Fra utopia e realtà

 di Andrea R. G. Pedrotti

Un confronto sulle scelte interpretative che hanno guidato le due recentissime produzioni di Andrea Chénier alla Bayerische Staatsoper e alla Scala di Milano.

Milano, Andrea Chénier, 07/12/2017

Monaco di Baviera, Andrea Chénier, 18/03/2017

Due fra i teatri più importanti del mondo, la Bayerische Staatsoper e la Scala di Milano, hanno scelto di rappresentare, nel centocinquantesimo dalla nascita di Umberto Giordano, il medesimo titolo: Andrea Chénier.

Le due produzioni, alle quali ho avuto ventura d’assistere in sala, prevedevano un impianto registico simile solo per una contestualizzazione storica coincidente alle vicende narrate (difficile far diversamente visti i numerosi riferimenti presenti nel libretto di Illica) e un impianto scenico che, tecnicamente, garantiva un’assoluta mancanza di interruzioni dell’opera. Alcuni momenti di pausa erano concessi solo a Monaco di Baviera per consentire agli interpreti il meritato tributo del pubblico.

Se il significante (i costumi, il contesto, etc…) erano simili, sono i significati legati alla linea drammaturgica ad aver differenziato nettamente le due edizioni.

Sia Mario Martone, sia Philip Stölz sono anche registi cinematografici: se il primo ha puntato su effetti di gran teatralità, il secondo ha affidato il messaggio a un’analisi quasi introspettiva dei personaggi e della società che animò la Francia rivoluzionaria. Un espediente visivo utilizzato da entrambi i registi è il tableau vivant (quasi identica la mimica del coro al termine del secondo quadro), ma, per il resto, le idea drammaturgiche si differenziano esattamente come il concetto di utopico da quello di reale.

Il protagonista maschile monacense (Jonas Kaufmann) è un poeta dal pensiero utopistico, combattivo nel difendere la sua idea avversa sia all’Ancien Régime, sia alla violenza dell’estremismo giacobino, la cui lama sarebbe stata fatale anche a lui stesso il 25 luglio 1794, in pieno Terrore.

Ciò che unisce il protagonista dell’edizione tedesca a quello interpretato al Piermarini nel giorno di Sant’Ambrogio da Yusif Eyvazov è celato nei versi scritti dal poeta che ispirò l’opera in La jeune captive, composta lo stesso anno della decapitazione: “L’illusion féconde habite dans mon sein”. Il poeta di Eyvazov è guidato da Calliope, musa dell’elegia che ispirò André Marie Chénier, poeta neoclassico dallo spirito romantico. Chénier (quello storico) fa sovente appello al suo onore e alla sua dignità nei suoi testi, ma sempre con uno stile elegante (anche nelle sue invettive contro Marat), un emblema della borghesia agiata, vera motrice della rivoluzione, ma che da essa, e specialmente dal Terrore giacobino, fu travolta.

Kaufmann ricalca lo Chénier reale; ha dei moti d’orgoglio, ma gli ideali dell’illuminismo rivoluzionario erano stati traditi e la sua visione utopistica appare sconsolata e conscia del fallimento dei sogni che lo avevano portato a far parte dell’Assemblea costituente. Vi rimase fedele sempre: scrisse un’ode al coraggio di Marie-Anne Charlotte Corday, dopo l’omicidio di Marat, e difese Luigi XVI, che rifiutava di perdere il potere di veto sulle decisioni della stessa Assemblea. Kaufmann è sofferente nel fisico, anche per le torture che Stölz mostra al pubblico prima del processo, mentre Eyvazov è più politico e utopico (rammentando non la biografia, ma l’anima del poeta).

Sempre in La jeune captive,  Chénier scrisse: “Pour moi Palès encore a des asiles verts, | les Amours des baisers, les Muses des concerts. / Je ne veux point mourir encore”. Questi versi paiono riverberare nella richiesta di ottenere dalla musa una “sfolgorante idea” e lo domanda “con grande entusiasmo” (come indica o stesso Illica), per poter concludere la sua “ultima strofe” prima della morte. Ovviamente le due differenti letture sono dovute anche dalle caratteristiche dei due tenori e alle loro differenti passionalità: più fisica quella di Kaufmann, sgorgante dall’anima quella di Eyvazov, cantante con gran facilità nello squillo e nella morbidezza del fraseggio.

La coppie vanno da sé e risultano ben assortite in entrambi i casi: i rapporti amorosi, sovente, vedono una componente governata da Afrodite pandemia e un'altra da Afrodite urania. Alla Scala la parte terrena dell’amore (Afrodite Pandemia) era la Maddalena di Coigny di Anna Netrebko, passionale al limite della carnalità in un canto di fuoco, pari alla luce ardente negli occhi del soprano russo; al contrario, a Monaco di Baviera, Anja Harteros era immagine rilucente della purezza amorosa, platonica, verginale di Afrodite urania. Due facce dell’elegia queste che andavano a unirsi al loro opposto (carnale-spirituale), in una simbiosi che si sfoga nell’uninione del si bemolle conclusivo.

