Il fascino indiscreto del feuilleton
di Roberta Pedrotti
Una buona compagnia di canto porta al successo l'opera di Ponchielli, prontuario perfetto dell'immaginario melodrammatico, ma anche emblema delle ambizioni e delle inquietudini artistiche della generazione postunitaria cresciuta all'ombra di Verdi.
CREMONA, 6 novembre 2022 - Difficile trovare qualcuno che non abbia mai sentito, almeno per caso, la Danza delle ore. Per i melomani, poi, “Cielo e mar”, “Suicidio!”, “Stella del marinar”, “Voce di donna, o d'angelo”, “O monumento”, “L'amo come il fulgor del creato”, per fare solo alcuni esempi, sono dizionario pressoché quotidiano. Per non parlare del soprano e del mezzosoprano rivali in amore, del tenore proscritto che pasticcia con le sue amanti, del baritono concupiscente, del basso minaccioso, dell'anziana madre pia e delle masse volubili e festaiole. Eppure, La Gioconda non è più un'opera di repertorio, anzi, quando riappare in un cartellone si parla di coraggio o di pizzico di nostalgia vintage, a seconda dei casi.
In effetti, parte del suo fascino oggi risiede nel gusto del feuilleton, del romanzone melodrammatico e avventuroso con i suoi stereotipi, le sue ingenuità, i suoi estremi. È lo stesso richiamo che può farci fermare, nello zapping estivo, sull'ennesima replica della saga di Angelica, la marchesa degli angeli. Siamo sicuri, però, che sia tutto qui?
Non lo era sicuramente per Boito e Ponchielli. Trentatré e quarant'anni rispettivamente, quando debutta La Gioconda (8 aprile 1875): non due ragazzini, ma due uomini nel pieno della loro maturità e delle loro energie, costretti a fare i conti con il loro esser eredi della generazione che ha fatto l'unità d'Italia, della generazione artisticamente dominata dalla personalità di Giuseppe Verdi. Arrigo scalpita, è chiaro, anche perché reduce dal fiasco del primo Mefistofele e alle prese con la stesura della seconda versione (a proposito, nella musica della Gioconda c'è più di qualche suggestione in comune), con la figura di Barnaba continua a elaborare l'idea del suo demonio che poi diverrà Jago. Sperimenta, osa, estremizza. Amilcare va più cauto: il suo modello è Verdi, di cui però non possiede la profondità e l'energia, per cui la direzione naturale sembra quella di una melodia inturgidita e di un interesse soprattutto per il tardo grand-opéra e le sue propaggini. Ecco dunque che nella Gioconda convivono molte anime, compresse in quadri d'effetto, stereotipi e ambizioni, che il pubblico è allettato con abilità, ma si richiede pure un parterre vocale di primissimo livello con un esponente per ogni registro. Gioia per i melomani, patimenti per le direzioni artistiche, rovelli estetici e guilty pleasure.
Alla fine La Gioconda sembra destinata ad aver successo più nell'iniziativa della provincia che nel blasone delle Fondazioni, sebbene alla Scala si sia vista in realtà da pochissimo. Questa volta si tratta di una coproduzione fra i teatri di tradizione di OperaLombardia e Fondazione Arena (che dopo tante mitiche recite nell'anfiteatro ha appena portato così il titolo al Filarmonico, come ci ha ben raccontato Irina Sorokina: Verona, La Gioconda, 23/10/2022). Il primo passaggio fuori dal Veneto non poteva che essere nella città natale e nel teatro eponimo del compositore: Cremona, Teatro Ponchielli, dove il pubblico è numeroso e caloroso (ma, ahinoi, anche parecchio rumoroso e indisciplinato: chiacchiere ad alta voce, passeggiate in platea, squilli di cellulare e disturbi vari non si contano).
Sul podio avrebbe dovuto esserci Gianpaolo Bisanti, ma un'indisposizione durante le prove lo ha costretto a cedere il testimone a Francesco Ommassini che, forte della frequentazione con i complessi areniani, conduce in porto la recita con sicurezza. Anche la regia di Filippo Tonon funziona adeguatamente e, una volta traslata l'azione nel secondo Ottocento (operazione meramente estetica più che drammaturgica), cura rassicurante l'adesione alla didascalia. Il punto dolente riguarda però la Danza delle ore e getta sale sulla ferita delle traversie del corpo di ballo areniano (come di molte formazioni tersicoree italiane): anche ammettendo la difficoltà di portare in turnée una danza complessa con grande organico, è davvero triste che da una Fondazione con una storia gloriosa in questo senso arrivino tre danzatrici in difficoltà di coordinamento reciproco (Balletto di Roma) in una coreografia che dire rinunciataria è poco (perfino il can-can finale era praticamente immobile) a firma di Valerio Longo.
Tutto bene, invece, sul piano del canto sia da parte dei cori di adulti – impegnatissimo sulla scena e molto più efficace nei movimenti coreutici delle tre ballerine – e di voci bianche, provenienti da Verona come l'orchestra, sia da parte dei solisti. Rebeka Lokar mostra un'ammirevole tenuta nella parte massacrante della protagonista, che risolve senza mai forzare e perdere di vista la dolcezza dell'emissione, anche nei momenti più focosi. Ciò a tutto vantaggio del duetto delle rivali, in buon equilibrio con la Laura parimenti appassionata ma sempre ben controllata di Cristina Melis (piace che nella preghiera si senta il profumo del senso di colpa). Nei panni della Cieca abbiamo poi un'autentica specialista della parte come Agostina Smimmero, che alla voce calda, omogenea, opulenta unisce una musicalità sensibile e intensa. Sul versante maschile non può che essere il tenore a imporsi all'attenzione, essendo Angelo Villari nel suo repertorio d'elezione, in cui ha buon gioco nell'esibire la vocalità robusta, il timbro virile, l'accento deciso. Degno di lode anche Angelo Veccia, che evita in ogni modo il cliché del bieco vilain: sceglie la via della sottrazione e del gelo e gliene siamo grati. Gelido è anche, giustamente, l'Alvise Badoero di Simon Lim, autorevole, sinistro e inesorabile come si conviene. Fra i numerosi comprimari (Alessandro Abis, Francesco Azzolini, Maurizio Pantò, Nicolò Rigano, Dario Righetti, Jacopo Bianchini) si segnala l'ottimo Isepo di Francesco Pittari, a ricordarci che la gloriosa tradizione di queste parti di fianco non è spento.
Sarà pure un piacere proibito, avrà pure le sue ingenuità, ma fa parte del nostro dna melomane e poi, in fondo, come testimone del suo tempo, La Gioconda può perfino farci riflettere.