Elettra, l’hapax mozartiano

 di Beatrice Generali

In un'epoca in cui la compostezza metastasiana si va sempre più sfumando nel turbinio di venti innovatori, Mozart, nel suo Idomeneo, plasma la figura di Elettra rinnovando la forza tragica dell'eroina sofoclea. 

Nell'opera Idomeneo re di Creta, Mozart si impegna alquanto nel ripescare dall'antico passato ellenico figure temi motivi e meccanismi che contribuiscono a rinnovare e revitalizzare gli schemi dell'opera seria che si stanno ormai del tutto esaurendo; e oramai si sarebbe di certo scommesso tutto sulle clamorose riuscite risultanti dal successo del pubblico nei confronti dell'opera giocosa e del dramma musicale ispirato più alle commedie teatrali che ai soggetti metastasiani. Ma il prodigioso, inestinguibile fuoco innovatore di Wolfgang Amadeus non conosceva ostacoli, non prevedeva piattezza né il rischio di non trovarsi sulla bocca di tutti. Il suo background mitologico, nel rifarsi tramite Giambattista Varesco al libretto di Antoine Danchet per una tragédie-lyrique di André Campra, riprende il mito di Elettra e della sua insanguinata vicenda familiare, ma non ne fa il centro della trama del libretto, anzi. Contrariamente alle aspettative, l'Elettra personaggio che canta, voce soprano, lungo la vicenda non ricopre affatto il ruolo del protagonista, e ne diventa addirittura la figura d'intralcio, la spina nel fianco; se di antagonista crudele non si può parlare, almeno la si può definire un determinato e ostinato rivale. Ma questo poco ci distoglie, e ancor meno va a scalfire la portata e il carico di dignità e rispetto che si è guadagnata se si è a conoscenza delle tragedie che l'hanno vista indomita vendicatrice, solitaria paladina. Elettra è un personaggio unico in tutto il teatro mozartiano, una furia interamente trascinata alla sua passione amorosa non corrisposta, tratteggiata da un virtuosismo vocale che annuncia quello della Regina della Notte, la sua discendente in Mozart, benché il fuoco che arde in Elettra si tramuti, nella seconda, in ghiaccio. Mozart le assegna tre arie, ma è con la terza ed ultima, "D'Oreste, d'Aiace", che si resta agghiacciati dall'epifania mostruosa del suo vero carattere, che era rimasto dissimulato dal primo atto: l’aria ricorda l’agitazione convulsa e il senso di tragicità ineluttabile vissuta sulla scena sofoclea.

Il tutto è agitato dalle traboccanti correnti di arpeggi spezzati degli archi, dall’irruenza dell’orchestra, dalla sonorità delle trombe e dei timpani al limite del frastornante. Le furie e i demoni che l'oracolo di Nettuno aveva appena esorcizzati si sono ora impadroniti della sua anima; e, tuttavia, la sua desolazione, vivacemente evocata dagli echi dei legni, ha qualcosa di autenticamente struggente. Gli spasmi e le minacce di violenza di Elettra si manifestano sempre in Do minore, simbolica tonalità del dolore esiziale, seguiti dalla voce soprannaturale; e seguendo lo schema del ribaltamento (περιπέτεια, peripezia) della tragedia classica, la sua aria di sortita, "Tutte nel cor vi sento", è preceduta dall’Oracolo; è naturale quindi che il rovesciamento di fortuna della malcapitata eroina sia poi rappresentato anche da un analogo capovolgimento avverso della serie di eventi. Lo squarcio declamato da Elettra inizia con l’icastica e tagliente frase: “D’Oreste, d’Ajace ho in seno i tormenti”. Ed è come se l’Elettra di Sofocle, trasportata sul lido di Creta, e circondata non più dalla funestata dimora regale teatro di indicibili crimini, ma da un diverso entourage, fuggita da quell’asfittica reggia disgraziata, continuasse a far risuonare la propria voce. Il dramma scaturisce dalle parole che aspre, audaci, e non solo: l’orchestra gioca una propria parte indipendente con i suoi motivi e le sue combinazioni timbriche; le due arie hanno in comune non solamente il ricco organico comprendente anche trombe, timpani e quattro corni, ma anche il caratteristico suono delle viole.

Questo breve squarcio declamato è concitatissimo, pieno di arpeggi spezzati e tremoli violinistici, caricato dalla sonora irruenza di trombe e timpani. Anche questa aria del terzo atto, come la prima, si presenta in forma bipartita e perciò speculare a quella del primo atto. Si ripete, raccapricciante, l’immagine delle Furie che lacerano il petto e il cuore dell’invasata donna che ormai rievoca qualcosa di ancor più truce delle Erinni, come una Gorgone mortifera, intenta com’è a implorare serpi cornute e altre striscianti viperidi creature. Elettra così proiettata visivamente, verbalmente e acusticamente, risulta il fulcro dell’invenzione, affrontata con tutte le gradazioni della “crisi espressionista”: vocalità martellata, scale ascendenti e acute cosparse di cocci aguzzi; e, nientemeno, procura un effetto bieco, di musicalità quasi sgarbata quando nelle scale discendenti puntate dei due ultimi vocalizzi (sull’ultima “a” di “in me finirà”), Elettra esplode in una specie di risata satanica, suscitando in chi ascolta la netta impressione di un raptus di isterismo esacerbato. Mozart gratifica e nobilita per mezzo della musica fiammeggiante la natura profondamente demoniaca manifestata nel furore più torvo di una novella Aiace, pronta a darsi la morte nel solco della tradizione sofoclea. Quest’Aria, infatti, che ben funge da prototipo di linguaggio mozartiano, si immerge nella caratterizzazione dei personaggi, riproduce lo stato affettivo di Elettra, ha il pregio e il dono di catturare e ricreare i moti dei sentimenti. Alla musica, non meno che alle parole del libretto, è attribuita una funzione peculiarmente mimetica, letteralmente “illustrativa”: si mette in atto un meccanismo di amalgama tale che la melodia non si limita ad accompagnare il testo, sorreggendolo sulla propria onda di vibrazione, ma acquista il potere di dipingere con più o meno colore, sgargiante o altro, ciò che è stato disegnato a grandi tratti dal librettista; e di conseguenza, la melodia stessa ridona vita anche al personaggio che già aveva preso parte alla prima tragedia. Questa Elettra, fatta calare immanente in versione operistica, sebbene estrapolata dal suo iniziale e natio contesto, conserva la memoria stillante dolore e rancore di suo fratello, col quale condivise lutti, perdite, umiliazioni, privazioni, calamità e contraccolpi inclementi dal fato