Ore dolci, divine
Il 2024 ha riservato molte soddisfazioni, fra progetti originali e giovani artisti di valore, sebbene non sempre sia tutto rose e fiori.
Nel ripercorrere a memoria, sul finire dell’anno, tutti gli spettacoli a cui si è preso parte nel corso dell’ormai conclusosi 2024, un pensiero sovviene prepotente: ho fatto decisamente di meglio. Anche nel teatro, come nella vita, purtroppo, le dimensioni contano, specie per chi, come noi dell’Ape Musicale, è chiamato a riflettere, discutere, argomentare il miracolo che, ogni sera, si celebra sulle tavole di legno di ogni sacrosanto palcoscenico. Il Teatro, per fortuna, è ancora vivo ed è figlio, severo e altero, nel nostro tempo. Segue e detta nuove mode e nuovi modi, educa o si lascia persuadere dal gusto del pubblico che del Teatro stesso è ragione d’essere: solo conoscendolo in ogni sua manifestazione, solo vivendolo in tutte le sue sfaccettature, se ne potrà apprezzare appieno la complessità e la magia. Ogni spettacolo, ogni rappresentazione, è un frammento di questo universo poliedrico che il Teatro incarna: un mosaico di tradizione e innovazione, di rigore e improvvisazione, di poesia e realtà. Nel 2024 ci siamo seduti ad ammirare palcoscenici che hanno brillato per audacia e creatività, ma anche dinnanzi ad altri che si sono rifugiati in un più rassicurante conformismo. La sfida, per chi ama il Teatro e per chi ha il privilegio di riferirne, è andare oltre il giudizio immediato, oltre i sussulti o le proteste dello stomaco, scavare, con opportuno sforzo – né troppo né troppo poco – nelle intenzioni degli interpreti e riconoscere, e questa per noi è una missione, la qualità del lavoro anche laddove il risultato può apparire, nel complesso, ancora perfettibile o semplicemente lontano dal gusto personale. Ecco perché, nello sgranare i ricordi dell’anno passato, quelli che riaffiorano alla mente con più forza son sempre legati a serate in cui è la bontà del lavoro d’assieme a svettare sul singolo elemento, a spettacoli in cui è la stretta interconnessione tra buca e palcoscenico a far davvero la differenza, a progetti realizzati con senno e ambizione.
Impavida, ambiziosa e meritevole di grandi elogi è stata, senza ombra di dubbio, la trilogia del Teatro Regio di Torino dedicata alla figura di Manon Lescaut, che quest’anno ha segnato la riapertura del tempio sabaudo dopo la pausa estiva. Tre prestigiose bacchette – Palumbo, Pidò, Tourniaire – e un lavoro di regia ben calibrato firmato da Arnaud Bernard hanno dato vita a una straordinaria staffetta tra Puccini, Massenet e Auber, capace di monopolizzare per quasi un mese le agende dei melomani torinesi e non solo. Questo progetto, per impegno e sfarzo, ha saputo reggere il confronto con la strepitosa Juive del 2023, confermando ancora una volta la centralità che il Regio di Torino può, se lo desidera, rivendicare nel panorama musicale italiano. La magnificenza delle sue compagini corali e orchestrali, infatti, ne è la base imprescindibile e per l’occasione auguriamo al nuovo direttore musicale, Andrea Battiston, un caloroso in bocca al lupo. Tuttavia, il Regio non è stato solo “Manon, Manon, Manon”. In una stagione spiccatamente pucciniana, nel complesso di ottima fattura – bellissimo, ad esempio, il Trittico (Kratzer/ Steinberg) –, merita una menzione speciale l’eccellente Der fliegende Holländer (Decker/Stutzmann) che a maggio ha riportato, dopo qualche anno di assenza, Wagner ai piedi della Mole.
Anche il Teatro dell’Opera di Genova quest’anno ci ha regalato più di una soddisfazione, confermando la parabola crescente che il Carlo Felice ha intrapreso dopo gli anni difficili della pandemia. Tra i carrugi si sono alternati spettacoli dal rassicurante taglio tradizionale e altri dall’impostazione più moderna e rischiosa, caratterizzando la stagione con una rinnovata attenzione al lavoro di regia, un elemento che in passato era stato talvolta trascurato. Meritano pertanto una menzione la produzione scaligera di Madama Butterfly (Hermanis/Luisi), Idomeneo (Hartmann/Ori) e, per originalità, l’inaugurazione congiunta Carlo Felice-Teatro Nazionale con il ditticoIl giro di vite/The Turn of the Screw (Livermore/Minasi) che, in un modo o nell’altro, hanno segnato pagine importanti nel diario del melomane scrivente. A Genova, inoltre, si respira un particolare affetto – che, per proprietà transitiva, noi rivolgiamo con gratitudine al teatro stesso – per certi artisti che, puntuali come la dichiarazione dei redditi, tornano almeno una volta all’anno, regalando al pubblico quelle impennate artistiche capaci di smuovere cuore e viscere. Genova, di fatto, è ormai una seconda casa per super soprani d’importazione come Angela Meade – indimenticabile Beatrice di Tenda (Nunziata/Minasi) lo scorso anno e pronta ora a tornare nei panni di Danae in Die Liebe der Danae di Strauss – o fuoriclasse nostrani come Francesco Meli, protagonista ruggente di un amabile Corsaro (Puggelli/Palumbo).
