Il nome della Vergine
Lascia l'amaro in bocca, nell'apertura della stagione del Regio di Parma, la scelta di eseguire Giovanna d'Arco con le vecchie censure ottocentesche e non secondo l'autografo verdiano. Convince il cast, con punte di entusiasmo per l'ottimo baritono Ariunbaatar Ganbaatar; la regia di Emma Dante si muove con discrezione e presta il fianco a qualche distinguo fra intenzioni e realizzazione la bacchetta di Michele Gamba.
PARMA 24 gennaio 2025 - “Una stanza e del vino” Che direste se in Rigoletto sentiste ancora il Duca fare questa richiesta a Sparafucile? È vero, è successo recentemente all'Arena di Verona, che non è esattamente la casa dello scrupolo musicale, ma in generale si rimarrebbe attoniti: nel 2025 tradire ancora Verdi con vecchie censure? Eppure, al Regio di Parma Giovanna d'Arco va ancora in scena con le censure di centottant'anni fa, le stesse che l'edizione critica avrebbe da tempo spazzato via e che il libretto di sala accuratamente segnala ed emenda. Nel 2008 Bruno Bartoletti giustamente diresse l'opera come Verdi l'ha scritta, con Maria, la Francia, la Fede nominati esplicitamente e non sostituiti in modo più o meno goffo dai censori (la Pia, il Dio vindice, l'alme dei parenti, tua madre...), soprattutto con quell'esplicito e fortissimo “Pura e vergine sei tu?” invece del blando “Non sacrilega sei tu?”. Non è cosa da poco, in una drammaturgia basata su un dilaniante conflitto interiore fra missione mistica e tentazioni di “umano affetto”, e Verdi, sommo drammaturgo, ben lo sapeva. Tornare indietro è tradirlo, specie nella città dove ha sede l'Istituto Nazionale di Studi Verdiani e nel teatro che gli dedica un festival con sacrosante ambizioni musicologiche (ma che nel 2016 incappò nello stesso errore). Non sappiamo da chi sia dipesa questa anacronistica scelta testuale, che asseconda peraltro una visione dell'opera sminuita nel suo effettivo valore, ma riteniamo sarebbe stato un dovere del direttore Michele Gamba imporsi per il rispetto dell'edizione critica e di Verdi, per cui la parola e il dramma erano fondamentali.
Al di là di questo vulnus di base, la concertazione parte, secondo quanto leggiamo nell'intervista sul programma di sala, da considerazioni teoriche condivisibili o comunque interessanti, tuttavia sembra sovente perdersi proprio in un eccesso di speculazione che fatica a concretizzarsi. La ricerca evidente di un contrasto estremo nella sinfonia fra il tempestoso tema marziale e quello pastorale rende il primo fin troppo secco e greve, il secondo dilatato all'inverosimile, con non pochi problemi di tenuta della frase. Le cose si assestano via via, dopo un quadro introduttivo ancora segnato da qualche squilibrio e nonostante qualche sbilanciamento occasionale (pensiamo al prezioso accompagnamento di “Chi più fedele amico” – anzi, qui “Quale più fido amico”, tradendo ancora l'edizione critica – con il violoncello a sovrastare il clarinetto). Sicuramente a Gamba va riconosciuto il merito di aver sollecitato sensate variazioni nelle riprese e di aver cercato una mobilità dell'accompagnamento che convince, per esempio, nel quadro della piazza di Reims. Quello sviluppo dinamico che si apprezza proprio nel coro “Del cielo a noi chi viene”, purtroppo, però, non sempre si realizza, lasciando sovente colori e fraseggio più nell'alveo delle intenzioni.
Il coro del Regio preparato da Martino Faggiani (apprezzabile soprattutto nelle voci sovrannaturali) e la Filarmonica Toscanini sono sempre compagini di valore, anche in altre occasioni abbiamo avuto modo di ammirarne meglio le qualità.
Nulla da dire, poi, sul cast, di ottimo livello generale. Chi riceve, meritatamente, più applausi e viene incoronato vincitore dal pubblico parmigiano è senz'altro il baritono Ariunbaatar Ganbaatar (Giacomo): voce franca, bella, sicura e duttile, bella pronuncia italiana, giusta intenzione, ottima figura e predisposizione teatrale. Non si può che pronosticare una luminosissima carriera per l'artista mongolo.
Luciano Ganci, già Carlo VII nel 2016 al Farnese, è l'ottimo tenore verdiano che conosciamo, squillante, eloquente, musicale, sicuro anche là dove la scrittura costeggia figure belcantistiche.
Comprensibilmente Nino Machaidze si muove nella parte monstre di Giovanna con qualche cautela e soprattutto all'inizio sembra esibire più forza che finezza, ma la sua prova è in crescendo, si fa apprezzare nella complessa “O fatidica foresta” come nell'ostico finale, siglando una prova senz'altro convincente.
Molto bene anche il giovane Francesco Congiu come Delil. Krzysztof Bączyk vestiva i panni di Talbot.
In un'opera così profonda e delicata nell'indagine della psicologia femminile, in cui Verdi delinea, con un'economia di mezzi da cui già traspare il genio del drammaturgo musicale, una dimensione interiore della protagonista (sia di delirio, sia di trauma, sia di vera ispirazione divina resta libera interpretazione) aliena rispetto al sistema di valori incarnato dal padre, Emma Dante pare muoversi con discrezione, senza esporsi troppo. La dicotomia fra bene e male (siano essi reali o costruzioni/imposizioni culturali) pare non interessarle molto, tant'è vero che le figure angeliche – le vittime di guerra le cui ferite sono fiorite – danzano anche sul tema del coro demoniaco e che lo stendardo di Giovanna (che la tradizione vuole mariano, bianco e celeste) sono rossi come le gonne fiammeggianti di cui la costumista Vanessa Sannino veste sirene infere pronte a trasformarsi in lingue di fuoco. Come a dire che peccato, passione, misticismo ardono allo stesso modo, senza distinzioni morali nella femminilità mai messa in discussione (niente stivali e pantaloni per la Pulzella) della protagonista. Lo spettacolo è senz'altro gradevole, grazie anche alle scene di Carmine Maringola, alle luci di Luigi Biondi e alle coreografie di Manuela Lo Sicco, tuttavia si sente a tratti la mancanza di una più forte idea teatrale ad animare un'opera assai sfaccettata, in realtà, sia che si concentri l'attenzione su un'introspettiva Giovanna/Donna sia che si punti su un'universale e politica Giovanna/Simbolo.
La soddisfazione del pubblico è evidente nelle chiamate finali. Fa piacere, certo, ma non manca un po' d'amaro in bocca perché Verdi, certo, vince sempre, ma dando fiducia a ciò che lui volle e scrisse si sarebbero posti in tutta evidenza la forza e la profondità anche di un titolo spesso sottovalutato come Giovanna d'Arco.
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