Ricordatemi con gioia
di Luigi Raso
Un ritratto delll'artista partenopeo e del complesso, sfaccettato rapporto che lo ha legato alla sua città natale.
Da anni non si vedeva il maestro Roberto De Simone aggirarsi tra le bancarelle di libri di Port’Alba a Napoli, tra le strade intorno al Conservatorio di Musica di San Pietro a Majella, istituzione di cui fu direttore dal 1995 al 2000. Con concerti che diventarono in breve tempo appuntamenti irrinunciabili per gli appassionati di musica napoletani (quello inaugurale del 1997 fu incentrato sul Miserere di Leonardo Leo, la composizione che Richard Wagner ascoltò nello stesso Conservatorio nel 1880) aprì alla città la ricostruita Sala Scarlatti; e come non ricordare, sempre a favore del Conservatorio, la veemente e vittoriosa battaglia per il recupero della biblioteca, scrigno di tesori musicali come poche al mondo?
Tra Napoli e Roberto De Simone l’addio è stato lungo, tormentato e silenzioso: il maestro da tempo si era chiuso in un comprensibile sdegnoso silenzio. Nelle sempre più rare prese di posizione pubbliche, non mancava di far sentire la sua voce contro il decadimento culturale e sociale della sua città nella quale era nato e nella quale, a differenza di tanti intellettuali/artisti napoletani, aveva scelto di vivere.
Napoli, dunque, cuore ed epitome della poliedrica cultura di De Simone, un po’ alla volta lo ha dimenticato, o, forse, non si è più riconosciuta, nel suo vorticoso e scomposto cambiamento, nel compositore, etnomusicologo, regista, saggista, operatore e organizzatore culturale: elencare le numerose sfaccettature della sua poliedrica personalità sarebbe davvero arduo. Ci limitiamo a ricordare Roberto De Simone come un uomo nato e vissuto per il teatro, imbevuto di una cultura, popolare e colta, che ha saputo elevare e far apprezzare oltre i confini della sua Napoli.
Non si vuol peccare di “napolicentrismo”, tendenza sempre in agguato nella città all’ombra del Vesuvio, ma Roberto De Simone deve a Napoli ciò che è; e Napoli doveva ciò che era a lui.
Roberto De Simone è presente, anche oggi che si ricorda la sua scomparsa, che ci si lamenta del colpevole e lento oblio. Napoli, quella nobilissima e plebea che la vulcanica cultura di De Simone ha decifrato e incarnato, invece sta cambiando troppo velocemente pelle per riconoscere in lui uno dei suoi più squisiti cantori e difensori.
Dei fermenti culturali che hanno visto a cavallo dei ruggenti anni ’60 e ’70 la nascita della Nuova Compagnia di Canto Popolare - grazie ad Eugenio Bennato, Roberto De Simone, Peppe Barra, Fausta Vetere e tanti altri -, della riscoperta, non priva di licenze e innesti apocrifi, della gloriosa tradizione dell’opera napoletana del ‘700 oggi resta il ricordo e qualche eroico rappresentante.
La lunga e feconda vita culturale e artistica di Roberto De Simone è stata caratterizzata dalla passione per la ricerca, la sperimentazione e il recupero delle tradizioni popolari; ha avuto l’indubbio merito di coltivare una concezione omnicomprensiva e inclusiva della cultura, fondendo istanti ed elementi apparentemente eterogenei tra loro.
Napoli a Roberto De Simone ha insegnato, ad esempio, che nei suoi palazzi disegnati da Sanfelice o Gioffredo per secoli hanno convissuto nobili e popolani, splendori e miserie, ricchezza e povertà. Napoli, nel suo relativismo, non distingue e non giudica, ma abbraccia e comprende. Se, come scrive Curzio Malaparte, “Napoli è la più misteriosa città d'Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell'immane naufragio della civiltà antica”, è dovuto anche alla misericordia e tolleranza che la innerva. E Roberto De Simone, di questa città sopravvissuta al “naufragio della civiltà antica” ha indagato la voce, quella più profonda e ancestrale, quella roca che sgorga dalle profondità delle terre del suo entroterra: è stato un rabdomante della sua vera voce, quella che potrebbe far storcere il naso (e le orecchie, soprattutto) a qualche purista, ma che De Simone ha imposto come reale e autentica.
