I sogni di Ariodante
di Francesco Lora
Ariodante di Händel è stato il titolo di punta nel Festival di Pentecoste di Salisburgo, pronto a essere ripreso nel cartellone estivo: eccezionale senza meno la lettura musicale e teatrale che schiera, al massimo delle loro facoltà, l’ineffabile Cecilia Bartoli e un ispirato Christof Loy, fino alle rivelazioni di Kathryn Lewek e Norman Reinhardt.
SALISBURGO, 5 giugno 2017 – Il libretto della Ginevra, principessa di Scozia fu scritto da Antonio Salvi, in vena di riforma drammaturgica, per la raffinata corte del principe Ferdinando de’ Medici (1708): musica celebrata ma perduta di Giacomo Antonio Perti, soggetto ariostesco ma trattato con libertà e scene dove l’espressione degli affetti primeggia sull’avvicendarsi delle peripezie. Dopo quasi trent’anni di tradizione e ulteriormente rielaborati, quei tre atti dalla tinta teatrale inconfondibile furono posti in musica da Georg Friedrich Händel per il teatro in Covent Garden a Londra (1735). Ne uscì l’Ariodante, sua opera forse la più intrisa d’atmosfera medievale e cavalleresca, la più occhieggiante a stilemi musicali francesi – palesi nelle suite di danze – e la più emozionante nell’escalation dalle imminenti nozze principesche a un fosco intrigo, da un’accusa d’adulterio all’annuncio di un suicidio, da una condanna a morte al ritorno del disperato, dalla liberazione dell’innocente alla tragedia sventata per un soffio. Il capolavoro è stato il titolo di punta del Festival di Pentecoste di Salisburgo, da esso inaugurato e sigillato con le recite del 2 e 5 giugno nella Haus für Mozart: il buon intenditore è sin d’ora invitato a fare tutto il possibile onde aggiudicarsi un biglietto per le cinque repliche nel cartellone estivo del Festival (16-28 agosto).
Si tratta senz’ombra di dubbio del più complesso, ambizioso e avvincente spettacolo händeliano concepito da lungo tempo in qua. Lo è innanzitutto in virtù di una lettura del testo che indaga, esibisce e osa, ma senza tagliare una sola nota o banalizzare una sola scena. Il pulsare drammatico non sfugge a Gianluca Capuano che, pesce fuor d’acqua nella vicina esecuzione della Donna del lago [leggi la recensione], ben conosce invece il codice dell’opera seria settecentesca. Alla testa dell’orchestra Les Musiciens du Prince, con i suoi strumenti originali, egli ravvisa la traboccante rassegna di metri di danza sui quali quasi ogni aria händeliana è modellata, cavalca il ruolo drammaturgico sooteso a ciascuno, sovrintende per tutti i brani alla messa a punto di variazioni e cadenze di singolare impegno. Aggiunge strumenti a percussione non appena le musiche sembrino offrirgliene il destro: rasenta l’abuso, ma consegue sottolineature ritmiche di indubbio fascino evocativo. Cade in errore solo quando, nello strafare per entusiasmo, deforma alcune arie col da capo (schema ABA) coerenti al loro interno (A e B condividono figurazioni, tempo e agogica) in brani incoerenti (A e B contrastano, per iscritto, in luoghi espressivi di spiccata importanza): ciò che, per esempio, è avvenuto nell’aria «Il tuo sangue ed il tuo zelo» (II, viii).
Dopo gli esiti teatrali alterni nella sua Alcina di Zurigo [leggi la recensione] – altra opera händeliana e ariostesca, appena successiva all’Ariodante – qui il regista Christof Loy si espone assai maggiormente e intasca tutti i dovuti consensi. Ha intorno a sé lo scenografo Johannes Leiacker, che gioca tra candide boiserie, fondali dipinti, trompe-l’œil costruiti e nudo palcoscenico; la costumista Ursula Renzenbrink, che gioca tra vestiario borghese contemporaneo e vestiario cerimoniale antico; il light designer Roland Edrich, in gran parte responsabile dei calcolati trapassi da un piano di realtà o percezione all’altro; il coreografo Andreas Heise, che organizza miracoli di bellezza nei divertissement che concludono i tre atti. La recitazione è disinibita come non mai in ciascun interprete, fino a veder trascinati prima donna (Ginevra) e primo uomo (Ariodante) nel vivo gorgo delle danze. Non mancano i momenti memorabili. Il pubblico non italofono ama l’opera sei-settecentesca purché si rida a vanvera: va dunque in estasi quando, nelle due più virtuosistiche arie di Ariodante («Con l’ali di costanza», I, viii; «Dopo notte atra e funesta», III, viii), la diva e signora del festival dà fuoco alle polveri tra fiumi di semicrome da sgranare, in pantomime dove qui si simulano i singhiozzi di una sbornia e là si tiene un sigaro stretto tra i denti.
