L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Marie napoletana

di Luigi Raso

Nella prima rappresentazione assoluta al San Carlo di Napoli della versione originale francese della Fille du Régiment l'aspetto teatrale, con la regia firmata da Damiano Michieletto, convince molto più di quello musicale.

Parigi, 1840: Gaetano Donizetti ha lasciato Napoli da meno di due anni. Dal 1822 al 1838 ha retto, dopo il settennato (1815 – 1822) di Gioachino Rossini, le sorti artistiche del San Carlo. Il rapporto tra il compositore “bergamasco napoletano”, come egli stesso si definiva, con la città, il Teatro , il suo Conservatorio gli ha regalato gioie e dolori, personali e lavorativi. Dal Vesuvio alla Senna: Donizetti nel 1838 è nella capitale transalpina; re dei francesi è Louis Philippe d’Orléans.

Nel 1840 scrive per la salle Favart La fille du régiment, suo primo lavoro in francese scritto per i palcoscenici parigini, e sorprende come sia riuscito a far proprio, fondendolo con il culto della precisione melodica del belcanto italiano, lo spirito brioso e frizzante dell’opéra-comique.

Lafille du régiment è indubbiamente un capolavoro del suo genere, una partitura spumeggiante, debordante di ritmo e sentimento, che fonde la leggerezza del prototipo di ciò che sarà l’operetta francese con l’eleganza e l’ampiezza melodica della tradizione italiana. Una sintesi mirabile e originale: il regno della melodia italiana si unisce alla nuova, per Donizetti, forma musicale francese. Ne nasce un opéra comique che nel 1840 anticipa, per leggerezza, raffinatezza e scintillio strumentale e vocale, le più ispirate operette di Jacques Offenbach, “le petit Mozart des Champs-Elysées” (copyright di Gioachino Rossini) successive alla Fille di oltre un decennio.

Pochissimi (dei pochi) presenti alla prima di questa produzione sancarliana dell’opéra comique di Donizetti potranno affermare di essere stati presenti all’ultima (nel 1965, dopo la prima napoletana del 1846) ripresa della Figlia del reggimento, andata in scena nella versione italiana approntata da Donizetti stesso sulla traduzione ritmica (e non solo) di Calisto Bassi e con Anna Moffo quale Maria; nessuno invece ha ascoltato qui l’opera nell’originale francese, poiché fino a stasera mai era stata rappresentata al San Carlo.

Occasione – la conoscenza della Fille du régiment nella versione originale francese da parte del pubblico napoletano – dunque interessante e lodevole, tanto più che la produzione riserva sorprese positive per la parte registica e visiva dello spettacolo. Più articolato, e meno entusiastico, come si dirà, invece il giudizio sull’aspetto musicale.

Ma iniziamo dalle note positive: il regista Damiano Michieletto ritorna a Napoli dopo Die Entführung aus dem Serail di Mozart dell’ormai lontano 2009 (quello spettacolo, molti lo ricorderanno, imperniato attorno allo yacht del ricchissimo e cafonissimo Selim, per l’occasione trasformato in un vecchio playboy circondato da bellissime e disponibilissime ragazze che, sulle note del coro dei giannizzeri, danzavo la lap-dance intorno all’albero del vasto natante); se sedici anni fa il veneziano era considerato l’enfant prodige della regia lirica nel nostro Paese, oggi è l'italiano più richiesto all’estero.

Questa Fille du régiment è una coproduzione tra il Teatro di San Carlo e la Bayerische Staatsoper dove ha debuttato nel dicembre dello scorso anno. Spettacolo indubbiamente riuscito nella quasi totalità: la sapienza tecnica e l’inventiva di Damiano Michieletto imprimono una narrazione estremamente curata, movimentata e perfettamente calibrata su tutti gli artisti impegnati sulla scena. Non ci sono rallentamenti nella narrazione, lo spazio scenico dominato dal bianco e le scenografie – eleganti, raffinate nella loro calligrafica definizione dei particolari di Paolo Fantin – fanno risaltare ancor più la bellezza e la preziosità della fattura dei meravigliosi e fiabeschi costumi di Agostino Cavalca, tra le componenti più interessanti dell’intero spettacolo. Un bel mix di scenografia, costumi, luci all’interno della quale si aggira la coerente, fresca e curatissima regia di Damiano Michieletto, che con questo spettacolo dimostra che non esistono spettacoli innovativi o tradizionali, ma soltanto coerenti/intelligenti e incoerenti/incongruenti. E questa Fille è sicuramente intelligente, coerente, profonda ed esteticamente bella da vedere e da godere.