Il suo capolavoro musicale, La gatta cenerentola, del 1976 e presentata al Festival dei Due Mondi di Spoleto, è la sintesi perfetta del mondo di De Simone: in questa opera vivono e si conciliano i suoi topoi musicali e teatrali. Mondo antico e moderno nella Gatta cenerentola trovano una sintesi mirabile e innovativa, il capolavoro della propria attività di rabdomante di echi di civiltà sepolte sotto la lava ma desiderose di essere scoperte.
Nel provare ad abbozzare, a poche ore dalla sua scomparsa, un ricordo di Roberto De Simone, siamo partiti dal Conservatorio di San Pietro a Majella; ma c’è un altro luogo cruciale per la sua vita: il Teatro di San Carlo.
Del massimo teatro napoletano Roberto De Simone, negli anni dell’illuminata e indimenticabile sovrintendenza di Francesco Canessa, è stato direttore artistico dal 1981 al 1987: qui firma stagioni che vedono costantemente riscoprire lo sterminato patrimonio musicale della scuola musicale partenopea del ‘700, nonché rarità come Salammbô di Modest Musorgskij.
La riscoperta del Flaminio di Giovanni Battista Pergolesi (1882, al Teatro Goldoni di Venezia e l’anno successivo al San Carlo) è forse il punto più alto e fortunato della frenetica attività di riscoperta musicale del ‘700 napoletano: lo spettacolo fu esportato in vari paesi europei riscuotendo enorme successo di pubblico.
“Regia di Roberto De Simone, scene di Mauro Carosi, costumi di Odette Nicoletti”, si leggeva in tante locandine del San Carlo: questi tre demiurghi si tanti spettacoli, partendo dalla tradizione architettonica napoletana e dalle raffinate statuine del Real Fabbrica di porcellane di Capodimonte, portavano in Europa, in una encomiabile e meritoria opera di sprovincializzazione, in uno spaccato di cultura partenopea rivitalizzata, ancora sporca dell’humus dal quale era stata resuscitata.
Al Flaminio seguirono La serva padrona (addirittura a Baku nel 1982, poi e al Teatrino di Corte di Palazzo reale di Napoli, nel 1982), Piedigrotta di Luigi Ricci, Crispino e la comare di Federico e Luigi Ricci, La schiava liberata di Niccolò Jommelli (1984), Stabat Mater di Pergolesi “teatralizzato” con la partecipazione di Irene Papas nella Basilica di san Francesco di Paola, le innumerevoli riprese del Flaminio, biglietto da visita e fiore all’occhiello della gestione Canessa – De Simone. E tanti altri titoli, come L’idolo cinese di Paisiello, Le cantatrici villane di Valentino Fioravanti, Il maestro di cappella di Domenico Cimarosa. Correvano gli anni ’80, anni complessi e difficili per la città, quelli del post sisma del 1980, ma Napoli, nell’eterna convivenza tra beatitudine e dannazione, era il palcoscenico anche di Roberto De Simone e del nuovo sound di Pino Daniele, così come ti tanti altri artisti che hanno saputo illuminare il periodo più buio della città nel secondo dopoguerra, sconvolta dalle guerre di camorra, tenendone in vita lo spirito e producendo ed esportando “bellezza”. Se non il mondo, la bellezza ha sicuramente salvato Napoli.
Ma l’attività teatrale di Roberto De Simone non è rimasta confinata nel prestigioso perimetro del San Carlo: il 7 dicembre 1986 ha l’onore di firmare la regia di Nabucco che apre la stagione 1986/87 del Teatro alla Scala e, soprattutto, i quasi vent'anni di direzione musicale di Riccardo Muti del teatro meneghino. Quel Nabucco è un trionfo, per il direttore (che è costretto a bissare a furor di pubblico “Va, pensiero”) e per De Simone. Alla Scala De Simone tornerà nel 1989 anche per il fortunatissimo Lo frate 'nnamorato di Pergolesi, sotto l’altrettanto ispirata direzione dello stesso Muti.
