Nuovi enigmi, nuove sfide

 di Roberta Pedrotti

A cavallo del "non compleanno" rossiniano, fra il 28 febbraio e il 1° marzo, una riflessione sull'anno appena trascorso, consacrato alle celebrazioni dei centocinquant'anni dalla morte del compositore.

Un curioso gioco di quello che potremmo chiamare fato, o, meglio, Khairos, caso, occasione, ha fatto sì che intorno al centocinquantesimo dalla scomparsa di Rossini si imponesse, nel giro di pochi anni, un radicale cambio generazionale e alcuni fari, fra i più luminosi, della Renaissance si spegnessero per sempre. Nel 2017 Alberto Zedda [leggi: Alberto Zedda (1928-2017)], poi Philip Gossett [leggi: Philip Gossett (1941-2017)], nel 2018 Bruno Cagli [leggi: Bruno Cagli] ci hanno lasciato. Il direttore letterato e filologo di formazione classica, il filologo musicista di formazione statunitense, il musicologo storico e letterato: una triade perfetta che si compensava e completava in maniera ideale, anche se, negli ultimi tempi, quelle che erano feconde differenze in qualche caso si erano andate trasformando in crepe e ferite insanate. Ad ogni modo, hanno rappresentato la storia della rinascita rossiniana non solo per la riscoperta e la ricostruzione di titoli perduti, travisati dalla tradizione o caduti nell'oblio, ma anche e forse soprattutto per la dedizione nel recupero di una poetica sommersa, enigmatica, spesso incompresa. Zedda, Gossett, Cagli erano (sono) i simboli dello studio un mondo riportato alla luce, quello della drammaturgia musicale e dell'estetica rossiniana, di sconcertante modernità e complessità. Il laboratorio pratico di questi studi storici, filologici, esegetici, era ed è il Rossini Opera Festival, nato dalla volontà e dalla geniale intuizione di Gianfranco Mariotti, allora assessore alla cultura del comune di Pesaro. Un cambio della guardia, dopo quasi quarant'anni (gli otto lustri del ROF si festeggeranno proprio nell'estate 2019), ha interessato anche il Festival, e dal 2018 Mariotti è presidente onorario, mentre la carica di sovrintendente e direttore artistico è ricoperta da Ernesto Palacio: retroterra affatto differente, ma esperienze ad ampio raggio nel mondo dell'opera come raffinato tenore, abilissimo talent scout e agente, direttore artistico, organizzatore, docente. Dalla fase di ricerca ed esplorazione dipanata di anno in anno, oggi si impone una riflessione, un consolidamento: dalla riscoperta degli inediti o dei titoli dimenticati che ha segnato buona parte delle edizioni passate, la strada ora si traccia con nuove mete di analisi, interpretazione, elaborazione, scoperta di ulteriori ambiti nascosti.

Da questo punto di vista, le celebrazioni del centocinquantesimo dalla morte hanno fatto da cartina di tornasole per lo stato e la percezione della Rossini Renaissance all'alba del XXI secolo, dopo decenni di studi e riprese. E si scopre che anche Rossini, sempre attuale anche in questo, resta vittima di distorsioni e “fake news”. Non stupisce: lui stesso giocava con la sua immagine, indossava maschere e appariva sovente come un gaudente e indolente conservatore, benché fosse un inquieto tendente alla depressione, artisticamente rivoluzionario ai limiti del visionario. Lui stesso è stato salutato nei modi più diversi, dissacratore, esuberante, vitalistico, con un successo globale straordinario, eppure in tante occasioni incompreso (il repentino oblio di un capolavoro come Ermione già subito dopo il debutto), indi per molti aspetti della sua opera dimenticato. Oggi, ancora, tante leggende, tanti aneddoti, tanto della sua maschera sorridente rimangono assodati nell'immaginario comune. Tutti conoscono e amano Il barbiere di Siviglia, ma ancora troppi melomani ignorano la vastità dell'universo (non solo buffo e, anzi, tragico) rossiniano, o lo associano a un disimpegno ridanciano. E se la moda enogastronomica e culinaria odierna porta a riprendere l'immagine del Rossini gourmet non c'è alcun male: un'occasione, dopotutto, per unire due ambiti – musica e cibo – in eventi di sicuro impatto. Il guaio, senza negare il valore della cultura del cibo, è quando l'operazione finisce per calcare la mano sullo stereotipo e rinverdirlo, quando si rimane in superficie e si consegna, invece del modernissimo, complesso, contraddittorio ed enigmatico Gioachino, una caricatura da apporre sull'insegna di una trattoria, illudendo il pubblico che un'immagine sia l'essenza, che La Primavera di Botticelli sia solo un boschetto di aranci.