Ostentazioni di virtuosismo nel virtuosismo. Ma di genio sono le gettate teatrali sul più lungo spazio, le quali rendono più tagliente, spietata e sfuggente un’azione già nera, onirica e misteriosa. Una è quando il traditore Polinesso penetra nelle stanze di Ginevra ad amoreggiare con la dama Dalinda, travestita con gli abiti della padrona, mentre fuori l’ingannato Ariodante si dispera per l’infedeltà della promessa sposa: si vede l’antagonista gettare con sprezzo fuori dall’uscio l’abito del quale ha denudato l’amante, e si vede Ariodante raccoglierlo, cingersene, iniziare un’ossessionata immedesimazione in Ginevra, fino a perdere armatura, baffi e barba, e ripresentarsi poi all’amata trasfigurato in un corpo ormai tutto femminile, alla maniera dell’Orlando di Virginia Woolf. Il culmine è toccato nell’unica deliberata trasgressione alla lettera del testo musicale. Alla fine dell’atto II Ginevra, distrutta dal suicidio dell’amato e dall’accusa d’impudicizia, cade tramortita; ma è attesa da uno scontro tra sogni piacevoli e funesti, che la desta e la fa prorompere: «Che vidi? Oh dei! Misera me! Non ponno | aver quiete mie pene anche nel sonno». Bene: qui i versi sono devoluti ad Ariodante, materializzatosi pian piano sulla scena. Di chi, tra Ariodante e Ginevra, erano dunque i sogni? Chi in essi stava suscitando l’altro, legando a sé l’intero punto di vista?
V’è abbastanza per presupporre, anche nelle doti sceniche, una grande compagnia di canto. Di essa si fa garante Cecilia Bartoli. Debuttando nella parte dell’eroe eponimo, ella torna in via eccezionale a un ruolo virile – con tanto, s’è detto, di barba e baffi autoironicamente chiesti in prestito all’ambigua Conchita Würst – e scherza, come nessuna prima di lei in età contemporanea, con la diabolica scrittura vocale dedicata al soprano castrato Giovanni Carestini (l’arcirivale riconosciuto del Farinelli). Possiede la prosodia italiana, possiede la tecnica spudorata, ambisce all’inaudito e lo realizza a piacere, nello stile di bravura come in quello d’espressione. Apre la bocca e fa sembrare ogni passaggio di facilità scontata; chiude la bocca e imprime la consapevolezza dell’irripetibile. Kathryn Lewek, Regina della Notte sulle scene di mezzo mondo, ancora poco nota in Italia e qui nella parte di Ginevra, riesce a non esserle da meno: si gode l’armonica differenziazione tra i due timbri, calibri e fraseggi; impressionante è la sua forza tragica di recitazione, tanto più che versi e musica motiverebbero qui al gesto grande, mentre la regìa chiede sottigliezza cinematografica; e stupefacente è il patrimonio canoro, con quell’emissione senza un armonico fuori posto e con – nelle variazioni – note acutissime filate di tecnica adamantina e lancinante pudore.
Detto di primo uomo e prima donna, seguono in gerarchia la seconda donna di Sandrine Piau, Dalinda, e il secondo uomo di Christophe Dumaux, Polinesso: un soprano e un controtenore francesi, educati alla scioltezza in scena e alla correttezza del canto, con qualche approssimazione nella pronuncia e con una modesta attrattiva timbrica. Si apprezza soprattutto la vivacità di caratterizzazione, per quanto nel caso di lui rasenti il macchiettismo: la figura maschile giova all’idea visiva del regista, ma non a quella musicale implicita, che preferirebbe una torva voce di contralto femminile; e creatrice della parte fu infatti Maria Caterina Negri, la cui superba epigona Ewa Podles – temibile precedente – è tuttora difficile ignorare in questa sede. Impegnati anche nella Donna del lago, i due ultimi interpreti di rilievo hanno anticipato e replicato nell’Ariodante le medesime mende e virtù. Inadeguato il basso Nathan Berg nella parte del Re di Scozia, che – a dispetto delle tre magnifiche arie – egli approccia con una linea di canto rozza, diseguale, afflitta da una fonetica incompatibile con quella italiana. Lussuoso, invece, il tenore Norman Reinhardt nella parte di Lurcanio, recitata con avvenenza di figura, dovizia di sfumature e scioltezza di coloratura, fino a una baldanza di timbro davvero inconsueta sul mercato händeliano.
foto Monika Rittershaus