Brindisi e note
Dal vivo o davanti a uno schermo, le feste di Natale e Capodanno sono sempre un'occasione per assistere a concerti, opere e balletti. La musica delle feste, che può incontrare un pubblico vastissimo, non sempre però si rivela anche una vera festa della musica e, anzi, proprio in questo momento, fra le feste e i brindisi, possono emergere anche riflessioni sui temi della divulgazione.
VIGILIA CON BALLETTO La mattina della vigilia di Natale il Teatro dell'Opera di Roma è pieno. Tante famiglie, tante lingue (al turismo romano ordinario si aggiunge quello per il Giubileo), tanti bambini per lo Schiaccianoci. Qualcuno esagera, come nel caso della povera creaturina di forse un anno che piange in un palco a più riprese, ma quando si tratta di piccoli nella cosiddetta età della ragione, al balletto si tratta spesso di giovanissimi studenti di danza, di fratelli, cuginetti o amici di qualcuno che comincia a muovere i primi passi sulle punte, piccoli musicisti (in metropolitana, al rientro, ci si intrattiene con due entusiaste sorelline che studiano violoncello e violino) o anche sono di occhi e orecchie ben disposti a farsi affascinare. E in effetti questo Schiaccianoci romano, con i costumi favolosi di Gianluca Falaschi e il Drosselmeyer magnetico di Claudio Cocino, ha tutte le carte in regola per sedurre in questo mattino di vigilia. Soprattutto, però, la festa non è isolata: l'Opera di Roma resta fra coloro che producono danza tutto l'anno mentre ormai molti, troppi teatri italiani hanno rinunciato a un complesso stabile e alla formazione, affidando la stagione – quando c'è – o l'unica parentesi coreutica fra Natale e Capodanno a tournée e compagnie esterne, le quali, beninteso, fanno anche benissimo e meritano di lavorare. E poi c'è l'orchestra, cosa che un habitué di opere e concerti è avvezzo a dare per scontata, ma che nella danza, con l'imperversare di basi registrate, non lo è più. Eppure ricordo benissimo anche le parole di Fréderic Olivieri, direttore della Scuola della Scala, che spingeva a non subordinare nemmeno la direzione alla coreografia: certo, bisogna tenere conto delle necessità del palcoscenico, ma un ballerino deve imparare, per essere artista completo, non solo a contare sui propri tempi e passi, ma a sentire la musica e muoversi con essa. E per i bambini, anche quelli che studiano danza magari senza aver a disposizione nemmeno un pianista in carne e ossa, vedo come è sempre un incanto sapere che lì ci sono i musicisti che suonano, potersi affacciare a sbirciare in buca. È un misto di curiosità, stupore e fascinazione che si ripete a ogni spettacolo (danza, opera, concerti) dedicato ai più piccoli o con una cospicua presenza di giovanissimi. Dopo la pandemia, però, tutti potremmo ricordare quanto la musica dal vivo non sia cosa scontata.
Schiaccianoci a Roma e Schiaccianoci un po' dappertutto: si dirà, forse, che non si brilla di fantasia, ma, d'altra parte, esiste un balletto più universalmente natalizio di questo? Come del resto nei concerti si distinguono netti il filone della musica sacra, quello delle danze viennesi, del galà operistico e del concerto sinfonico più o meno imponente ma in sostanza svincolato da esplicite connessioni. “Chacun à son gout”, chioserebbe il principe Orlofsky, purché in teatro o davanti a uno schermo si onori la festa. D'altra parte, Eraclito docet, anche fra tutti i bei Danubi blu di questi giorni, dal vivo o in registrazione, non ne ho trovati due uguali, ma ne ho sentiti di lussuosi, di sorprendenti, di noiosi perfino.
DANUBIO E LAGUNA Nel dualismo che dal 2004 si è voluto creare in Italia fra lo storico Neujharskonzert viennese e il galà lirico alla Fenice ripete, al di là dei gusti e degli esiti, una fondamentale distanza di base: walzer, polke, quadriglie degli Strauss (e non solo) sono brani brevi, autosufficienti, nati per far festa. Anzi, per trasformare la quotidianità in festa, per dare traduzione musicale della società, del lavoro, della natura, per trasformare la fisicità ordinaria nella fisicità della danza con sorrisi ora sfuggenti e allusivi, ora venati di malinconia, ora aperti e pienamente gioiosi. Le arie d'opera sono invece un momento estrapolato da un discorso teatrale di più ampie proporzioni, sono in relazione necessaria con una drammaturgia e un contesto, la loro vita autonoma non è la loro condizione naturale. A ciò si aggiunge che, quasi per paradosso, il programma viennese riesca proporre ogni anno una notevole varietà di brani, con pezzi mai eseguiti prima e fil rouge tematici mantenendo compattezza di stile e forme; viceversa, se nell'opera con oltre quattro secoli di storia abbiamo un ventaglio formale e stilistico estremamente diversificato, a Venezia si pesca sempre in una monotona rosa di brani scelti, pare, più per pigrizia, fama e brevità che per una qualche coerenza di contenuto e attenzione alle caratteristiche degli interpreti (vedi quest'anno, un Francesco Demuro alle prese con pezzi del tutto inadatti alla sua voce, mentre Mariangela Sicilia ha brillato come Mimì e Juliette). Il problema che, infatti, si ripropone è che da un lato a Vienna si muove un meccanismo oliatissimo di esperienze e competenze che curano ogni minimo dettaglio (in Italia non vengono proposti dalla Rai, ma vengono realizzati anche dei cortometraggi ricchi di perle musicali da trasmettere nell'intervallo: lo scorso anno si andava alla scoperta di Bruckner, quest'anno di sorprendenti rivisitazioni di Johann Strauss). A Venezia anche maestranze valide come quelle della Fenice, i corpi di ballo coinvolti, di direttori, solisti e coreografi si trovano subordinati a logiche televisive che paiono gettarsi all'inseguimento del modello austriaco senza averne assimilato fondamenti strutturali né creare qualcosa di veramente originale.
