L’Ape musicale

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La provincia, che forza!

di Antonino Trotta

Uno sguardo sul mondo sempre più stimolante e vivace della provincia italiana: luogo di spettacoli spesso tutt'altro che minori. Anche gli scivoloni, d'altra parte, non dipendono tanto dai mezzi a disposizione, quanto dalle idee e dalla fiducia nell'opera e nel pubblico, che non costano nulla e possono schiudere le porte a bellissime sorprese.

Tanto cervello, cuor di un ruggente leone e occhi di falco: se oggi si dovessero individuare le colonne portanti dell’attuale teatro “di provincia”, competenza e audacia, stemperate quindi con una provvidenziale dose di lungimiranza, sono gli ingredienti vincenti di un successo che giammai depone sugli allori le istituzioni interessate, piuttosto le stimola in un percorso di crescita famelico, talvolta insaziabile. Del resto basta farsi un giro a Piacenza, Novara, Como, Pavia, Parma – queste le mete accarezzate da chi scrive nel corso dell’anno, a cui si aggiungono le testimonianze degli altri corrispondenti a Brescia, Salerno, Trapani, Catania, Verona – per rendersi meglio conto dell’oasi lirica che la provincia si rivela spesso essere.

Se della qualità della provincia vogliamo parlare, come non guardare con profonda invidia all’Emilia-Romagna, già assai fortunata per il superbo Comunale di Bologna e il seducente Festival Verdi di Parma, paradiso dove si mangia – cosa imprescindibile per i trasfertisti d’opera – e si ascolta benissimo praticamente ovunque. Nell’Emilia felix la provincia si unisce in un circuito periferico che è probabilmente il più interessante a livello nazionale: si rispolverano con audacia titoloni caduti in disuso, si preparano con cura i piatti tradizionali, si scelgono con lungimiranza i cantanti, scoprendo a volte risorse preziosissime da allevare e lanciare in pompa magna sul mercato internazionale. E proprio nella provincia emiliana quest’anno abbiamo goduto di una Forza del destino superlativa: una grande opera che necessita di grandi voci e grandi interpreti e al Municipale di Piacenza, in prima linea per questa produzione, c’era tutto. Quest’ultimo, meravigliosa creatura del direttore artistico Cristina Ferrari, è un piccolo gioiellino che ci ha permesso di assistere a importanti debutti: la Leonora di Anna Pirozzi, la Maddalena di Coigny di Saioa Hernandez, un assaggio dell’Otello di Francesco Meli e, a breve, il primo Falstaff di Luca Salsi.

Non meno accattivante della ridente comunità padana e forse in parte limitato dalla brevità della stagione – concentrata praticamente in un terzo dell’anno –, anche la rete di OperaLombardia ha riservato dolci sorprese. Assolutamente encomiabile, ad esempio, è stato il dittico L’heure espagnole/Gianni Schicchi (recensito a Pavia e Brescia) per la garbatezza con cui l’opera di Ravel è stata messa in scena e accostata all’arcinoto atto unico di Puccini, sapientemente riletto in chiave sorniona e moderna. Infine, ancor limitatamente all’esperienza dello scrivente, è doveroso menzionale il piccolo ma combattivo Teatro Coccia di Novara. A metà tra il Regio di Torino e La Scala di Milano, l’unico teatro di tradizione del Piemonte affronta in maniera solitaria la corsa nell’agone operistico italiano. Tante buone intenzioni, a fronte dei pochi mezzi economici a disposizione, gli sono valse più di una visita nel corso dell’anno: l’Ernani che ha inaugurato la stagione ha superato ogni pronostico grazie a un cast selezionato con somma attenzione e anche se il debutto italiano del sopranone ungherese Klára Kolonits ha in parte disatteso le aspettative, siamo comunque più che grati per l’incontro ravvicinato con quest’artista altrimenti raggiungibile solo a mezzo di YouTube.

Certo, anche l’amena provincia qualche volta fa il passo più lungo della gamba. Riesce ancora difficile, a distanza di mesi, riuscire a digerire quel Guglielmo Tell del circuito lombardo in un allestimento che sta bene con il Guillaume Tell di Rossini come il Parmigiano Reggiano sugli spaghetti alle vongole. O ancora il Serse emiliano, ben suonato ma anch’esso straziato dai tagli – però le arie c’erano tutte! – e messo in scena nella totale assenza di idee. Almeno un paio in redazione l’hanno visto, nessuno ha avuto il coraggio di riferirne. Quale fosse il problema in queste circostanze, è difficile dirlo. Forse è mancata solo fiducia nel pubblico che in fondo non è diverso da quello della Scala, della Fenice, del Massimo di Palermo, del Regio di Torino, del San Carlo, del Comunale di Bologna o dell’Opera di Roma.

Pubblico che qui nella provincia operistica è sempre presente, attivo, entusiasta, perché il teatro di provincia è innanzitutto una necessità: può il corpo umano funzionare con i soli organi principali, lasciando denutriti i restanti tessuti? Il melodramma ci scorre nelle vene e perchè questa linfa vitale, nonché liquido amniotico della cultura e della civiltà italiana, possa irrorare ogni parte della penisola, occorre un sistema circolatorio che possa soddisfare il fabbisogno di tutta la nazione. La provincia è la culla delle stelle di domani, il rifugio di quelle di oggi, insomma un meccanismo in continuo fermento che vale la pena riconoscere, seguire e valorizzare.


 

 

 
 
 

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