L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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NOTE DI REGIA

Roberto Catalano

Buio. Una lampadina. La scena s’illumina lentamente. Si vede un letto. Sopra c’è un vecchio che respira a fatica. Vanno a poco a poco delineandosi i contorni di un luogo dove la vita finisce, o forse comincia. Un piccolo treno irrompe attraversando la stanza; il vecchio è incredulo: si mette seduto per vedere meglio. Decide. È un attimo. Si alza e corre dietro al treno, che intanto è già scomparso lasciando il posto a un luogo che, con suo grande stupore, si compone sotto i suoi occhi: è il bar dove gli amici aspettano ancora che arrivi il futuro. Ci sono i vecchi che dormono e i vecchi che sognano; c’è la meraviglia del gioco infinito che non si vuol lasciare andare, come la giovinezza, la spensieratezza; il poter dire che si può far tutto senza perdere niente.

Gli amici di Falstaff, i vecchi ladri che non crescono, sono tutti lì, abitanti di questo piccolo paese dei “balocchi impolverati”. Dalle finestre di questo posto in cui si beve e ci si stordisce di irrealtà, si può osservare il mondo dalla porta. Falstaff mostra gaio, ai vecchi amici, le belle donne che stanno dall’altra parte: si chiamano Alice e Meg; Falstaff, aprendo una delle porte di cui è circondata la stanza, le mostra mentre queste allenano il loro corpo di cui hanno morbosamente cura. Sono belle. Sono giovani. Loro la morte la tengono lontana. Falstaff invece non se ne cura. Lui ingrassa, gioca, beve e piega la realtà come meglio crede. Lo fanno anche i vecchi che sono con lui, vecchi che hanno sognato di diventare cavalieri, principi onesti e benefattori del popolo; e invece eccoli lì, con al fianco spade di legno e tutta una vita da rimpiangere. Falstaff li caccia via, perché nessuno di loro vuol consegnare le lettere d’amore da lui scritte per Meg e Alice. Eccolo inscenare una piccola guerra tra finti valorosi guerrieri, una guerra che di eroico ha ben poco e che è combattuta tra un tavolo da biliardo e qualche gioco sparso.

L’umanità che vive fuori da quel bar è diversa: “loro” siamo noi, organizzati secondo rigidi schemi morali, con un po’ di stupore in meno davanti agli occhi. Eccoci davanti a un muretto che nasconde un campo da tennis; di fronte a noi ci sono quattro sdraio con quattro donne, inorridite per ciò che è appena accaduto: Falstaff ha inviato due lettere identiche ad Alice e Meg, attentando al loro irreprensibile onore. Le donne sono agitate e discutono su quale reazione avere; gli uomini, intanto, giocano: la loro presenza la si percepisce solo per il movimento della pallina che va da una parte all’altra.

Si decide all’improvviso: Falstaff merita uno scherzo tale da fermare per sempre questa sua smania febbrile di giovinezza. Se Falstaff vuole giocare, le donne di Windsor giocano di conseguenza. Ma mentre le donne ridono, gli uomini si struggono e Ford, il marito di Alice, prende molto sul serio quanto è successo, al punto da travestirsi da “signor Fontana” per raggiungere Falstaff e, attraverso una serie di domande, verificare la fedeltà della moglie. Il vecchio viene quindi attirato in casa di Alice: lui si crede ancora bello e si adagia malamente, come una balena spiaggiata, sui nuovissimi divani di casa Ford; ma quest’ultimo giunge per ucciderlo e la casa viene messa a soqquadro. Alla fine Falstaff viene gettato dalla finestra, verso il letto di un fiume, in una cesta piena di panni sporchi. Tutta Windsor osserva come fosse una gigantesca famiglia davanti a un televisore. In scena, dall’altra parte di un piccolo sipario domestico, danno la “caduta” dell’uomo che ha osato giocare con loro. Ford osserva il vecchio precipitare, la sua gelosia si placa, ma il vecchio Falstaff, con gli occhi che guardano ancora il mondo senza accettarne del tutto le storture, non riesce a vedere mai la fine. E di quella vita che morde, ne vuole ancora... e ancora.

Siamo tornati su un letto. Siamo tornati a respirare a fatica. Un letto, ora precipitato su un cumulo di giocattoli da buttare. Falstaff sa che la fine è vicina. Il mondo intero lo ha relegato lì, nel solo posto dove è giusto che stia. Il piccolo treno attraversa la scena, questa volta sul tetto della stanza, e il vecchio ritrova la forza, si alza, si agita, e sente che forse c’è ancora qualcosa da fare. Le donne però, non si sono arrese, ed eccole lì, pronte a un nuovo scherzo, al gioco finale. Gli racconteranno una storia per spaventarlo, e così farlo pentire una volta e per tutte di aver messo in discussione il loro mondo moralmente perfetto.

Il vecchio mai cresciuto, precipiterà nell’ultimo grande gioco della sua vita. Perché il letto, quel letto dove si stava per morire, diventa gigantesco, e noi tutti ci finiamo dentro, su una coperta che riporta sul dorso tracce della grande quercia di Herne. Falstaff ne viene inghiottito, come in un sogno lucido, un incubo che però non spaventa più di tanto. Tutta l’umanità vissuta in questa storia, si ritrova a mettere in scena lo scherzo finale. Il vecchio ci casca, ma poi scopre il trucco e tutto sembra risolversi in un grande perdono collettivo. Ancora un po’ di musica, ci dice Falstaff. Ho ancora tempo per un po’ di musica. Tutto nel mondo è burla. Tutto. È stato solo uno scherzo. La fatica, il dolore, la morte. Tutto un trucco. E mentre il vecchio sparisce per sempre sotto la grande coperta, il mondo che resta solleva i cuscini e si fa la guerra ridendo.

Questa è l’eredità lasciata da Falstaff. La risata contagiosa con cui si può fronteggiare l’insensatezza delle cose. La consapevolezza che al cospetto della fine tutte le fatiche di una vita intera si relativizzano. Ecco la burla. Lo scherzo che ci tira questo stare al mondo.

Tutta la fatica di vivere, tutto quell’amare e morirne, si risolve nel “riso” di chi sente dentro di sé che nessun dolore farà mai più male.

E a Windsor allora deflagra la risata sonora sul letto dove la storia finisce.

Una tempesta di piume invade lo spazio e mentre la leggerezza trionfa sulla paura, un treno passa e porta via la vita.


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