Staatsoper barocca per Händel

 di Francesco Lora

Nuovo allestimento dell'Ariodante di Händel nel massimo teatro austriaco, con strascichi in forma di concerto in Francia e Spagna: esecuzione integrale con direzione di Christie, regìa di McVicar, Les Arts florissants in fossa e una compagnia di canto più espressiva che virtuosistica, ove spiccano i nomi di Connolly, Reiss, Dumaux e Trost.

VIENNA, 24 febbraio 2018 - Tra le più rilevanti innovazioni introdotte alla Staatsoper di Vienna da Dominique Meyer, sovrintendente e direttore artistico dal 2010, vè stata lapertura allopera del Sei e Settecento con esecuzioni storicamente informate, fatto che implica l'invito di concertatori specializzati e orchestre con strumenti originali. Più che a Londra, Parigi o altre massime capitali della musica, proprio a Vienna l'iniziativa ha arricchito in modo sostanziale l'offerta artistica del teatro, e anzi raddrizzato una singolare lacuna in una città straripante di recite d'opera e concerti: l'attività della Staatsoper si basa infatti per tradizione sulla proposta quotidiana del grande repertorio dal Mozart maturo al Novecento storico, e in tutta Vienna –  tre teatri dopera e concerti ovunque, con spettacoli quasi ogni giorno  – il repertorio pre-mozartiano è dato con timidezza estrema (l'eccezione conferma la regola: il festival Resonanzen ospitato nel Konzerthaus è l'unico appuntamento annuale con la musica antica, e il Theater an der Wien è divenuto sinonimo di opera barocca per il solo fatto di allestirne qualche titolo).

In curiosa simultaneità con la produzione del Saul al Theater an der Wien [leggi la recensione], a braccia aperte va dunque accolto il debutto dell'Ariodante di Händel alla Staatsoper: cinque recite dal 24 febbraio all'8 marzo, in gemellaggio con esecuzioni in forma di concerto a Parigi, Barcellona, Pamplona e Madrid dal 10 al 18 del mese (stessi interpreti musicali, meno il primo uomo e l'unico comprimario). In Austria si è aggiunta non solo la componente scenica, ma anche il gusto per rischio e pericolo: fresco è il ricordo dell'Ariodante eseguito l'anno scorso in concerto al Theater an der Wien con Joyce DiDonato protagonista, e minaccioso è quello dell'Ariodante rappresentato poco dopo al Festival di Salisburgo con un'insuperabile Cecilia Bartoli [leggi la recensione]. Lontano dall'inaudito lusso salisburghese del quale aveva fatto sfoggio Christof Loy, lasciato libero di attuare idee senza lesinare risorse, l'allestimento viennese osserva la semplicità drammaturgica e la maneggevolezza degli impianti: ha regìa di David McVicar, scene e costumi di Vicki Mortimer, luci di Paule Constable e coreografie di Colm Seery.
 

Esso trascura la dimensione decorativa, epica e idealizzata che deriva dall'Orlando furioso, e si concentra invece sullatmosfera fredda, brumosa e marittima della Scozia reale, con scabre muraglie medievali, gotiche scene di caccia e abiti attinti sia da clan storici sia da un surrealismo fiabesco. Vanta il raro pregio di lasciare intatta la partitura, con le sue commoventi tre ore e mezza di musica, senza pretendervi tagli o manomissioni di alcun tipo. Nel contempo, non si dà pace della stasi drammatica durante le lunghe arie, e prevede dunque unindigestione di controscene nelle quali la corte scozzese — compreso il mite Re —  finisce col ricorrere troppo abitualmente alla minaccia di armi sguainate o a scazzottate di gratuita violenza. A tale non richiesta ipercinesia corrisponde, allopposto, la lettura musicale presieduta da William Christie alla testa della sua orchestra Les Arts florissants: fraseggi molli e legatissimi anziché pungenti e danzanti, tempi dilatati fino a oasi dipnosi, volume contenuto entro la soffusione, colori nebbiosi, velati e spumosi, oneste variazioni consegnate ai canti senza richiedere in essi sommi virtuosi.

Nel sesto grado della parte protagonistica, concepita per le doti acrobatiche ed espressive del castrato Carestini, il mezzosoprano Sarah Connolly non ha del resto possibilità di accodarsi alla bravura della DiDonato né tantomeno della Bartoli. Prosegue piuttosto il cordiale discorso, poco divistico e oggi démodé, delle connazionali inglesi un tempo al centro della renaissance händeliana: Janet Baker e Ann Murray, per dirne due. Ma senza nemmeno evocare il fuoco statunitense di Lorraine Hunt, la forza della parola rimane in lei confusa e blanda, e i capricci passaggi d'agilità la mettono alla frusta: benché avanzato con stile, il passo è più lungo della gamba. Adeguata alla parte della prima donna, Ginevra, è invece la sempre elegante Chen Reiss, soprano duttile anche nella prosodia italiana fatta eccezione per qualche eccesso iperrealistico e germanizzante nella scena della liberazione dal carcere e dello scioglimento del dramma. Ben si assortisce con lei Hila Fahima, meno principescamente composta e più fresca, spigliata, giovanile, atta a suggerire già col materiale vocale il rango, l'indole e l'imprudenza della dama Dalinda.

Unico interprete convocato alle recite di Vienna dopo quelle di Salisburgo, il controtenore Christophe Dumaux vi replica identico il proprio Polinesso, trovando però questa volta un critico musicale meno ben disposto. Il volume è il maggiore tra tutti e la vocalizzazione scorre rapida; ma nel canto numerosi aspetti implicano proporzionalità inversa, come la coperta che non può coprire insieme testa e piedi, e il prezzo pagato non parrà vantaggioso all'intenditore di voci: in Dumaux la risonanza è infatti tutta acquisita in cavità che rendono il timbro chioccio e asprigno, l'emissione svenevole e squittente, mutando presto in grottesca caricatura il tremendo antagonista concepito dall'autore per il fosco materiale di un contralto femminile. Quasi solo tedesco e per nulla barocco è invece il repertorio finora battuto dal basso Wilhelm Schwinghammer, nondimeno preparato, dotato e impegnato come Re di Scozia. Ritorno in grande stile per il tenore Reiner Trost, declinato come interprete mozartiano ma idoneo a sostenere la parte di Lurcanio con tanta amorosa flessibilità quanto impeto virile. Dignitoso il Gustav Mahler Chor.

foto © Wiener Staatsoper/Michael Pöhn