Gérard era in entrambi i casi l’eccellente Luca Salsi e proprio in lui si notano molte delle numerose differenze di significato: alla Bayerische Staatsoper Gérard è un uomo che si evolve, deluso in amore e nella politica, ma composto, fluido nella linea, come nello sviluppo interiore. L’unico contatto fisico con Maddalena dello spettacolo bavarese è una spinta nel terzo quadro, al grido di “Tu mia sarai!”, ma appare immediatamente pentito, per la struggente “mamma morta”, che Stölz mostra, trucidata, al di là della scena, quale truculenta analessi. Alla Scala Gérard era più nevrotico, sfoga il suo impeto con maggior veemenza, tornando alla ragione con la stessa velocità con cui l’aveva smarrita.

La differente caratterizzazione è palese in quattro comprimari: l’Abate, la contessa Coigny, la mulatta Bersi e il “sanculotto” Mathieu.

L’Abate della Bayerische Staatsoper è corrotto, partecipa alle feste nobiliari assistendo a un coro “Oh pastorelle, addio” ambientato in un’arcadia impudica (aspetto maggiormente filologico, rispetto alla danza dell’edizione scaligera): rappresenta la promiscuità del clero, quasi fosse un epigono del disonesto Cardinale di Rouen protagonista dello "scandalo della collana". Egli viene impiccato a vista, nel secondo quadro, dalla furia popolare della nascente rivoluzione, che avversava. A Milano, al contrario, l’Abate era funzionale all’insieme, ma non caratterizzato particolarmente. La contessa di Coigny scaligera è meno conscia del pericolo imminente, appare quasi disinteressata e Martone lo sottolinea: il popolo si avverte lontano e il “ritorno all’allegria” dei nobili è compassato, prima della tragedia. A Monaco, no. Il terzo stato è ai piedi della sala nobiliare, la gavotta avviene nelle altre stanze e la contessa è ignorata, abbandonata dai servi: le due gavotte, inoltre, sono attaccate in modo completamente diverso dal concertatore (Omer Meir Wellber) e l’aristocratica appare isterica innanzi all’ineluttabilità del fato che comprende, ma non vuole accettare. Differenti anche le due Bersi (e qui, come per la contessa e l’animo di Chénier tornano utopia e realtà): alla Scala ella è amica sincera, si dà alla vita per necessità, ma è “buona e pura” nell’animo, esattamente come la descrive Maddalena nella “Mamma morta”, a Monaco è travolta anch’essa da “fame e miseria”, appare fedele, ma, in realtà, è lei a vendere Chénier al tribunale rivoluzionario.

Geniale, invece, la caratterizzazione monacense del Sanculotto Mathieu, personaggio assai difficile da inserire in un complesso drammaturgico. Stölz lo tramuta nell’impersonificazione del Terrore e della brutalità giacobina, storicamente combattuta da Chénier pur piegato dalla vessazione e dalla malattia che lo tormentavano. È il Sanculotto a torturarlo, egli a mostrare la testa trionfante al popolo sadicamente in festa, quasi a decretare la sua vittoria sui versi del poeta. È il trionfo non della morte del poeta, ma del suo sogno e del suo ideale, schiacciato dalla compiaciuta violenza sanguinaria di quagli anni. Alla Scala, Mathieu è più tradizionale: manca su di esso lo sguardo geniale di Stölz, ma viene inquadrato in un impianto scenico di matrice cinematografica e di grande effetto, tanto da non passare inosservato, anche grazie alle belle indicazioni di recitazione.

Una differenza sostanziale è stata la linea musicale scelta dai due concertatori. A Monaco Omer Meir Wellber ha optato per una lettura del messaggio insito nella partitura di Giordano e nel testo di Illica che in linguistica si definirebbe “paradigmatica”: tecnicamente più preciso, coinvolge il pubblico con una modulazione di gran raffinatezza e solenne intensità, garantita, inoltre, da un uso delle pause e del respiro orchestrale dall’effetto quasi catartico sui presenti.

Riccardo Chailly, invece, punta su una lettura “sintagmatica”, più tradizionale, non modulata alla maniera di Wellber, ma isolata in grandi blocchi drammaturgici ben distinti, più serrata nelle dinamiche e con scelte agogiche nettamente più secche. Anche il suo, nelle intenzioni, appare uno stile quasi romantico, ma di matrice wagneriana, come in un finale interpretato in sintonia con la scena)quale il trionfo dell’amore (nella morte) fra Maddalena e Andrea Chénier: questa è l’utopia. Wellber è più mahleriano, poiché il finale è un trionfo del realismo e dell’imperfezione dell’uomo, sublimata dalla vittoria del Terrore su una poesia mandata a morte: questà fu la realtà del Terrore giacobino.