Il valore del tempo
Il risultato interlocutorio della Bohème presentata dal Regio di Parma in coproduzione con OperaLombardia e il Valli di Reggio Emilia suggerisce qualche riflessione su programmazione e gestione delle carriere.
PARMA, 6 aprile 2025 - Uno spettatore in platea racconta all'amico vicino di quando, militare di leva, suggeriva al commilitone frasi da inserire nelle quotidiane lettere alla fidanzata. Tutte citazioni operistiche, fra cui “Ho tante cose che ti voglio dire o una sola, ma grande come il mare, come il mare profonda ed infinita... Sei il mio amore e tutta la mia vita”. Sono anche questi aneddoti, insieme con la bellezza della città, i motivi per cui al Regio di Parma si viene sempre volentieri: è un teatro con una spiccata personalità, vivo, ruspante, a volte eccessivo, ma con anche uno degli uffici stampa più accoglienti e amabili che esistano (grazie, Paolo Maier: il fattore umano conta eccome).
Si torna sempre volentieri a Parma anche quando alcune scelte e una programmazione non esattamente stuzzicante e fantasiosa prestano il fianco a qualche dubbio. D'altra parte, è quando si tiene a qualcuno o a qualcosa che si fa presente ciò che si ritiene si possa migliorare, altrimenti, se non importasse nulla, nulla ci sarebbe da dire. E invece su questa Bohème di osservazioni da fare ce ne sono, specifiche sullo spettacolo e più generali sull'impostazione e l'identità della stagione. Per quanto a volte sembri che il pubblico melomane sia più propenso a guardar le figure che a drizzare le orecchie, questi rilievi non riguardano l'allestimento e la regia.
Lo spettacolo coprodotto con OperaLombardia, con un progetto teatrale vincitore di un concorso presenta senz'altro dei limiti, connaturati anche alla scelta di una squadra creativa giovane senza moltissima esperienza (Marialuisa Bafunno, regia e costumi; Eleonora Peronetti, scene; Gianni Bertoli, luci; Emanuele Rosa, coreografie; Katarina Vukcevic, collaboratrice ai costumi), ma anche dei pregi. Per quanto nel complesso la recitazione potrebbe essere senz'altro più rifinita e smaliziata, sono ben caratterizzati la Musetta influencer (a ben pensarci, tutti la conoscono, tutti le prestano attenzione, ma non si capisce bene perché!) e il Colline attivista ambientale. Ben consolidata nella prassi teatrale degli ultimi decenni è la scelta dell'azione come analessi, rievocata da Rodolfo ormai anziano (Marco Bonucci) e tutto si svolge in effetti con rassicurante linearità. Benché qualcuno ancora si stupisca per un paio di jeans o una macchina da scrivere (questo Rodolfo contemporaneo è un po' vintage...), si tratta di uno spettacolo tutto sommato tradizionale.
Meno lisce filano le cose sul piano musicale. E qui il discorso può farsi anche più ampio, perché riguarda sia la pianificazione delle stagioni sia la gestione delle carriere dei giovani talenti. Non v'è dubbio che lo sia Riccardo Bisatti – già sul podio per le recite lombarde di questa Bohème. Ma se la sovraesposizione di questi ultimi tempi da un lato lo conferma, dall'altro lo sta mettendo a rischio e questa “giornata no” quale può capitare a tutti in una carriera, per un ragazzo di nemmeno venticinque anni può suonare anche come un saggio avvertimento. Si notano un po' troppe imprecisioni e un non perfetto bilanciamento fra buca e palco, oltre a un respiro piuttosto macchinoso rispetto al canto. Nei momenti più brillanti, la concitazione sembra prendere il sopravvento con un entusiasmo giovanile talvolta eccessivo anche nelle dinamiche; per contro, la fascinazione per alcuni dettagli indubbiamente ben delineati nelle arie e nei passi lirici sembra portarlo a dilatazioni estreme che risultano ancora un po' fini a sé stesse. Insomma, la lettura è senz'altro appassionata, ma appare ancora acerba e ricorda come certi titoli e certi teatri si possano considerare un punto di arrivo, come interpreti così giovani e dotati possano prendersi tutto il tempo per crescere, senza per forza bruciare subito debutti su debutti. Rispetto a un cantante, che può sciupare irrimediabilmente la voce, un direttore è avvantaggiato nell'affrontare anche qualche azzardo, ma è pur sempre opportuno fare attenzione. L'interesse di tutti è che i talenti maturino pienamente e nei giusti tempi.
Bisogna anche dire l'abbinamento con la Filarmonica di Parma non è dei più propizi, perché da un lato l'orchestra, che non ha un'assidua attività con questo organico ma raduna professori - alcuni volti noti e alcuni giovanissimi - in forze a diversi complessi affini, si sarebbe giovata di una bacchetta più esperta, dall'altro lo stesso direttore avrebbe potuto trovare miglior sostegno in un assieme più consolidato. Ciò non vuol dire, anche qui, che non si siano ascoltati begli interventi strumentali, semmai che sia importante e troppo spesso trascurata la presenza di complessi stabili nelle produzioni operistiche. La tendenza oggi invece sembra quella di mettere in secondo piano la qualità delle orchestre. I quattro titoli della stagione parmigiana contano quattro diversi complessi in locandina e il divario generale rispetto alla Toscanini (presente nella produzione inaugurale) è evidente né, si badi bene, questo significa puntare il dito contro chi in buca sta dando prova di grande impegno e contro i numerosi validissimi strumentisti che vediamo apparire in diversi organici con diversi nomi. Anzi, è un invito rivolto a teatri e festival perché si valorizzino questi musicisti permettendo loro di crescere e consolidarsi in maestranze più stabili e selezionate.
Va da sé, purtroppo, che sovente si abbia la sensazione che il cast possa dare più di quanto non si percepisca effettivamente. È un peccato, perché la locandina schiera ottimi professionisti e la resa vocale è comunque attendibile, anche al netto di qualche sfasatura o di qualche fraseggio un po' stentato. Intriga l'abbinamento fra una Mimì luminosa come Roberta Mantegna e una Musetta dal colore più scuro e sensuale come Maria Novella Malfatti: un contrasto inusuale che si confà al carattere dei personaggi e alle ottime qualità vocali dei due soprani. Atalla Ayan è un Rodolfo sicuro, dall'emissione sempre chiara e pulita e Alessandro Luongo un Marcello simpaticamente sanguigno dalla bella pasta vocale. Bene anche Roberto Lorenzi, che rende con nonchalance la caratterizzazione queer di Schaunard e Aleksei Kulagin, Colline il cui timbro giovanile si scurisce nella malinconia della “Vecchia zimarra”. Eugenio Maria Degiacomi evita ogni macchiettismo e si mostra distinto sia come Benoit sia come Alcindoro. Francesco Congiu è uno squillante Parpignol. Angelo Lodetti, Matteo Mazzoli e Matteo Monni completano il cast come doganieri e venditore ambulante.
Il coro del Regio preparato da Martino Faggiani merita applausi con quello delle voci bianche (compresa la piccola solista) di Massimo Fiocchi Malaspina e la banda degli allievi del Conservatorio Peri-Merulo di Reggio Emilia. La bohème, dopotutto vince sempre e l'impegno di ciascuno, l'entusiasmo è evidente, anche in uno spettacolo aperto a qualche distinguo.
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