Leggere, studiare, pensare

 di Roberta Pedrotti

A trent'anni dalla scomparsa di Massimo Mila, una riflessione su uno degli intellettuali italiani più importanti e influenti del XX secolo.

Il 26 dicembre 1938, esattamente ottant'anni fa, Massimo Mila scriveva alla madre. Le scriveva dal carcere dove era rinchiuso, oramai da tre anni, per il suo antifascismo. Non si lamenta, non lo fa praticamente mai: di ritardi postali, incomodi, garbugli legali e burocratici riferisce sempre a ciglio asciutto e semmai si scompone quando riprende mamma e parenti per eccessive premure e agitazioni legate al suo stato. Affronta la situazione con serena, dignitosa fermezza, la stessa che impone al parentado comprensibilmente in ansia per la sorte del brillante e amatissimo unico figlio e nipote. Dunque, in questa giornata di Santo Stefano spiega che il pacco natalizio da Torino non è ancora giunto, ma non c'è da preoccuparsi, perché la solidarietà fra reclusi aveva garantito la festa “per fortuna aveva ricevuto il pacco Cavallera, al quale lo portano da Roma, e così abbiamo saccheggiato il suo cuss-cuss, abbacchio, fritto misto, pesce salumeria, ecc., e abbiamo fatto un ottimo pranzo ugualmente.” Scrive di letteratura, commenta il Lorenzo Benoni di Giovanni Ruffini (“son contento che ti sia piaciuto […] è vero che il principio somiglia a Dickens, e più ancora a Thackeray”); dà consigli di tecnica pianistica (“La tua incertezza sull'uso dei pedali in quel pezzo di Beethoven deriva dal fatto che tu credi che il pedale (di destra) serva per suonare forte”); s'interessa all'esito del Re Hassan di Ghedini in programma alla Fenice; suggerire di diffidare dal Giuseppe Verdi “tutto azzimato di brillantina” di Carmine Gallone e chiosa “i maligni dicevano che Verdi, invecchiando, s'era messo a imitare Wagner in tutto; ma, per la musica almeno, sbagliavano”; s'interessa a un “libro di montagna”, ringrazia per “le notizie sportive”, saluta e ricambia abbracci e auguri. In un paio di pagine, eccettuata per ovvie ragioni la politica, tutte le passioni di una vita: la musica, la letteratura, lo sport, la montagna.

Esattamente ottant'anni fa un ventottenne è in carcere, da tre anni, ed è al suo secondo arresto, il primo avvenuto quando di anni ne aveva appena diciotto e per la legge dell'epoca era minorenne, sempre per lo stesso motivo, il suo fermo antifascismo maturato durante gli studi. Ciò nonostante, è già laureato in lettere, con una tesi su Verdi che ha suscitato l'attenzione di Benedetto Croce. Scrive articoli, traduce testi letterari: è un intellettuale che ha già tracciato la sua strada.

Esattamente trent'anni fa moriva Massimo Mila. Aveva settantotto anni e aveva segnato la storia della critica e della percezione della musica in Italia nel XX secolo. La sua Breve storia della musica è stato un testo sacro per generazioni fra chi dell'argomento s'interessava o doveva interessarsi (pensiamo agli studenti di istituti magistrali e facoltà di magistero) anche senza intraprendere percorsi specialistici. In generale, Mila è stata una delle figure più emblematiche e influenti del secolo scorso, un secolo in cui, ancora, si dibatteva veramente di estetica, in cui la critica militante aveva un peso e un rilievo significativo sulle pagine di quotidiani e periodici, in cui le novità, le scoperte e le riscoperte facevano parlare sul serio, discutere animatamente.