Molto bene s’è fatto, tendenziale, anche fuori dalle monumentali fondazioni lirico sinfoniche. Crocevia per i melomani erranti di mezz’Italia, centri di distribuzione culturale periferica, i Teatri di Tradizione che costellano la penisola, per nostra fortuna, godono dell’importante vantaggio di essere amministrati, quasi sempre, da persone davvero capaci e competenti che all’ente che amministrano donano personalità e calore. Basta citare il Teatro Municipale di Cristina Ferrari per convincersi della veridicità di quanto appena scritto. A Piacenza, quest’anno, per una ragione o per un’altra, non ci siamo stati spessissimo, eppure nel bilancio conclusivo non si può far a meno di ricordare quell’elettrizzante Anna Bolena (Rifici/Fasolis) che ha visto un’agguerritissima Carmela Remigio fare appello a tutte le proprie risorse, vocali, testuali e sceniche, per portare in scena una protagonista degna di nota. Ancora l’onnivora Carmela Remigio, e sempre qui a Piacenza, s’è resa poi carismatica interprete, proprio sul finire dell’anno, di un nuovo allestimento di La Vestale (Falaschi/Benigni), accolto con opinioni contrastanti, come contrastanti sono state, in effetti, le emozioni suscitate nello scrivente: ciononostante lo si rievoca, ora che si tirano le somme, per il lavoro opinabile ma innegabile percepito nella realizzazione della messinscena.
Il circuito lombardo è stato intercettato solo in un’occasione, una Bohème (Bafunno/Bisatti)a Pavia rimasta impressa per la vitalità con cui lo spettacolo, pur con qualche errore dettato dalla sola inesperienza, è stato montato dalla squadra creativa selezionata per il cimento – bravissima, ci tengo a sottolinearlo, la Mimì di Maria Novella Malfatti –. D’altro canto, quando sono i giovani a lavorare, e soprattutto quando ci sono i giovani a lavorare bene, l’interesse cresce esponenzialmente: sai che in quegli istanti si stanno scrivendo le sorti del teatro, dalla sensibilità che essi pongono sul piatto s’intuisce che l’opera non è solo intrattenimento ma anche un laboratorio vivente di idee, emozioni e prospettive che plasmeranno il futuro dell'arte scenica e il ruolo che essa potrà avere, perché no, nella società di domani. È in questi momenti, infatti, che il teatro si rinnova, traendo linfa vitale dall'entusiasmo delle nuove generazioni e dimostrando la sua capacità di parlare a un pubblico trasversale.
I giovani talenti, per fortuna, non mancano, e altri ne abbiamo incontrati nel corso dell’anno. Ci siamo ad esempio precipitati al Coccia di Novara, di cui seguiamo anche la ricca proposta operistica con passione e attenzione, in occasione del concerto di Alessandro Bonato che allora guidò, con la superba maestria che lo contraddistingue, La Toscanini lungo pagine di Beethoven, Puccini – un meraviglioso il Capriccio Sinfonico, per me la migliore celebrazione dell’anno pucciniano – e Schumann.
A ben pensarci è proprio la musica strumentale, nel corso del 2024, ad avermi regalato le gioie più dolci. A Torino gli appassionati di musica sono assai fortunati: in una manciata di chilometri quadrati si affiancano e si incastrano, generalmente con grande equilibrio, realtà di spicco come l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, l’Unione Musicale e l’Associazione Lingotto Musica. Le ultime due, in particolare, mi hanno permesso di realizzare veri e propri sogni. Al Lingotto Musica, oltre a Muti e la sua Chicago Symphony Orchestra, si è ascoltato un insuperabile Yefim Bronfman diretto da Alan Gilbert mentre all’Unione Musicale di Torino, dopo una carrellata di stelle del firmamento – solo da ottobre Julia Fischer, Jan Lisiecki, Yulianna Avdeeva, Rudolf Buchbinder, Andras Schiff – è approdata la sublime Janine Jansen con l’integrale delle sonate per violino di Brahms: eventi, questi due citati, che fanno battere ancora il petto anche a distanza di tempo.
Certo, l’anno che volge al termine non è stato, musicalmente parlando, tutto rose e fiori e ancora si sente la pelle bruciare per quel Mosè in Egitto (Maestrini/Di Stefano)portato sulle scene senza un pensiero che desse sostanza all’encomiabile tentativo o per il MiTo Settembre Musica svilito nella sua essenza – alla Lucia di Lammermoor (Mariani/Ciampa) delCarlo Felice manco accenniamo, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa –, ma ogni ora in teatro, positiva o negativa che sia l’esperienza, rimane un’ora ben spesa.
Auguriamo dunque, a voi e noi, un 2025 pieno di ore ben spese.
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Torino, Le nozze di Figaro, 23/11/2024
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Genova, Il Corsaro, 19/05/2024
Novara, Cavalleria rusticana / Pagliacci, 12/05/2024
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Torino, La fanciulla del West, 28/03/2024
Piacenza, Anna Bolena, 18/02/2024
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