la sonnambula, jessica pratt

È sogno o realtà?

 di Stefano Ceccarelli

Torna dopo un decennio circa La sonnambula, capolavoro di Vincenzo Bellini, a calcare le scene del Costanzi. La serata non è delle migliori e la produzione non brilla, eccetto un’interpretazione al solito splendida di Jessica Pratt, per cui Amina sembra scritta, e una ottima di Zanellato nel ruolo di Rodolfo. La direzione di Speranza Scappucci è tendenzialmente affetta da un’astenica monotonia; la regia di Giorgio Barberio Corsetti presenta, anch’essa, pochi momenti buoni.

ROMA, 23 febbraio 2018 – La penna facilissima e l’ingegno fertile di Vincenzo Bellini danno ne La sonnambula un esempio altissimo del loro potenziale, creando un’opera di mezzo carattere, cara alla poetica romantica ottocentesca sia per l’ambientazione idilliacamente agreste sia per le vicissitudini amorose di due giovani, senza dimenticare, naturalmente, la presenza del ‘sovrannaturale’, qui incarnato nel troppo scientifico sonnambulismo. Il titolo in cartellone all’Opera di Roma è amatissimo dal grande pubblico soprattutto per la fluente piacevolezza della partitura, delle sue arie e duetti, in perfetto stile belliniano. È un vero peccato, dunque, aver assistito a una serata decisamente sottotono, oltre che a una produzione che presenta più di un difetto intrinseco.

La direzione dell’opera è affidata a Speranza Scappucci. Il pubblico romano la ricorda per la scorsa (2017) Così fan tutte di Mozart, dove, pur con alcuni limiti che avevo segnalato, mi parve far tutto sommato bene (leggi la recensione). Mi sono stupito nel vedere, dunque, in questa Sonnambula, quasi – per molti versi – un’involuzione. L’agogica, infatti, è incolore, a tratti pesante e strascicante: un vero peccato per una ‘coloratissima’ partitura, letteralmente chiaroscurale, tal è il capolavoro belliniano. I recitativi sono spesso troppo diluiti; talvolta vien meno una reale comunicazione fra buca e palcoscenico. Manca, insomma, nettezza. È certamente vero che la Scappucci fa cantare le voci, ma a costo di velare, talvolta, diversi passaggi orchestrali che meriterebbero maggiore protagonismo: La sonnambula, difatti, come molte opere dell’attentissimo e meticoloso Bellini, presenta un’orchestrazione trapunta di bellezze (ghirigori lunari dei legni; echi pastorali dei corni), eredi di una tradizione sonora ben chiara che (almeno) dal tardo classicismo tedesco discende fino alle atmosfere sonore romantiche (giusto per fare due esempi) de La donna del lago e, soprattutto, del Guillaume Tell rossiniani. Ripeto: è veramente un peccato, visto e considerato il buono stato di forma dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, che certo ha fatto il suo dovere.

