L'arte, la polis, la memoria

di Roberta Pedrotti

Il Requiem di Donizetti al cimitero monumentale di Bergamo alla presenza del Presidente Mattarella e dei sindaci della provincia orobica, trasmesso in diretta da Rai1, è un momento fondamentale nell'elaborazione dei lutti e la riflessione sulla pandemia e le sue conseguenze. È quello vissuto la sera del 28 giugno, in definitiva, il senso dell'arte come espressione della civiltà, dell'essere umano in quanto parte della comunità, "animale politico" nel senso più alto del termine. 

Non è un concerto. È uno di quei momenti in cui l'arte è espressione di civiltà e di comunità, esprime i grandi momenti della storia. La musica ha accompagnato il crollo del Muro di Berlino con Rostropovich e Bernstein, in Italia la Liberazione è stata celebrata con la riapertura della Scala con Toscanini. Eventi in cui la dimensione del concerto trascende a valori più alti, assoluti. 

Anche questa sera, a Bergamo, non si è trattato semplicemente di un concerto. Sarebbe facile, banale, riduttivo parlare di un concerto e magari soppesare questo o quel dettaglio dell'interpretazione, questa o quella scelta esecutiva, la resa di un passaggio. Il Requiem di Donizetti, però, non è stato semplicemente una partitura da suonare e cantare bene e con sentimento: è stata l'essenza dell'arte in cui stringerci in un pensiero comune, in quell'elaborazione del lutto che nella furia della pandemia non aveva potuto essere metabolizzato. Le note consacrate da Donizetti al cordoglio risuonano nel cimitero della sua città, uno degli epicentri di una tragedia che sta scuotendo tutto il mondo e risuonano per tutti coloro che sono scomparsi, spesso in solitudine, per chi ha perso una persona cara senza poterle stare accanto e senza accompagnarla nell'ultimo viaggio, per tutti noi che siamo toccati comunque, anche se non direttamente, in quanto esseri umani. «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», Sono un essere umano, nulla di ciò che è umano mi è estraneo, scrive Terenzio nel Punitor di se stesso. Oppure, fa cantare Rossini sui versi di Gaetano Rossi, «È dolce al misero che oppresso geme il duol dividere, piangere insieme, in cor sensibile trovar pietà».

A questo serve l'arte, l'arte musicale, quella tracciata da esseri umani sulla carta perché mille e mille volte nel tempo altri esseri umani la facciano vivere nel presente per altri esseri umani. Espressione di civiltà e di comunità, esperienza condivisa e collettiva perché il terrore e la pietà di purifichino, si elaborino, si risolvano. Ha detto, bene, il bergamasco Francesco Micheli, direttore artistico di Donizetti Opera, quando ha parlato di un rapporto ancora sospeso con la tragedia, di fantasmi ancora presenti da non dimenticare, ma da lasciar andare. Poi, a fine serata, ha tradito la commozione nel nominare il cugino e l'amica portati via dal virus e anche lì ha raccontato il senso di questa serata: non si può far finta di nulla, non si può voltar pagina, scordare o ridimensionare la tragedia. No, bisogna elaborarla, far sì che anche questo dolore resti parte della nostra memoria, ma di una memoria consapevole, risolta, non una tabe ignorata che imputridisce nell'ombra. Solo così si potrà davvero andare avanti, perché andare avanti è lo scopo di ogni elaborazione ed è lo scopo, ben spiegato con le parole e i fatti, di questa serata.