E proprio del Mila critico, delle sue analisi e delle sue conclusioni, si può continuare a discutere: i suoi testi possono essere “sacri” come punti di riferimento storici, non certo come dogmi. Anzi, più del valore del contenuto del pensiero di Mila in sé, è la sua storicizzazione a interessare: molte posizioni restano discutibili, ma discuterle non significa liquidarle, come si farebbe con un qualunque mediocre, bensì riflettere sul contesto storico e ideologico da cui nascono. In particolare sull'espressione della filosofia di Croce nell'opera critica e musicologica di uno degli esponenti più intelligenti e significativi di una scuola di pensiero tanto influente nel panorama culturale italiano. Svicolandosi, nella sua prospettiva, dai modelli positivisti, l'idealismo da cui Mila prende le mosse si priva dell'aspetto tecnico, in un certo senso oggettivo, che di quei modelli era parte integrante. Una privazione per molti versi limitante, che concentra l'attenzione sulla percezione storica dell'opera d'arte, sicché la stessa nota critica si fa a sua volta più oggetto di analisi storica che strumento di conoscenza dell'opera d'arte (e, nel caso della musica e del teatro musicale, della sua interpretazione) in sé. Alla fine, se a Mila piacesse o meno Richard Strauss, o Puccini, o il giovane Verdi rispetto a quello della maturità, o Il turco in Italia rispetto a Semiramide potrebbe essere cosa di poco conto, e in effetti lo è, anche perché difficilmente le questioni ermeneutiche che solleva sono strettamente formali, tecniche, positive. Le sue analisi sono soprattutto interpretazioni e come tali, con le loro intuizioni e considerazioni, interessano perché Massimo Mila è intelligente, estremamente intelligente, è colto, curioso, è un vero intellettuale, è impegnato ed è onesto. Profondamente onesto e coerente. È sempre il ragazzo che, serenamente, non fa un dramma della sua reclusione politica, rassicura i familiari, trova conforto nella lettura e nella scrittura. Per questo motivo, di ciò che dice, è importante capire perché lo dica, anche a prescindere alla condivisione o meno dell'assunto: non lo leggiamo tanto per imparare, quanto per ragionare.

Anche le ombre che si son volute gettare sulla sua integrità, in realtà non ne intaccano la figura: è stato accusato di aver contribuito all'arresto di Vittorio Foa, ma questi ha apertamente difeso l'amico di una vita ricordando che chi non ha vissuto gli interrogatori della polizia fascista non può giudicare un uomo per un indizio estorto in quei momenti di violenza fisica e morale. Ha avuto posizioni anche scomode, estreme, discutibili (avendo vissuto il regime sulla sua pelle, avendo partecipato alla Liberazione e seguito il processo di Norimberga, riteneva ipocrita la battaglia contro la pena di morte che si era comminata ai boia nazifascisti, a prescindere dai contesti non paragonabili di un conflitto e di crimini contro l'umanità e di quella che avrebbe dovuto essere la legislatura civile di uno stato di diritto). Ha polemizzato con Togliatti, ha sostenuto il PCI ma non gli ha risparmiato critiche. Sempre con la fermezza di chi, diciottenne o poco più, firmava il sostegno a Croce contro Mussolini in opposizione ai Patti Lateranensi.

Allora, oggi, a trent'anni dalla morte di Massimo Mila, quel che c'interessa non è essere d'accordo con lui, è essere in dialogo con lui: leggerlo non per assumere le sue opinioni, per conoscerne le argomentazioni, magari con il senno di poi ingenue e discutibili ma mai banali o incoerenti, e riflettere su di esse; conoscerlo per riconoscere la sua influenza e per farne ricchezza dialettica; prenderlo ad esempio per la franchezza, per la vitalità, l'etica che traspare prepotente prima ancora che dalla saggistica e dalla critica ufficiale, dai suoi scritti personali, dagli scambi polemici, dagli epistolari. E prendere ad esempio una prosa franca, scorrevole, brillante: una prosa bella e personale come ormai di rado se ne trovano in uno scrivere di musica oggi sempre più scisso fra il mondo accademico e la cronaca giornalistica, con arrembanti manifestazione di cialtronaggine sull'uno e sull'altro fronte. La musicologia fai da te che assedia i bastioni della musicologia seria e scientifica; l'ideale nobile dell'esercizio critico inquinato dalle infiltrazioni della sedicente critica musicale più o meno improvvisata fra favore accomodante più o meno consapevole, attacco sistematico ed eclatante, ignoranza superba di sé stessa. Nei mille rivoli e nelle mille possibilità aperte dalle nuove tecnologie e dai nuovi media, forse chi in carcere era felice di poter "leggere, studiare, pensare" (ma con il rimpianto della lontananza dai parenti e dalla montagna) potrebbe insegnare a usare questi mezzi per diffondere lettura, studio e pensiero senza farsi farsi usare, ma respirando l'aria pura e libera delle cime alpine. "Leggere, studiare, pensare", riscatto di libertà nelle carceri fasciste, può essere la miglior risposta all'osceno motto "credre, obbedire, combattere". Forse leggere Mila potrebbe farci ricordare quanto la cultura sia anche impegno, etica, onestà, quanto la critica - sia del testo o della sua interpretazione - sia questione articolata, oggetto e soggetto di confronto e riflessione su basi e metodi, su dati oggettivi e approcci estetici. E magari quanto la cultura sia un'urgenza primaria dell'impegno politico e, nell'accezione più nobile del pensiero rivolto alla vita sociale dell'uomo, viceversa.

Oggi, ancora, a trent'anni dalla morte, leggere Massimo Mila ha qualcosa da insegnarci, da ricordarci, su cui stimolarci.