L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Staatskapelle per tre bacchette

di Francesco Lora

Al Festival di Pasqua di Salisburgo, tre concerti sinfonici vedono la Staatskapelle di Dresda passare a giorni contigui dalla bacchetta di Christoph Eschenbach a quelle di Christian Thielemann e Mariss Jansons. In programma: Dvořák, Haydn, Mahler, Mendelssohn, Schubert e Weber.

SALISBURGO, 19-21 aprile 2019 – Per chi arriva al secondo dei due cicli di spettacoli, al Festival di Pasqua di Salisburgo e nel Festspielhaus, si ascolta tutto al completo ma in ordine inverso: si procede dal terzo al primo programma concertistico e si conclude con l’opera inaugurale. Il tradizionale concerto corale, già ascoltato il 16 aprile, tre giorni dopo va così a coincidere con il venerdì santo, e lì trova la sua perfetta ragion d’essere. In locandina v’è infatti lo Stabat mater di Dvořák: a guidarne le dieci stazioni musicali, ecco un Christoph Eschenbach cui basta una Staatskapelle di Dresda in organico non massimo, ma sollecitata alla filigrana luminosa, all’analisi tagliente, alla bellezza consolatrice; non esiste un’altra orchestra capace, come essa, di stendere sul piombo timbrico di questa partitura un impalpabile velo dorato, atto a prefigurare gli splendori della resurrezione. Gagliardo, anche senza essere italiano, il Coro della Radio Bavarese: precisione tedesca nel solfeggio, ma tanti colori derivati di pari passo dal florilegio etnico che forma la compagine; vi si colgono distintamente, per essere più chiari, le armoniche differenze di fonazione, timbrica e risonanza tra cantori teutonici, asiatici e latini, a vantaggio di un assieme sempre più prestante e variopinto. Discorso duplice, invece, intorno ai solisti: sono quattro cantanti di chiara dote e fama, che però camminano sulle uova lungo il temibile latino dvořákiano, con i suoi accenti spostati e valori imprevedibili. Il soprano Venera Gimadieva si para come una sfinge dietro l’impenetrabilità espressiva e una tecnica blindata; il contralto Elisabeth Kulman colpisce non solo per comunicativa canto ma anche per concentrazione di ascolto; il basso René Pape mostra sostanzioso registro centrale, freschezza messa alla prova dal parallelo Parsifal a Vienna, pronuncia deprecabilmente germanizzata del latino. Tra tutti, si impone il tenore Tomislav Mužek: vanta emissione libera, timbro sfolgorante, fragrante porgere; doti che garbano al vociologo quand’anche ai piedi della croce.

L’indomani, 20 aprile, un mezzo passo falso attende il padrone di casa, Christian Thielemann, direttore musicale della Staatskapelle, direttore artistico del festival e direttore prediletto dello scrivente. Mirabolante è lo sfarzo sonoro con il quale egli dà fuoco alle polveri dell’orchestra sàssone, nella Jubel-Ouvertüre di Weber che termina citando l’inno nazionale britannico e che – il contesto internazionale della rassegna ci mette la coda – sembra sarcasticamente ravvivare le ansie da Brexit. Memorabile è a sua volta la lettura del Concerto op. 64 di Mendelssohn, il cui come è prepotentemente determinato da Frank Peter Zimmermann, un violinista che quanto a spigliata brillantezza inebria come certi vini bricconi, ma che per bis serba la dotta Melodia di Bartók anziché la solita Ciaccona di Bach: questione di alto stile, qui in dose da vendere. Ma nella Sinfonia n. 9 di Schubert il gioco di Thielemann si fa inutilmente autolesivo. Al cospetto della “Grande” egli sembra investire tutto in un’accezione estrema del pericoloso soprannome: monumentalizza le sopraffine lunghezze e toglie loro vitalità nel negare direzione dinamica alle frasi, nell’indugiare dappertutto e oggettivamente sottotempo, nel tralasciare i destri di virtuosismo a portata diretta di Staatskapelle, e soprattutto nel seguitare a testa bassa il modello tanto venerabile quanto obsoleto dei Kapellmeister bayreuthiani di metà Novecento, da Joseph Keilberth a Hans Knappertsbusch a Clemens Krauss; pone in ostaggio dell’ossequio a un’idea ormai lontana la propria sterminata personalità di musicista. Il risultato è presto detto: il naturale caleidoscopio timbrico dell’orchestra precipita in un unico nucleo torvo, pesante, centripeto, monofonico, che di Schubert officia il rito ma non invera le commoventi intenzioni, e che induce la Staatskapelle ad accantonare la propria innata fulgida natura.

Dal velluto nero si torna alla seta dorata nel concerto del 14 e 21 aprile: memoria delle palme nella prima data, festa della pasqua nella seconda, in entrambe celebrazione di Mariss Jansons come vincitore del prestigioso premio intitolato a Herbert von Karajan. La festa si fa in grande, complice la Staatskapelle e auspice un programma che esalta il carisma del direttore lèttone tra due capi del repertorio: da una parte la Sinfonia n. 100 di Haydn, dall’altra la n. 4 di Mahler. Ed ecco, per entrambe, una lettura non esotica – Mahler e la compagine lo ammetterebbero – bensì ariosa, fiorita, spaziata, dove gli autori e la Staatskapelle godono qui la chiarezza espositiva e là la naturale attitudine. Un piccolo miracolo non passa inosservato: intorno a Jansons e alla Staatskapelle, e ai loro Haydn e Mahler affratellati, la sala del Festspielhaus accoglie omogeneamente le linee melodiche, lascia che si appoggino sui suoi spazi e che in essi risuonino e si completino. Si ammirano, nello Haydn di Jansons, l’illuminata giustezza dei tempi, la protensione dinamica delle frasi, la scuola dell’anziano maestro che combacia, spontaneamente, per somma ragione, con ciò che vorrebbero ascoltare gli orecchi di un filologo. Il medesimo orizzonte di levità olimpica e arguta eleganza risulta poi applicato a Mahler, e su di esso si staglia più straniante che mai la componente grottesca della partitura: intorno agiscono l’ispirazione edenica che estenua nella sua semplicità, e una profondità di discorso incapace di vano calligrafismo. Un ampio sorriso si apre nel pubblico quando, nel quarto movimento, viene ad aggiungersi il canto di Regula Mühlemann: emissione vaporosa, legato immacolato, porgere naturale ed elegante come in Jansons e nell’orchestra, forbitezza di musicista unita alla giovinezza della donna, prontezza a cavalcare con impeto l’ossessivo animarsi dell’accompagnamento. Voce, bacchetta e file di strumenti si fanno qui un pensiero solo e un unico raggiungimento; e in sala si finisce tutti in piedi a festeggiare, festeggiare, festeggiare.

foto Matthias Creutziger


 

 

 
 
 

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