Tradizione con sorpresa

di Luigi Raso

La stagione lirica del Verdi di Salerno si apre e celebra l'anno pucciniano con un'appassionata Bohème che vede protagonisti Mariangela Sicilia e Giovanni Sala con la direzione attenta - ma non priva di imprecisioni - di Daniel Oren e la regia tradizionale - ma con una discutibile trovata finale - di Plamen Kartaloff.

SALERNO, 26 aprile 2024 - Nell’anno in cui il mondo dell’opera celebra il primo centenario della scomparsa di Giacomo Puccini (il prossimo 29 novembre) il Teatro Giuseppe Verdi di Salerno sceglie di inaugurare la stagione lirica, di balletto e di concerti 2024 con La bohème. È una produzione che può vantare vari punti di interesse, a cominciare dalla direzione di Daniel Oren, direttore artistico al Verdi, e dalla presenza di Mariangela Sicilia nei panni della sartina Mimì, fresca di debutto, con annesso successo personale, al Teatro alla Scala come Magda della Rondine pucciniana; e dalla medesima produzione scaligera proviene anche Giovanni Sala, poeta Prunier a Milano, poeta Rodolfo a Salerno.

Daniel Oren dirige da par suo: grande attenzione al rapporto tra orchestra e cantanti; malgrado qualche insolita imprecisione (soprattutto nel Quadro II) fra buca e palco, quella di Oren è una concertazione che procede fluida, perfettamente aderente allo sviluppo drammatico delle vicende di amore, gelosia, inesorabile scorrere del tempo e morte degli squattrinati bohémiens parigini.

Il direttore appresta per gli interpreti sempre un adeguato tappeto sonoro sul quale possono adagiare la voce. Encomiabile e da ricordare, giusto per citare un esempio, è la preparazione orchestrale che precede “Ma quando vien lo sgelo”. Giusta tensione e coesione drammatica, che, unita a bei colori strumentali e passionalità, forniscono una lettura convincente e, soprattutto nel Quadro III, avvincente e travolgente, malgrado alcune “incomprensioni” tra buca e palcoscenico.

Buona nel complesso la resa dell’Orchestra Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno che risponde con ricchezza di colori e con buona articolazione interna al gesto imperioso e “sonoro” di Oren. Accettabile, seppur con alcune ruvidezze e imprecisioni da smussare (carrettieri, lattivendole e spazzini del Quadro III), la prova del Coro del Teatro dell’Opera di Salerno istruito da Francesco Aliberti. Bello il colore, buona la compattezza e lodevole l’entusiasmo del Coro di voci bianche del Teatro Giuseppe Verdi guidato da Silvana Noschese.

Il cast vocale è dominato da Mariangela Sicilia, la quale dopo La bohème bolognese del 2018 diretta da Michele Mariotti e firmata per la regia dal compianto Graham Vick ( leggi la recensione) può dirsi a buon diritto una delle Mimì di riferimento dei nostri giorni. E a Salerno sfoggia una linea vocale raffinata e tornita, bel timbro, ottima proiezione e volume, forse, per le ridotte dimensioni del Teatro Verdi, tendenzialmente fin troppo poderoso; ad ogni modo, l’ottima tecnica le consente di alleggerire l’emissione, di sfoggiare un buon legato e di cesellare con attenzione le frasi in “Donde lieta uscì”. La sua Mimì cresce nel corso della serata: se nel Quadro I Mariangela Sicilia appare più attenta ad essere corretta e precisa, nel III Quadro dà corpo, ma soprattutto anima, ad una donna innamorata, fragile e minata nella salute. È, poi, quasi evanescente, votata ad una consapevole fine nello straziante ultimo Quadro.

La Musetta di Sabina Puértolas si impone più per la presenza scenica e le buone doti di attrice che per l’organizzazione vocale, affetta da un timbro invero alquanto aspro e una linea di canto che tende a rendere striduli e prosciugati i suoni nel registro acuto; il valzer è risolto con professionalità grazie alle sue qualità sceniche.

Giovanni Sala dà a Rodoldo un timbro suggestivo per bellezza, dizione scolpita e linea vocale corretta. Anche la sua prestazione è in crescendo: appare preciso ma abbastanza intimorito in “Che gelida manina”, pur affrontata con vocalità generosa e ampia. In relazione alla ridotta cubatura del Teatro Verdi di Salerno, la vocalità di Sala ha il giusto peso specifico: probabilmente in una sala più ampia, il suo attuale assetto vocale, in Rodolfo, soffrirebbe un po’, ma qui al Verdi la voce “viaggia” bene e risulta omogenea. Nel Quadro III, ad avviso di chi scrive, abbiamo il migliore momento del suo raffinato e convincente Rodolfo.

Non risulta purtroppo nel complesso precisa la linea di canto del Marcello di Mario Cassi, affetta anche da una fonazione talora troppo forzata e un’emissione alquanto monolitica, poco incline ad assottigliamenti; la figura del simpatico pittore è comunque nel complesso delineata discretamente grazie alla appropriata presenza scenica.

Convincente, preciso e dal bel colore vocale è Biagio Pizzuti come Schaunard.

Qualche cavernosità di troppo, invece, si riscontra nella linea vocale, non sempre esente da imprecisioni, del Colline di Carlo Striuli, nel complesso affidabile professionista di stanza al Teatro Verdi di Salerno.

Angelo Nardinocchi è raffinato e abile cantante-attore caratterista nella duplice veste di Benoît e Alcindoro. Eccellenti e ben inserite nello spettacolo le parti secondarie, a cominciare dal Parpignol di Paolo Gloriante, per poi proseguire con il Sergente dei doganieri di Antonio Cappetta e il Doganiere di Alessandro Menduto.

Infine, improntato a una narrazione che ripercorre sostanzialmente la drammaturgia dell’opera di Illica, Giacosa e Puccini è lo spettacolo firmato per la regia da Plamen Kartaloff, sovrintendente del Teatro dell’Opera Nazionale di Sofia e reduce dal recente successo al Verdi di Salerno in Aida (leggi la recensione ).

Grazie alle scene al tempo stesso realistiche ed evocative, costruite con la consueta cura artigiana e i bei costumi - il tutto firmato dall’esperto Alfredo Troisi - l’azione è spostata nella Parigi liberty (chiaro indice la tettoia in stile floreale del Café Momus); Plamen Kartaloff racconta, attraverso movimenti scenici curati e ben calibrati in relazione al ridotto spazio del palcoscenico del teatro Verdi, il naufragio di sogni e illusioni di una generazione di idealisti, divorati dall’inesorabile scorrere dal tempo.

Lo spettacolo procede fluido, coerente sino all’anodino finale: sugli ultimi strazianti accordi della Bohème, si assiste a una repentina quanto inverosimile “resurrezione” di Mimì: la ragazza si alza dal proprio capezzale e con passo svelto afferra la candela, risale per la scala che l’aveva vista entrare al Quadro I e guadagna rapidamente l’uscita. Un percorso au contraire per chiudere la perfetta circolarità della Bohème? Un’allusione alla circolarità e alla fugacità della vita? Mah..

La trovata, vanificando l’intensa drammaticità musicale delle ultime battute della Bohème, lascia francamente molto perplessi, anche perché non consequenzialecon l’impostazione teatrale, coerente e aderente alla drammaturgia originaria, seguita dal regista.

Al termine la sala del Verdi tributa un successo convinto e prolungati applausi per tutti gli artefici di questo spettacolo, buon viatico per la stagione in corso che proseguirà, i prossimi 17 e 19 maggio, con l’attesa Italiana in Algeri.