L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un’opera neonata, romanzo alla Scala

di Francesco Lora

Il primo allestimento assoluto del Nome della rosa di Francesco Filidei, nel massimo teatro milanese, è un evento riuscitissimo grazie al pregio della composizione, alla concertazione di Ingo Metzmacher nonché allo spettacolo con regìa di Damiano Michieletto e – soprattutto – scene di Paolo Fantin. Il discorso si annoda invece quanto alla compagnia di canto, dove il protagonismo di Kate Lindsey e Lucas Meachem finisce ampiamente sopravanzato dai camei di Daniela Barcellona, Roberto Frontali e Carlo Vistoli.

MILANO, 10 maggio 2025 – Se è tratta dal romanzo di Umberto Eco e s’intitola Il nome della rosa, l’opera è già famosa. Quella neonata con libretto di Francesco Filidei e Stefano Busellato, con musica di Filidei stesso, è un adattamento azzeccato, che a taluni pilastri della narrazione – si pensi alla descrizione dell’edificio e alla struttura della biblioteca – sostituisce abbondante color locale, confidando anche nella componente visiva. La partitura è di quelle che non perdono d’orecchio la collaborativa, virtuosa e confortevole triangolazione tra chi compone, chi esegue e chi ascolta; trabocca di evocazioni gregoriane e rinvii a tópoi della letteratura operistica (prima ancora che a specifici passi di specifici lavori); è destinata alle forze di un grande teatro e può dare ragguardevole dimostrazione di potenza produttiva e istituzionale. Non a caso si tratta di una commissione del Teatro alla Scala di Milano e dell’Opéra national di Parigi, di un nuovo allestimento della Scala e di una coproduzione della medesima con l’Opéra e col Teatro “Carlo Felice” di Genova. Ecco qualche parola da accodare alle primissime cinque recite scaligere, date tra il 27 aprile e il 10 maggio, ponendo sotto la lente – ciò detto – più la parte interpretativa che quella testuale.

In quanto complementare alle parole e alla musica – ai limiti della co-autorialità – va anzitutto interpellato il lavoro del regista Damiano Michieletto, dello scenografo Paolo Fantin, della costumista Carla Teti, del light designer Fabio Barettin e della coreografa Erika Rombaldoni, ma ciò soprattutto per ribadire quale sfacciata fortuna sia, per Michieletto, poter contare sulla fedeltà di Fantin: ancora una volta compete a lui, con indicibili virtuosismi visivi, creare l’immagine teatrale memorabile, dal luminoso labirinto sospeso ai “carri” latori di visioni e controscene, fino all’effigie mariana che detona prospetticamente nell’avanzare verso il boccascena. Non d’inventore estroso ma di attento mediatore risulta invece il ruolo di Ingo Metzmacher, l’abnegato e valente concertatore che coordina intorno a sé i versatili pregi delle maestranze scaligere, estese fino al coro di voci bianche, nonché una compagnia di diciassette cantanti in ventun personaggi.

Qui il discorso si annoda, poiché l’impressione è che i committenti e il compositore avessero inizialmente sognato una locandina di camei, dove ogni parte o quasi fosse affidata a un grande vocalista, ma che poi, forse, si sia dovuto scendere a pratici compromessi tra le parti coproducenti, o che poi, forse, più di un artista desiderato abbia detto di no o fatto un passo indietro. Insomma: la compagnia si presenta invero disomogenea e non sempre allineata alle istanze evidenti della partitura, con conseguenti sbilanciamenti tra la gerarchia dei ruoli, il merito delle carriere e l’apporto dell’esperienza. Il primo punto debole consiste proprio nella coppia che quasi ininterrottamente calca la scena: Kate Lindsey, come Adso da Melk, e Lucas Meachem, come Guglielmo da Baskerville, agiscono non con la spigliatezza implicita al carattere dei loro formidabili personaggi, ma impauriti dal dover declamare in una lingua – l’italiano – per loro tutt’altro che fluente; si aggiunga che nel caso della Lindsey la personalità pare limitarsi alla convenzione di chi ricicli l’Octavian e il Komponist di Strauss, e si aggiunga che nel caso di Meachem – baritono puro – la tessitura rimane assai centrale e senza vere occasioni di sfogo nel registro acuto: ci si domanderà allora perché mai non si siano fatte carte false onde avere interpreti più calzanti, quali avrebbero potuto essere, rispettivamente, una Cecilia Molinari o un Michele Pertusi.

I colleghi italiani, del resto, fanno meraviglie sia nelle parole sia nella musica, riuscendo a cogliere un flusso naturale del porgere anche al cospetto di frasi studiatamente antiprosodiche e antimelodiche. Se la parte dell’inquisitore Bernardo Gui si carica di enigmatica e inquietante minaccia, ciò è già per il semplice fatto che esce in scena Daniela Barcellona con la sua aura di diva: il dato che sia ella a occuparsene vale in sé più di come ella se ne occupi (sia chiaro: strabene). L’altro grande cameo conseguito – per il teatro prima che per l’interprete – è quello di Roberto Frontali, impegnato, come Salvatore, qui nelle tortuosità linguistiche veicolate da un canto irruvidito, là negli strazi, anche visivi e dunque attoriali, dell’uomo torturato.

Due personalissime voci di basso, cavernosa e sinistra nel caso di Gianluca Buratto, morbida e pomposa in quello di Fabrizio Beggi, definiscono a loro volta il tremendo avvelenatore Jorge da Burgos e l’incauto abate Abbone da Fossanova. Mezzi vocali più copiosi di quanto il caratterismo richieda si trovano nel trio tenorile formato da Giorgio Berrugi per Remigio da Varagine, Paolo Antognetti per Severino da Sant’Emmerano e Leonardo Cortellazzi per Venanzio e Alborea. Un terzo cameo, vista anche l’ardua pretesa di scrittura vocale, è quello di Carlo Vistoli, il principe dei controtenori italiani e uno dei due consoli tra quelli mondiali: ha spazio per brillare soprattutto nel prologo, agonizzando nei panni di Adelmo da Otranto, e prosegue fino a poco meno della metà dell’opera, prestandosi anche come Berengario da Arundel; ma ci si chiede dunque per quale ragione la ben più esposta parte di Malachia sia stata affidata a un altro controtenore, il flebile e stridulo Owen Willetts, nemmeno paragonabile per pregnanza declamatoria, sollecitudine espressiva e padronanza scenica. A Parigi e a Genova si raddrizzerà ciò ch’è sviato?

Leggi anche

Milano, L’opera seria, 06/04/2025

Milano, Tosca, 15/03/2025

Milano, Evgenij Onegin, 22/02/2025

Milano, Die Walküre, 23/02/2025

Milano, Falstaff, 16/01/2025

Milano, La forza del destino, 07/12/2024


Vuoi sostenere L'Ape musicale?

Basta il costo di un caffé!

con un bonifico sul nostro conto

o via PayPal

 



 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.