Dopo Milano, semplificando le tappe, il successo gli apre le porte di Vienna, dove firma Don Giovanni e Così fan tutte, ancora sotto l’espertissima e italianissima direzione dell’amico Riccardo Muti.
Chi scrive ha avuto la fortuna di vedere a teatro molti suoi spettacoli: vividi, immersi in una teatralità spontanea, a volte al di sopra delle righe, troppo compiaciuta di certi eccessi, di taluni inserimenti apocrifi, ma di cui resta fermo e netto il ricordo. Quel costante vitalismo si propagava dalla scena e coinvolgeva il pubblico, destando anche qualche crassa risata: in una parola, ci si ricorda il “teatro” che quegli spettacoli emanavano. E pazienza se opere come Il convitato di pietra di Giacomo Tritto o Il Socrate immaginario di Paisiello, Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Donizetti, Pergolesi in Olimpiade di Pergolesi e De Simone scontassero dei rifacimenti sovrabbondanti: quei pastiche, lontani anni luce dalle odierne edizioni critiche ed esecuzioni filologiche, hanno però avuto il merito di coinvolgere un pubblico ampio, che accorreva a teatro come oggi accade per La traviata e La bohéme.
Finita quell’epoca di rivisitazione e riscoperta di questo patrimonio ad opera di De Simone, le successive esecuzioni, pur pregevoli, hanno avuto il sapore di riprese ad uso e consumo di ristretti circoli di fini e dotti intenditori: la vena e la finalità - mi si passi l’aggettivo - pop di quei recuperi, ad ogni ascolto/riesumazione, appariva smarrita per sempre.
L’intelligenza e il merito di Roberto De Simone stanno nel non aver mai perso di vista l’elemento strettamente popolare, popolaresco e triviale della cultura.
La città di Napoli, la sua conformazione urbanistica, la sua struttura sociale e architettonica lo ha insegnato e ribadito a Roberto De Simone in tutta la sua esistenza, condotta in zone di Napoli agli antipodi tra loro (Posillipo e via Foria), come a voler saldare un ideale debito di riconoscenza verso la città bifronte (anzi, multiforme) che ha plasmato la sua personalità.
Oggi qui si è provato a ricordare - al di là delle emozioni, dallo stupore e da qualche nota di personale disapprovazione per qualche rivisitazione troppo lontana dallo spirito dell’autore, che i suoi spettacoli hanno suscitato in chi scrive - un intellettuale, la cui etica dell’impegno civile è ancorata al ‘900; un’etica intellettuale figlia di una cultura che ha venerato la serietà, lo scrupolo, la ricerca e la passione a discapito del facile e ampio consenso. Roberto De Simone è una figura complessa, a tratti spigolosa, un polemista tagliente (si ricordino i suoi interventi - vox clamantis in deserto! - sulla compromissione dell’acustica del San Carlo a seguito dei lavori di restauro del 2008 – 2009 e la battaglia - persa, purtroppo - per la restituzione del ridotto originario alla disponibilità del teatro, concesso dal 1863 al Circolo Nazionale dell’Unione.
L’ultimo atto della vita civile di Roberto De Simone si compie proprio al San Carlo: la camera ardente sarà allestita presso il Foyer e sarà aperta al pubblico martedì 8 aprile, dalle ore 13:00 alle 19:00 (alle ore 13:30, il quartetto d’archi dei professori del Teatroeseguirà il Requiem di Mozart in onore del Maestro) e mercoledì 9 aprile dalle ore 10:00 alle 14:00, come recita il comunicato del Teatro San Carlo.
“Quando me ne sarò andato, ricordatemi con gioia!” invita Edipo nell’omonima tragedia di Sofocle: Roberto De Simone a noi amanti del teatro e della musica ha donato gioia. E con gioia, seppur velata da malinconia per la sua perdita, vogliamo ricordarlo.