Vedere quei musicisti dare vita alle note di Donizetti sulla morte, per la pace dei morti e dei vivi, vederli con le mascherine tolte solo di rado - e solo per i solisti e il direttore distanziati in prima fila, per chi, fra pareti di plexiglas, deve poggiare le labbra su un'ancia o un bocchino - ci ricorda che la tragedia non si cancella. Che se la situazione ora appare più tranquilla è per i sacrifici fatti negli scorsi mesi, è dopo immani sofferenze e perdite. Quelle mascherine ci ricordano che quegli uomini e quelle donne che cantano ora lì all'ingresso del cimitero monumentale di Bergamo, davanti al presidente della Repubblica e ai sindaci della provincia (primus inter pares, ovviamente, il capoluogo con Giorgio Gori, promotore dell'evento con il festival donizettiano), hanno visto morire parenti e amici, si sono anche ammalati loro stessi, hanno passato giornate scandite da sirene d'ambulanze e campane a morto, hanno visto le carovane di mezzi militari che trasportavo le bare, le troppe bare. Quelle mascherine ci ricordano che l'arte supera ogni ostacolo per parlarci di umanità, che non è poi un sacrificio così grande indossarne una e seguire le indicazioni per tutelare la salute propria e altrui, ci ricordano che mentre salutiamo questi morti non li dimentichiamo e non voltiamo pagina come se in questi mesi non fosse accaduto molto e non ci fosse ancora in circolo un virus per cui stiamo aspettando il vaccino. Ci dicono di guardare avanti, ripartire senza cancellare ciò che abbiamo alle spalle. Ci dicono che l'arte, come espressione di civiltà e comunità, è lì, ma non possiamo scherzare, non possiamo rischiare. 

La pietà, il terrore, la speranza, l'angoscia che permeano il testo latino vanno ben oltre la sua origine religiosa, la musica di Donizetti li illumina con una delicatezza intima e un'intensità che sembrano vibrare per simpatia, a distanza di quasi due secoli, con il nostro sentimento odierno, con un bisogno di conforto e introspezione che ci accompagnino nell'immensità degli eventi. E difficile sarebbe immaginare un'esecuzione più ispirata di quella degli artisti con la mascherina, sia che la indossino per tutta la serata, sia che possano sfilarla. Basterebbe l'espressione di Riccardo Frizza, che il covid l'ha contratto in prima persona, o quella di Alex Esposito, così toccante nell'incarnare il dolore della sua città natale e di tutta Italia, e di tutto il mondo. Così Eleonora Buratto, Annalisa Stroppa, Piero Pretti ,Federico Benetti non solo solo grandi cantanti (e lo sono), sono veri, sono parte viva di questa riflessione collettiva, di questo lutto condiviso, sono arte politica nel senso più alto del termine. E Francesco Micheli, conosciamo come regista, come operatore culturale estroverso e comunicativo, ma qui è l'uomo, l'uomo che, sulle note dell'introduzione al Requiem composta da un maestro di cappella napoletano, legge l'Addio ai monti dai Promessi sposi. Con Donizetti, Manzoni: i grandi musicisti e i grandi letterati questa sera sono non oggetto di studio, ma compendio di civiltà. Le parole con cui Lucia salutava il paese natìo rivivono per tutti gli addii riecheggiati nel dolore fra le montagne lombarde come nelle città, nelle campagne, sulle coste d'ogni paese toccato dalla pandemia, nelle immagini trasmesse della città di Bergamo, dei territori circostanti, della natura, degli operatori sanitari, dei volontari, ma anche di paesi lontani, di popoli diversi uniti nel dolore e nella speranza.

Abbiamo toccato con mano come in tempi sereni si sprechi retorica su arte e anima, espressione ed emozione, ma sia nei momenti cruciali che i valori autentici vengono alla luce. Abbiamo toccato con mano il valore simbolico degli apparati istituzionali, sella rappresentanza, dello Stato, soprattutto grazie al Presidente Mattarella, al suo rigore, alla sua intelligenza, al suo garbo, al suo senso di responsabilità e alla sua sensibilità. Lui e tutte le fasce tricolori dei sindaci della provincia di Bergamo, a rappresentare tutti i loro concittadini ma anche tutte le comunità ferite dalla pandemia, ci hanno ricordato quale sia il senso del consorzio umano, perché l'uomo civile sia un "animale politico" e perché questo aggettivo sia in realtà bellissimo, ripulito di ogni deriva e ogni qualunquismo, ricondotto alla sua radice originaria.

Questa sera, a Bergamo, non si è trattato semplicemente di un concerto. Questa sera a Bergamo abbiamo vissuto la ragione più vera e profonda per cui l'uomo fa quella cosa inutile, priva di scopo materiale e concreto che è l'arte. 

foto Gianfranco Rota