DIVULGARE: ALIBI ED ETICA Così si perdono occasioni, perché, non dimentichiamolo, la musica delle feste si può trasformare anche in una festa per la musica raggiungendo chi non la frequenta abitualmente ma fra la fine di dicembre e i primi di gennaio si sintonizza su un concerto in tv o pensa di varcare per una volta il teatro. Possiamo far sì che nasca, se non la passione bruciante, la curiosità di ripetere l'esperienza, l'attitudine a pensare “la classica” come qualcosa di bello che può trovare uno spazio, che può essere un'opzione da non scartare.
Per cogliere l'occasione, però, conditio sine qua non deve essere la qualità, sia perché l'istinto dovrebbe rivolgersi anche inconsapevolmente verso un livello più alto, sia perché, anche là dove il gusto non sia formato, chi propone avrebbe a maggior ragione il dovere morale di non approfittarsi dell'ingenuità inesperta per spacciare cocci per gemme.
Certo, bisogna crederci e per convincere bisogna per primi essere convinti. I viennesi ci credono eccome e al di là dell'impronta impressa da questo o quel direttore, di una personalità più o meno affine e di una scelta più o meno azzeccata, il concerto è costruito (e suonato dai Wiener Philharmoniker) con spirito festoso quando fiducioso nel valore intrinseco della musica. Viene il dubbio che chi da vent'anni a Venezia continui a ribadire sempre il solito spezzatino, seppur con ingredienti di qualità, forse non sia altrettanto convinto. Si tratta, comunque, di un concerto e, come tale, nella sua breve sequenza di brani si può ascoltare anche volentieri e può accompagnare piacevolmente un vasto pubblico.
Il problema serio si riscontra, semmai, in certe espressioni divulgative che fanno capolino anche nel settore generalista della radiotelevisione italiana (in Rai Cultura ci sono persone competenti che meriterebbero, anzi, maggior spazio d'azione). L'idea di far conoscere attraverso trasformazioni e mascheramenti risulta fuorviante: se per piacere un genere deve essere riplasmato nella forma di un altro, perché il pubblico non dovrebbe continuare a preferire quest'altro? E se attrae la commistione, la peculiarità che distingue un genere non finirà per essere guardata con sospetto? Perché trattare un'aria come una canzone quando esistono tante bellissime canzoni che svolgono meglio il loro mestiere e non raccontare, invece, cosa c'è intorno a quell'aria? Se vogliamo che l'opera conquisti spazio e attenzione dobbiamo riuscire a dire perché l'opera, di per sé, se lo merita credendoci.
Parimenti spesso divulgare diventa l'alibi per un basso livello, mentre dovrebbe essere il contrario: a chi non sa bisogna cercare di dare il meglio. Lo ribadiamo: è una questione etica. Una questione di rispetto per l'arte e gli interlocutori. Nulla giustifica l'errore, l'approssimazione, la qualità precaria, tantomeno di fronte a chi non ha gli strumenti per discernere e merita un approccio chiaro, graduale, ma corretto e di qualità. Proprio perché la musica “classica” gode di un prestigio e di un certo qual timore reverenziale e perché la divulgazione culturale è universalmente riconosciuta come nobile causa, capita che si cerchi la patente di divulgatore più per autoposizionamento, per servire sé stessi più che la musica. Questa autoreferenzialità a discapito della qualità è una delle piaghe più diffuse a offuscare quelle che sono invece le molte e lodevoli iniziative promosse da artisti e istituzioni con autentico valore.
TELEVISIONE, ASCOLTI, ASSENZE Proprio la festa della musica che viene dalla musica per le feste potrebbe essere, invece, un ottimo volano per arginare queste derive. Il potenziale c'è: dopo l'ottimo risultato della prima della Scala, anche il concerto di Natale in Senato ha avuto ascolti significativi ( 1 milione 799 mila spettatori, pari al 15,3% di share) e i concerti di Capodanno di Vienna (2 milioni 105 mila spettatori con il 16,9 di share) e Venezia (3 milioni 112 mila spettatori pari al 25,9 di share) non sono stati da meno. Peccato, dunque, che quest'anno non si sia visto il Concerto di Natale dalla Scala: disponibile a pagamento sulla benemerita piattaforma di streaming del teatro, viene visto da chi lo va a cercare, da chi è già interessato, un po' come, con libero accesso, avviene con i programmi di Rai5. Se il concerto scaligero fosse andato in onda durante le feste anche su Rai1, 2 o 3, magari avrebbe intercettato qualche spettatore nuovo. Così, spiace che sia scomparso dagli orizzonti televisivi Danza con me di Roberto Bolle (2018-2023): la progressiva flessione degli ascolti, comunque superiori ai due milioni e al 17% di share (ma sempre meglio di altri tentativi rimasti non a caso sul fondo delle classifiche auditel), poteva stimolare una riflessione per rinnovare la formula, ma non rinunciare in toto a una serata dedicata a un'arte tanto negletta in tv. Ricordiamoci dei bambini incantati dallo Schiaccianoci, dalla maestria dell'artigianato teatrale, dall'arte del corpo di ballo e dell'orchestra lì, per loro, dal vivo, in un momento unico e irripetibile. A questo brindiamo!
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