Il cast dei cantanti è di diseguale valore, ma vede ben in testa Riccardo Zanellato e, ovviamente, Jessica Pratt, vera protagonista indiscussa della serata, per cui Amina sembra scritta apposta. Riccardo Zanellato mette ben al servizio del ruolo del Conte Rodolfo la sua voce umbratile, vibrata, capace di pregevoli sfumature: come ci dimostra nella cavatina «Vi ravviso, o luoghi ameni» e nella spumeggiante, relativa cabaletta («Tu non sai con quei begli occhi»). Cantando assai bene nei recitativi ed è ben armonizzato nei concertati; il physique du rôle fa il resto. Jessica Pratt, protagonista indiscussa della serata, star belcantista del momento, mette la sua voce eterea e limpida al servizio di un ruolo, Amina, che le calza a pennello. L’ultima scena, il secondo accesso di sonnambulismo, che Bellini pensò interamente affidata alla primadonna e che è strutturata sul modello di una tipica ‘scena di follia’ di quel periodo, è un piacere per le orecchie: il celebre cantabile «Ah! Non credea mirarti» esce magnifico, cullante, intriso di una malinconia velata di colori lunari, commovente, e l’altrettanto celebre cabaletta («Ah! Non giunge uman pensiero») scintilla delle agilità e delle fioriture che la Pratt porge superbamente (l’acuto finale è semplicemente magnifico). Benché il I atto, per gli standard della Pratt, sia stato leggermente sottotono, con la cavatina «Come per me sereno» certo ben centrata per intonazione, fioriture, legati, ma mancante di volume, la cantante fin dai duetti con Elvino progressivamente cresce, fino al finale I (notevolissima la breve ‘scena di sonnambulismo’ che fa da pendant alla già citata del finale II). Per lei ricchi e meritati applausi. Juan Francisco Gatell sostiene il ruolo di Elvino, scritto originariamente per quel Giovan Battista Rubini su cui Bellini modellò anche la parte di Arturo ne I puritani, notissimo per l’impressionante registro acuto. È una parte, dunque, che un tenore come Gatell non può sostenere al meglio nelle condizioni in cui s’è ascoltata la sua voce in teatro: granulosa, a tratti (soprattutto nei recitativi) sforzata, condanna in più di un passaggio il ruolo a un’assenza di squillo e colore che dovrebbero essere le caratteristiche precipue della parte. Non tutto, però: diversi momenti, soprattutto quando Gatell può rimanere nella zona mediana del registro, sono abbastanza buoni, come i cantabili nei due splendidi duetti con Amina («Prendi: l’anel ti dono» e «Son geloso del zefiro errante») e l’arioso «Ah! Perché non posso odiarti», cantato certamente con impeto (impeto che, però, non gli evita ancora di incappare in un registro acuto nient’affatto centrato). La Teresa di Reut Ventorero si lascia apprezzare soprattutto per la recitazione e per un canto ricco di colori, benché non molto pieno. Diafani i comprimari Valentina Varriale (Lisa) e Timofei Baranov (Alessio). Il coro, del pari, non brilla tanto nei momenti di pittura agreste che nei momenti d’assieme.

Un altro tallone d’Achille di questa produzione è certamente la regia di Giorgio Barberio Corsetti. Di Barberio Corsetti ricordo un pregevole I was looking at the ceiling and then I saw the sky (leggi la recensione) del 2015, e un meno apprezzabile, recente Fra Diavolo (leggi la recensione). In sintesi, ciò che manca a questa regia de La sonnambula è un senso drammatico a molti movimenti, sia dei cantanti che di molte scene. Una necessità scenica, dunque, come per il fatto che spesso i personaggi salgono e scendono, senza apparente motivo, su arredi ‘giganti’, nati da un’idea affatto interessante, cioè entrare nel mondo psicologico di Amina bambina, che lei deve superare per diventare, nel matrimonio, donna. Un universo costellato di mobili giganti, di orsacchiotti altrettanto imponenti, di bambole doppioni di personaggi reali: con questi arredi Barberio Corsetti vorrebbe riprodurre una versione psicologica delle montagne svizzere. A un’idea non originale, ma tutto sommato buona, si aggiungano le belle animazioni in fondale disegnate da Cristian Taraborrelli, che rappresentano le emozioni, i sentimenti dei personaggi, in particolare della coppia protagonista. Tutto questo, però, non funziona poi all’atto pratico, in scena. Le uniche trovate sceniche realmente interessanti, almeno a mio avviso, sono state quelle del sonnambulismo: nella prima, Amina scende dalla sommità di un armadio entrando e uscendo dai cassettoni; nella seconda, un ‘ponteggio’ scenico viene fatto ruotare per suggerire Amina che cammina sul ciglio della sua casa, rischiando di sfracellarsi sulla ruota del mulino.

Gli applausi finali arrivano, calorosi per Jessica Pratt e Zanellato, certamente meno per altri. Qualche intemperanza s’ode dal loggione (da sempre più incisivo in queste cose); certamente, dunque, una produzione che avrebbe potuto dare molto di più.

foto Yasuko Kageyama