Molti, troppi si sono affannati a celebrare Rossini, ma con poca fantasia: menù a tema, Barbieri (e dintorni) d'ogni sorta e in ogni dove, anche a discapito della qualità, un'infinità di Petite Messe Solennelle e Stabat Mater (su tutti, a Bologna, in una serata di rara emozione, là dove lo diresse Donizetti per la prima volta in Italia (leggi), anche qui, con esiti i più vari.

Anche per Rossini, insomma, vale la maledizione delle celebrazioni in cui tutti si sentono in dovere di rendere un omaggio, anche senza vere idee, e si rischia un'indigestione di banalità. Ma anche questa può servire come stimolo per riprendere il cammino di una Renaissance che il 2018 ci ha ricordato non essere ancora finita; e il cambio della guardia imposto dall'alternarsi delle generazioni proprio in questo snodo affida a chi riceve il testimone nuove responsabilità. Un convegno a Pesaro, nel giugno 2017 (leggi), ha aiutato a fare il punto su quanto si possa ancora scoprire studiando la recezione di Rossini nel mondo, nella critica coeva, nell'opera dei suoi contemporanei, in omaggi e imitazioni.

E le luci di occasioni preziose e raffinate non son mancate. La Scala, è vero, non ha proposto granché quanto a opera (nel 2017 La gazza ladra per il suo bicentenario, nel 2019 è tornata La Cenerentola, nulla nellla programmazione lirica del 2018), però ha ricordato nel modo migliore il rapporto fra Rossini e Verdi, prima (i concerti nell'autunno del '17 leggi, il CD uscito da pochissimo leggi) con la Messa per Rossini eseguita con gran spolvero artistico a realizzare l'utopistico omaggio voluto dal Bussetano al Pesarese, quindi con l'inserimento nell'Attila del 7 dicembre 2018 nelle battute che Rossini scrisse “sans permission” come introduzione pianistica (ma la scrittura si presta perfettamente alla traduzione per archi - leggi) del Terzetto eseguito nelle sue soirées musicales. Novara e Napoli hanno reso tributo anche al bicentenario di Mosé in Egitto [leggi Novara e Napoli], Venezia ha allestito una Semiramide con interpreti eccellenti [leggi]. Di Rossini serio o di Rossini meno frequentato, purtroppo, se ne continua a vedere troppo poco nei cartelloni, ma c'è chi ha volontà, intelligenza e spirito d'iniziativa per dimostrare che, invece, si può fare, e con grande successo. Anche la discografia fa la sua parte, e oltre alla citata Messa collettiva in memoriam voluta da Verdi (e qui diretta da Chailly) val la pena di ricordare l'intelligenza di due tenori: Javier Camarena per la Decca incide un album dedicato non al solo Rossini, ma a uno dei suoi interpreti più significativi, Manuel Garçia [leggi]; d'altro canto, Maxim Mironov propone per Illiria un raffinatissimo CD con arie da camera accompagnate da un pianoforte Pleyel simile a quello posseduto da Gioachino a Parigi e affidato alla maestria di Richard Barker [leggi]. Non va dimenticato, poi, il compimento dell'impresa di Alessandro Marangoni, con l'integrale del péchés de vieillesse [leggi]

E, poi, c'è Pesaro, che nel 2018 con un Ricciardo e Zoraide [leggi] tanto ben risolto musicalmente quanto pacchiano e confusionario teatralmente (regia di Marshall Pinkosky) ci ricorda che tanto si è fatto per riscoprire l'avanguardia insita della drammaturgia musicale rossiniana, ma tanto c'è ancora da fare. Parallelamente, però, ci propone finalmente un Barbiere di Siviglia impeccabile: divertente, sofisticato, egualmente bello da vedere e da ascoltare, ricco di dettagli freschi e profondi [leggi]. Ecco che il Festival ci racconta come si debba scoprire il meno noto, ma che anche il celebre e l'abusato possa rivelarsi nuovo e inedito, e che sia nostro dovere continuare a ricercare e riscoprire. Il Rossini Opera Festival ci aveva regalato negli ultimi anni memorabili edizioni della Gazza ladra, di Sigismondo, di Mosé in Egitto, di Ciro in Babilonia, di Guillaume Tell [leggi]: mai, in quarant'anni, un Barbiere che non facesse storcere il naso. Nel 2018 è successo, e sembra quasi un monito e un auspicio: il lavoro del Festival e della Fondazione Rossini non si esaurisce nel ritrovare musica che gli anni avevano nascosto; la prima in tempi moderni non è un punto di arrivo, ma di partenza.

Centocinquanta anni fa Rossini è morto, sì, ma da allora sappiamo che è immortale nella sua arte, che continua a proporci enigmi e sfide.