro, su chi eventualmente avrebbe portato a termine la recita. Ma non poteva essere nessun altro che lui: Alberto Zedda, dopo quaranta minuti di controlli medici, è irremovibile, torna sul suo podio, dirige il finale primo e il secondo atto con una foga impareggiabile.

A volte poteva risultare difficile comprendere questo suo attaccamento estremo al lavoro, questa iperattività inesorabile di concertatore, docente, musicologo, direttore artistico. Né si possono negare le tante discussioni di cui è stato oggetto o parte in causa, come quando inserì per la prima volta a Pesaro nella Scala di seta (e poi anche in Adelaide di Borgogna) “Alle voci della gloria” come aria di baule per Blansac (o Berengario), o quando giunse a scontrarsi con Philip Gossett in una storica, dolorosa rottura culminata nella pubblicazione quasi contemporanea di due diverse nuove edizioni critiche del Barbiere di Siviglia. Ma una personalità vulcanica come quella di Zedda, nato studioso di filosofia e filologia classica e travolto dalla musica, non era fatta per essere accomodante, per blandire e accontentare tutti. Sapeva anche litigare, e con veemenza, ma perché credeva in tutto quel che faceva, perché portava avanti fino in fondo le sue intuizioni e i suoi progetti. Lui era capace di dirigere Adelaide di Borgogna a Zagabria senza divi come di inciderla con Devia e Dupuy, di balzare da un capo all’altro del mondo dirigendo i cast più diversi, nomi noti e meno noti, star o esordienti, ma sempre, sempre infondendo loro un palpito inconfondibile: quante volte avrà diretto Semiramide, per esempio? Molte, moltissime, e non sempre con orchestre, cori e solisti di primissimo piano, non sempre in recite sfolgoranti, eppure ogni volta che si ascolta una qualsiasi sua Semiramide si intende una prepotente, profonda dichiarazione d’amore, come se nessuno mai abbia amato quest’opera quanto lui.

Questo ricorderemo di Alberto Zedda: il suo amore immenso per la musica, il suo sentirsene parte, il suo risorgere, quasi, per portare a termine La donna del lago facendosi un tutt’uno con l’energia della partitura, il suo balzare ancora una volta in cattedra, nell’estate del 2016, per ricordare l’essenza della poetica rossiniana. E se sarà giusto ricordare che, da Monteverdi a Puccini e perfino Leoncavallo, Zedda direttore ha frequentato un ben più vasto repertorio, disgiungerlo dal Pesarese sarebbe fargli torto.

Oggi ci manca, ma è come se non se ne fosse andato per sempre, se fosse solo partito come quando, una quarantina d’anni fa, con Bruno Cagli e Philip Gossett era corso alla scoperta del manoscritto del finale tragico di Tancredi, nella villa dei conti Lechi a Montirone (BS). Con i suoi passettini inconfondibili, con la sua voce e i suoi occhietti piccoli e brillanti il suo spirito starà ancora annidato fra le note di un’edizione critica o di un autografo perduto, inveirà ancora per un Rossini sottovalutato o incompreso, vibrerà ancora per ogni Semiramide che risuonerà nel mondo.