Con questi elevatissimi livelli di tecnica teatrale, Michieletto dà una lettura duale della Fille du régiment: al suo interno coesiste il contrasto tra due mondi. Da una parte, la natura, la spontaneità e l’istinto militaresco e “maschiaccio” di Marie; dall’altra, la città, qui vista quale crogiolo di convenzioni sociali e di buone maniere che tendono a sopprimere l’istinto e l’amore che dominano il mondo della natura. Nella città la Marquise de Berkenfield prova ad addomesticare i comportamenti rozzi e rudi di Marie, ad indirizzare la nipote/figlia verso un amore diverso da quello che la fanciulla nutre: tentativi vani, la protagonistae non rinuncia al proprio modo di essere e al suo sentimento per Tonio.

Questa dicotomia tra i due mondi è perfettamente rappresentata dalle scenografie di Paolo Fantin: in un elegante gioco di rimandi si alternano paesaggi tirolesi dominati da vegetazione conifere e quelli che evocano una dimora nobiliare, all’interno della quale Maria, ridotta a bambolina, è imprigionata nella nuova identità che le si vorrebbe imporre.

Ad impreziosire questa visione, ad esaltare l’eleganza delle scene ci sono le luci di Alessandro Carletti, che ben evidenziano movimenti e stati d’animo nel corso dell’opera.

Ciò che convince meno dello spettacolo è, in primo luogo, la sostituzione dei recitativi propri della Fille du régiment – sebbene operazione di per sé comprensibile e condivisibile: far sciorinare lunghi, seppure divertenti, dialoghi privi di accompagnamento musicale in un teatro di un paese non francofono avrebbe potuto tediare il pubblico, oltre a risultare di ardua comprensione – con una nuova drammaturgia, di Mattia Palma, che assegna alla frizzante, divertentissima e bravissima Duchesse de Krakenthorp di Marisa Laurito anche il ruolo di narratrice. La simpaticissima attrice, con il suo repertorio di battute, con una lingua che mescola italiano, napoletano e francese dalla forte cadenza partenopea, è efficacissima a scandire con ritmo esuberante il fluire della nuova drammaturgia dell’opera. Resta il dubbio, però, di trovarsi davanti a una riscrittura che nulla ha a che vedere con la Fille e che, in definitiva, abusando di battute in napoletano, rischia di provincializzarla indirizzandola verso un territorio teatrale a lei alieno, quello della commedia di Eduardo Scarpetta, pregevole di per sé, ma lontana, per spirito e forme, dalla sulfurea drammaturgia donizettiana.

Altra menda registica è l’aver relegato, per il primo atto dell’opera, troppo spesso gli interpreti vocali, in particolare la Marie di Pretty Yende, nel fondo della struttura scenica: a farne le spese è il bilanciamento sonoro, anche per gli evidenti limiti di volume del soprano, come si dirà.

Il versante musicale, poi, in questa produzione è di livello qualitativo generale ben inferiore rispetto a quello dell’aspetto puramente teatrale.

Riccardo Bisatti, giovanissimo (classe 2000) e promettente direttore d’orchestra denota indubbiamente talento, buone idee, ma al tempo stesso incorre in qualche imprecisione nella gestione del rapporto tra buca e palcoscenico: la sincronia non è sempre assicurata; problematico, soprattutto nel corso del primo atto, la corretta gestione dei volumi tra canto, coro e orchestra. Qualche scelta agogica (la cabaletta di Marie “Salut à la France”, ad esempio) è priva di nerbo; si avverte la tentazione, sempre in agguato, di cedere alle lusinghe di eccessivi affondi e fragori che il plot e la scrittura musicale militareschi dell’opera emanano.

