L'ultima elucubrazione sulla Callas
Alcune note a margine dell'ultimo film di Pablo Larraín, ispirato alla figura di Maria Callas senza esserne una biografia.
Va detto in premessa che Maria del regista cileno Pablo Larraín non è un film che racconti chi è stata la Callas. È piuttosto la terza puntata della serie di ritratti di donne celebri, glamorous, sole e infelici che hanno attirato l’interesse di questo filmmaker, dopo Jackie Kennedy Onessis (Jackie 2016) e Lady Diana (Spencer 2021).
Assistiamo all’ultima settimana di vita della Callas, una Angelina Jolie magrissima e bellissima. La ex diva è, per sua stessa volontà, pesantemente impasticcata, rifiuta di mangiare e vive di incubi, allucinazioni e deliri. È instancabilmente seguita e assistita dalla cameriera Bruna (Alba Rohrwacher) e soprattutto dal maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino). Per strada si imbatte in cori e scene del Trovatore, di Carmen e Manon Lescaut, in casa e fuori la segue un giovane intervistatore con tecnico al seguito; in un teatro, grazie alla devozione filiale di un maestro al piano, tenta di recuperare una parvenza di voce. A metà del film lo spettatore ha rinunciato a capire che cosa sia narrazione autentica e che cosa allucinazione della protagonista.
Oltre alla mitica carriera, l’altra ossessione è, prevedibilmente, Onassis. Vediamo che da adolescente Maria era costretta dalla madre a prostituirsi ai soldati tedeschi; onde Larraín si inventa un mai esistito colloquio con la sorella Jackie (Valeria Golino), che pochi giorni prima che Maria muoia cerca di calmarla assicurandola che “non è colpa sua”. Ma è vero l’incontro o è nell’immaginazione di questa donna strafatta?
Un film lugubre e scombinato, in cui la Callas si esprime esclusivamente, anche quando chiede un bicchier d’acqua, con filosofemi e battute sarcastiche, quasi fosse vissuta nutrendosi esclusivamente di Schopenhauer e di Oscar Wilde. Altrettanto fanno Onassis, John Fitzgerald Kennedy (altro colloquio mai esistito) e un medico di cui Maria rifiuta le visite. Muore sul tappeto di uno dei sontuosissimi e bui saloni in cui la sceneggiatura ambienta il racconto.
Inutile cercare nel film la grande cantante. Si comincia con la Canzone del salice dell’Otello di Verdi e si conclude con un altrettanto gutturale e stanco “Vissi d’arte”, presumibilmente dalla Tosca del ’64.
In tre occasioni, Norma, Puritani e Anna Bolena, si alternano frammenti degli anni ’50 con la voce roca e disfatta del 1977: canto ottenuto, si dice, con un mix di voci - Angelina Jolie e una cantante in grado di “calare” - e di effetti elettronici.
Quanto ai dati biografici, inutile ricordare che la madre della Callas era soprattutto interessata a che la figlia minore facesse una grande carriera di cantante e la maggiore si facesse sposare dal milionario greco che le manteneva tutte e tre e non gradiva alcun genere di collaborazionismo. Quanto a Onassis, è stato un ossessione soprattutto per i fan della Callas: tra il ’69 e il ’74 ci sono molte testimonianze che, lungi dal comportarsi da Arianna abbandonata, la Divina abbia avuto una vita sentimentale non priva di guizzi. Se poi davvero negli ultimi mesi di vita Maria avesse vagato per i caffè del centro di Parigi parlando da sola, baristi e passanti non avrebbero certo avuto con i giornali il rispetto e la discrezione di Bruna e Ferruccio. Infine, la Callas del periodo finale era una donna dall’aspetto che oggi sarebbe di sessantacinquenne, matronale, gonfia, affetta da glaucoma; non una sottile quarantacinquenne ben portante. Ma questo il cinema non vuole crederlo.
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