L’Orchestra del San Carlo ha nel complesso bel suono, sebbene distante da quello brioso, aereo e scintillante proprio di questo repertorio; qualche imprecisione e sbandamento si avverte anche nel rapporto con il Coro. Fabrizio Cassi, maestro di quest'ultimo, ha il merito di aver trovato, dopo le recenti prove della Fanciulla del West (la recensione) e Attila (la recensione) accenti e colori improntati a morbidezza, levigati. Al netto di qualche sbandamento, la prova del Coro è efficace e convincente, eccellente e credibile anche nella recitazione che la regia di Michieletto affida a tutti gli elementi.

Purtroppo i due protagonisti dell’opera, Marie e Tonio, i due pilastri che reggono la vocalità della Fille du régiment, qui il soprano sudafricano Pretty Yende e il tenore russo Ruzil Gatin, non riescono ad imporsi adeguatamente e a risultare del tutto convincenti e avvincenti.

Yende è una Marie dal peso esiguo, penalizzata in ciò anche dall’essere relegata – come per la meravigliosa romanza “Il faut partir!”sul fondo della scena. Le colorature non sono smaglianti, la pasta vocale non riluce di un’ampia tavolozza di colori; la proiezione appare limitata. L’interprete, poi, è tendenzialmente compassata; esuberante, invece, per recitazione; Pretty Yende prende quota soprattutto nel secondo atto, pur rimanendo distante dall’empito travolgente che Marie dovrebbe avere.

Emissione poco fluida e problemi di appoggio sul fiato, invece, fanno da cornice alla prova di Ruzil Gatin, un Tonio troppo concentrato, nel corso del primo atto, a pensare a come passare indenne sotto le forche caudine della girandola dei nove do di petto di “Ah! mes amis, quel jour de fête”.

Gli acuti, da tenore contraltino, sono precisi e anche di buon peso e squillo, ma la parte di Tonio non si può ridurre alla micidiale sequenza di do. Gatin migliora nel secondo atto: punta ancora sui propri punti di forza, gli acuti, a scapito di una linea di canto corretta, elegante, fluida e coinvolgente: in “Pour me rapprocher de Marie” sceglie la versione con un mi bemolle (non proprio sicurissimo e bello da sentire, per la verità) nelle battute finali.

Comunicativo, dalla linea di canto imperniata su un’emissione corretta e morbida è Sulpice di Sergio Vitale, efficacissimo nella recitazione e ottimo fulcro dei due terzetti dell’atto II.

Un cameo quello di Sonia Ganassi nelle vesti sontuose della Marquise de Berkenfield: al personaggio dona il proprio bagaglio di esperienza teatrale e acume interpretativo – pregevoli i couplets iniziali –, dote che riesce a mettere in ombra condizioni e organizzazione vocale ormai problematici.

Nei ruoli secondari, puntuali Hortensius di Eugenio Di Lieto, un Caporal di Salvatore De Crescenzo e un Paysan di Ivan Lualdi, questi ultimi due artisti del Coro del San Carlo.

Infine, Marisa Laurito, a dare corpo, voce e anima alla Duchesse de Krakenthorp, qui promossa al rango di narratrice, di colei che tesse i fili della trama farcendola con il suo repertorio di citazioni di battute – “Nzerra chella porta!”, ad esempiodi Eduardo De Filippo, alla cui scuola teatrale è cresciuta, con i suoi emblematici “figuuuuuratiii!”. Attrice brillante e carismatica, ma, come detto, innestata in una riscrittura drammaturgica dei dialoghi lontana per spirito e cultura con quella propria della Fille du régiment.

Il pubblico del San Carlo, non folto – probabilmente per l’orario inconsueto della prima (lo spettacolo è iniziato alle ore 17), forse per il match serale della squadra di calcio cittadina impegnata in una partita decisiva nella lotta per lo scudetto – applaude lo spettacolo e tutti i suoi artefici con entusiasmo vivo, caloroso e prolungato.

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